Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

In metafisica, o filosofia prima (secondo Aristotele) i “Trascendentali” (Vero-Verità, Bene-Bontà, Uno-Dio, Bello-Bellezza) si pongono dinnanzi alla Realtà, o, concettualmente, al-di-sopra: in questo articolo esaminiamo, intanto, la relazione esistente tra il Vero-Verità e la Realtà ontologica (intendendola come “cio-che-ex-istit”, “esiste”, vale a dire “possiede l’essere-che-appare-alla-percezione-umana”), due concetti talvolta confusi o considerati e utilizzati ambiguamente, ma necessariamente correlati. Oppure tra la “verità di fatto” e la “verità processuale”, come si osserva nei casi, quello attuale di Garlasco, e quello dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto 50 anni fa, esatti. Entrambi “verità”, ma non necessariamente corrispondenti alla “realtà dei fatti”. Possiamo aggiungere a questi casi il tremendo abbaglio di un errore giudiziario che è costato 33 anni di carcere al signor Beniamino Zuncheddu, che non uccise nessuno e fu condannato per un duplice omicidio di cui si assunse la responsabilità una terza persona decenni dopo i fatti. In futuro, se ne avrò la forza, comparerò anche gli altri tre (Bene-Bontà, Uno-Dio e Bello-Bellezza) con la Realtà. Domanda retorica: di questi tempi può essere ritenuto utile, opportuno o addirittura necessario occuparsi di questi concetti filosofici “alti”, mentre la confusione, la superficialità conoscitiva ed espressiva, la disonestà intellettuale e l’immoralità regnano sovrane nel quotidiano agire, dire ed osservare individuale, sociale, economico e politico dell’uomo?

I “trascendentali” sono concetti della filosofia classica, e in particolare della metafisica o filosofia prima, che sintetizzano gli aspetti più importanti della vita umana e del giudizio veritativo (concernente il vero e il falso) e morale che l’uomo stesso esprime su di essa e sul proprio agire.

In metafisica, essi sono le proprietà universali dell’essere, che vanno-oltre (cioè tra-scendono) le categorie e i giudizi particolari. Tradizionalmente, i principali trascendentali sono unità (unum), verità (verum) e bene (bonum), cui si può aggiungere anche il bello (pulchrum). Questi caratteri si applicano a ogni ente, qualificando la realtà in sé, e fungono da ponte tra l’essere trascendente e l’essere immanente, se si ammette che si possano dare tutte e due queste dimensioni.

Specifico questo, poiché non è scontato che, in generale, le si ammettano: infatti il pensiero materialista, atomista (Democrito), positivista (Comte) e senza dubbio alcuno quello hegelianomarxiano, o quello fenomenologico (Husserl), esistenzialistico (Heidegger, e soprattutto Sartre) o linguistico (Wittgenstein), non ammettono l’essere trascendente, ma neppure quello… immanente. Infatti, questo pensiero non dà la plausibilità dell’essere, ma solo quella dell’esistere.

Per chi non ammette l’essere, la verità stessa non-esiste, ma esistono solo le cose-vere. Per costoro si può dare solamente l’attributo “vero-non vero”. Spesso queste persone fanno coincidere semplicisticamente verità con realtà. Senza farsi alcuna domanda circa quale piano logico le collochi in una condizione semantica di omonimia.

Proverò a spiegare la ragione per cui non è corretto far coincidere – senza i dovuti approfondimenti – il significato di questi due termini, con un esempio: nel diritto e nella prassi del processo penale può darsi che una testimonianza, che appare vera (in quanto reale), cioè rispondente – per quanto è dato sapere agli inquirenti – sia invece falsa, cioè non-vera. Ebbene, finché l’inchiesta su un determinato reato non riuscirà a stabilire che quanto viene detto corrisponde al vero, la realtà processuale continua a basarsi sul falso, e a volte fa esprimere alla giurisdizione una sentenza sul falso, condannando erroneamente un innocente. Si dice a quel punto che le sentenze (si considerino, ad esempio, la terribile vicenda di Beniamino Zuncheddu che scontò 33 anni di carcere da innocente, o il drammatico, ma oramai quasi grottesco, caso di Garlasco, che tutti conoscono) esprimono la verità processuale, anche quando quest’ultima non pare corrispondere, o non corrisponde alla verità dei fatti (fattuale).

In quest’ultimo caso la realtà della sentenza che qualche anno fa condannò il dottor Alberto Stasi, facendolo incarcerare, è… falsa (?). In questo caso la “filosofia prima” mi aiuta a definire la mia opinione sul caso, poiché la realtà vera dell’omicidio della povera Chiara Poggi è conosciuta (a questo punto) solamente ex parte Dei (o sub specie aeternitatis), vale a dire “dal punto di vista di Dio“. Non da parte degli uomini.

L’omicidio di Pier Paolo Pasolini esattamente 50 anni fa, concluso processualmente con la condanna del ragazzo diciassettenne Pino Pelosi, ma pieno di dubbiosità presenti sia nelle requisitorie dei PM, sia nel dispositivo della sentenza, per cui si sono ipotizzate altre presenze umane al delitto, è un altro caso nel quale realtà fattuale e verità hanno ferocemente litigato. Le ragioni e il movente dell’assassinio sono rimasti controversi e oltremodo misteriosi, sui quali si sono costruiti castelli di sabbia.

Forse la saccentissima (e inutilmente aggressiva) criminologa e psicologa Bruzzone (a mero titolo di esempio), e anche altri e altre potrebbero studiare un po’ di filosofia prima, che li/le aiuterebbe ad evitare le figuracce che stanno facendo coram populo televisivo cotidie.

Tant’é che sull’omicidio di Chiara Poggi (finalmente) si rifarà il processo, nel quale saranno finalmente coinvolti altri soggetti che nelle precedenti fasi erano stati esclusi o… colpevolmente tutelati (?), anche in ragione di fatti corruttivi (?). I punti di domanda sono collocati tra parentesi per rispetto della procedura giurisdizionale in corso.

Un terzo esempio di non-corrispondenza tra verità soggettiva e realtà fattuale è facilmente riscontrabile in ciò che afferma la dottoressa Francesca Albanese sulla questione di Gaza. Il saggista Antonio Polito, tra altri che hanno facilmente sgamato la sedicente avvocato, riferisce questi tre punti, che smascherano la “relatrice speciale dell’Onu”, in quanto costituiscono autentiche arroganti aberrazioni: la prima: la Albanese dice che chi non definisce “genocidio” ciò che è avvenuto a Gaza, erra sotto il profilo logico-fattuale: ciò non è assolutamente vero, sia sotto il profilo giuridico sia sotto il profilo storiografico, come ho mostrato scientificamente nel post di domenica scorsa, e non mi ripeto; la seconda, quando dice che la senatrice Segre non ha diritto di parlare della Shoah in quanto coinvolta nella tragedia dell’Olocausto, perché sarebbe come (usa la seguente orrribile metafora) se uno colpito da un tumore andasse da un’altra persona che è stata colpita antecedentemente da un analogo tumore, invece che dall’oncologo; come dire che la signora X cui è capitato lo stesso male ematologico che colpì me qualche anno fa, non avrebbe avuto il diritto di interpellarmi, come ha fatto utilmente, poiché ho contribuito a rassicurarla (per quanto possibile): follia? peggio: stupidità crudele; la terza, la senatrice Segre, secondo Albanese, non può più parlare della Shoah, perché gli isreliani, con il loro comportamento attuale, hanno tolto questo diritto a chi è stato vitttima del nazismo.

Non posso dimenticare la squallida sceneggiata che questa signora ha interpretato a Reggio Emilia, quando, di fronte a un popolo pro pal osannante, ha umiliato un sindaco sprovveduto addirittura degnandosi di perdonarlo, ma solo se non avesse mai ripetuto che gli ostaggi israeliani andavano liberati. Per descrivere questo fatto vorrei ricorrere a tutte le parolacce del vocabolario, e anche a quelle che non sono ancora state censite.

Vero-Verità e Realtà sono dunque sempre sulla bocca di tutti, propriamente, ma più spesso impropriamente, perché realtà e verità possono – in vari modi – non coincidere.

(Albert Einstein vs. Verità&Realtà)

Una rigorizzazione dei termini

E’ indispensabile “rigorizzare” i termini che si usano nel linguaggio parlato e scritto, effettuando quello che i nostri grandi antichi definivano explicatio terminorum.

La realtà è ciò-che-esiste e che-può-essere-percepito, anche se l’esperienza soggettiva di essa è filtrata dal nostro cervello. La verità è la corrispondenza tra la descrizione di ciò che l’uomo vede o ritiene di vedere (l’enunciato), e la realtà stessa. Parlando dell’essere abbiamo echeggiato che la verità si possa intendere come l’essenza più profonda delle cose, in contrasto con le apparenze e le percezioni individuali, mentre la realtà è il modo di essere delle cose indipendentemente dalla mente umana, che percepisce in modo assolutamente soggettivo. 

Realtà è dal lemma latino res, che significa cosa, oggetto e sinonimi altri, mentre verità è dal latino veritas. In greco, per verità si trova il termine alétheia, che però presenta piuttosto altre strutture semantiche significanti.

Per Martin Heidegger, alétheia è il concetto greco di verità inteso come svelamente e nonnascondimento, contrapposto alla tradizione moderna della verità come “corrispondenza” (cioè, verità come giudizio adeguato). Per lui, la verità originaria è l’apertura (Enthülltheit) dell’essere stesso, il processo in cui le cose si rivelano e si manifestano, liberandosi dal nascondimento, tramite una “onticità”. In greco, verità (ἀλήθεια- alètheia) viene dal verbo λανθάνω, che significa sono nascosto.

Riassumendo

Termini come questi possono assumere significati e sfumature diverse a seconda dei contesti culturali, storici, filosofici in cui vengono usati. Se vogliamo generalizzare e prendere come campo semantico di riferimento il senso comune, l’uso quotidiano che si fa dei due termini, realtà è qualcosa che si conosce con i sensi, che si può indicare e definire esistente perché la si vede, la si tocca, la si annusa, la si assaggia, la si sente. “Reale” è contrapposto a immaginario, inventato, frutto della fantasia. Verità può coincidere con realtà o anche no. Certe cose possono essere reali ma non vere (es. una banconota falsa) oppure vere ma non reali nel senso di percepibili con i sensi esterni (ad esempio, appunto, certi concetti astratti, frutto dell’intelletto).

Se invece ci spostiamo sul piano ontologico-metafisico, i due termini coincidono. Ciò che è vero è reale e ciò che è reale è vero. È il piano dell’essere, della consapevolezza, lo si conquista con l’indagine interiore e va oltre la riflessione razionale. Si tratta, sia di un concetto filosofico sia di un’esperienza interiore, ancor più profonda dell’esperienza del mondo esterno fatta con i cinque sensi. Il focus qui non è sul mondo esterno, ma è sul mondo interiore, sul soggetto. Il quale soggetto, ad esempio per Descartes e per i filosofi tedeschi dell’idealismo ottocentesco Fichte, Hegel e Schelling, è l’unica realtà. Il mondo esterno è reale solo in quanto conosciuto dal soggetto, il quale è, per sé, la propria verità. Essa non è un concetto astratto, ma qualcosa di concreto perché è, momento per momento, ciò che il soggetto scopre grazie alla propria consapevolezza.

Verità e realtà dunque corrispondono a contenuti diversi solo ammettendo che la fonte del vero sia qualcosa di oggettivo, riferito a sistemi di credenza che dovrebbero essere validi per tutti. Superato tale punto di riferimento, una volta che l’essere umano si riconosce dentro di sé colui che è, non vi è più motivo di credere vero qualcosa di esterno alla propria realtà ontologica “Io sono” (si pensi che questo sintagma “io sono (colui che sono)” è la stessa auto-definizione di Dio sul Sinài a Mose, cf. Esodo 3, 14, poi ripresa da Gesù nel Vangelo secondo Giovanni al cap. 6, 35). Sempre per i filosofi citati qui sopra.

Allora, l’uomo è come Dio?

…solo che la realtà-vera esiste (ha un’essenza) anche indipendentemente da me-soggetto, anche quando dormo e sono in-cosciente o dopo la mia morte (o prima della mia nascita), come ha sempre ritenuto il realismo filosofico, da Aristotele a Tommaso d’Aquino e fino a noi.

A mio avviso, affermare e sostenere che la realtà-verità ha valore solo in tanto in quanto la percepisco, si compie un atto di enorme arroganza. Se le scoperte geografiche (con i grandi viaggi) e astronomiche (Copernico, Galileo, etc.), e la rivoluzione filosofico-scientifica (Descartes, Bacon, etc.) dei XVI e XVII secc. sono state fondamentali per far ripartire un pensiero bloccato sul racconto biblico, ciò ha dato all’uomo, non solo le chiavi corrette di lettura della realtà fisica, ma gli ha anche suggerito di ritenersi capace di una comprensione del mondo indipendente dalla realtà oggettiva del mondo stesso.

Lo sviluppo ulteriore di questo pensiero ha avuto due percorsi: uno capace di approfondire ulteriormente la conoscenza del reale-vero, superando i limiti del mito biblico e la scienza classica, dando il giusto valore all’essere umano (cristianesimo vs illuminismo e diritti umani), e un altro, come spiego sopra, fomite di arroganza e di prevaricazione cognitiva. Questa seconda strada, se da un lato ha anche contribuito a riportare il dialogo tra pensiero filosofico e scienze fisiche (relatività generale e quantistica), dall’altro ha esaltato la soggettività individuale fino a far coincidere il giudizio sulla realtà con il sentimento soggettivo hic et nunc, come nel caso della teoria del gender, che sospende ogni oggettività in nome di un assurdo individualismo.

Se René Descartes, meritevole di aver riposto l’uomo al centro, vedesse le derive odierne del suo cogito, ergo sum, si ritirerebbe inorridito in un inaccessibile eremo, ma poi smaschererebbe i falsi maestri, ecco, i portatorì di una concezione della vita falsa e negativa. Senza paura alcuna, e troverebbe me, nel mio piccolo, a combattere la buona battaglia per la verità (che non possiedo)… anche perché la verità si presenta, a volte, su vari livelli. Un esempio: a chi conviene la guerra in Ucraina? Lascio in sospeso la mia domanda, che non è nemmeno maliziosa, perché suppone il sostrato di interessi che si muove sotto ciò che appare.

Post correlati

0 Comments

Leave a Reply

XHTML: You can use these tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>