Il prossimo domenicale del 21 settembre 2025 tratterà dell’omicidio di Charlie Kirk, del suo assassino (?) Tyler Robinson (?) e dei “dintorni”, ma intanto, in tempi di trucide violenze e di insane guerre (Ucraina, Gaza, Sudan e altre diecine), che molti (stati e persone) promuovono per cinica convenienza, porgo un omaggio – controintuitivamente – a due militari: al “Leone del Panshir”, Aḥmad Shah Masʿūd (m. nel 2001), e ad un patriota italiano, il generale Nicola Bellomo (m. nel 1945), che pochissimi conoscono e ricordano. Ambedue uccisi, il primo dai criminali di Al Kaeda, il secondo fucilato ingiustamente dagli Inglesi… perché la forza, e anche la violenza, nel consorzio umano, si possono esercitare con viltà o con lealtà, come fecero i due uomini di cui qui parlo, e anche altri due che conobbi personalmente
Se c’è un mausoleo che voglio visitare per ivi sostare qualche tempo in silenzio è quello di Aḥmad Shah Masʿūd, il capo afgano fatto assassinare da quel criminale che è stato Osama Bin Laden.

Aḥmad Shāh Masʿūd, in tagico احمد شاه مسعود?, noto anche con lo pseudonimo di generale Massoud, nato a Bazarak il 2 settembre 1953 e morto ammazzato a Takhar, sempre in Afganistan, il 9 settembre 2001, è stato un patriota, un militare-guerrigliero, un politico afgano meritevole di essere onorato per avere eroicamente combattuto contro i sovietici brezneviani invasori (mentre scrivo queste parole e queste righe mi tornano alla mente anche tutti gli altri vergognosi colonialismi “democratici” di inglesi, francesi e statunitensi, cui non tolgo meriti oggettivi per altre note ragioni, e anche quello degli Italiani-non-brava-gente), contro i “talebani” e contro i terroristi islamisti. Era il “Leone del Panjshir” (Shir-e Panjshir). E non era solo un uomo di battaglie, perché amava la poesia e i racconti degli antichi sapeinti afgani.
Di formazione franco-sovietica, musulmano non estremista, il Comandante era un nazionalista razionale, senza fanatismo. Inizio la sua battaglia politico-militare poco più che ventenne, partecipando all’Organizzasione delle gioventù musulmane guidata dal suo professore Buhanuddin Rabbani. E fu subito, nel 1979 l’invasione sovietica che Breznev volle per portare più a sud la zona di influenza asiatica del grande paese comunista.
Dal Pakistan dove si trovava, Masʿūd tornò clandestinamente in patria, nell’originario Panjshir, e a organizzare, con considerevoli difficoltà, ciò che costituirà, sia in termini di organico che di struttura organizzativa, la base della resistenza da lui guidata.
Da 1979 al 1989 si trattò di organizzare una struttura che potesse far fronte alla profonda asimmetria di forze che caratterizzò il conflitto con l’Unione Sovietica, che gli suggerì di organizzare la resistenza afgana sull’esempio di altri movimenti di liberazione nazionale come quello che qualche anno prima aveva guidato in Vietnam il generale Nguyen Giap. Strategia che fu vincente. Qualcuno ha paragonato il Comandande Masʿūd al Che Guevara, a mio avvso con scarsissimo acume. Il Leone del Panjshir non si sarebbe mai romaticamente e tragicamente fidato nella sollevazione dei contadini (come fece il “Che” in Bolivia nel 1967), se non fosse stato profondamente radicato nel mondo agrario e montano dell’Afganistan. I contadini e i montanari afgani erano con il Comandante. Trascuro di dire che egli fu anche profondamente diverso dal guerrigliero argentino in termini di umana pietas in guerra: Guevara non esitava a far fucilare chiunque non fosse con lui. il Comandante afgano no.
L’Armata Rossa batté in ritirata anche a causa della strenua resistenza offerta dalle milizie di Masʿūd durante le dieci offensive che i sovietici sferrarono contro la valle del Panjshir.
Nel 1995 il movimento dei “talebani”, gli studenti islamici, lo pose di nuovo alle prese con un pericoloso avversario. Masʿūd combatté i talebani per due anni, prima di essere costretto ad abbandonare Kabul nel settembre 1996. Con la conquista di Kabul da parte dei talebani, Masʿūd ripiegò nella valle del Panjshir, dove ingaggiò una dura resistenza che gli valse il soprannome di “Leone del Panjshir”.
Il Comandante si oppoese ai talebani, che avevano instaurato un emirato islamico, ispirato a una rigidissima interpretazione del Corano, opprimendo le donne che furono deprivate di ogni diritto politico e civile, interdette all’istruzione e alla vita sociale (e sono tornati nel 2023 dopo le vergognose vicende targate Trump&Biden, e incauti predecessori di ambedue gli schieramenti come Bush jr e Obama). Il terrore islamista fu rappresentato in modo drammaticamente clamoroso dalla distruzione dei grandi Buddha di Bamiyan il 26 febbraio 2001, per ordine del Mullah Omar.
Da 1996, il Comandante replicò contro i talebani la strategia che aveva usato con successo contro i Sovietici: guerriglia tra valli e montagne. A questa coraggiosa battaglia sia aggiunse il contributo americano. I talebani erano per il momento (lo sappiamo) sconfitti, ma il Comandante aveva urtato l’estremismo islamista.
Masʿūd fu assassinato tramite un attentato suicida il 9 settembre 2001 (due giorni prima degli attentati negli Stati Uniti) a Khvājeh Bahāʾ od-Dīn da due tunisini che si fingevano giornalisti di una emittente marocchina, reclutati, secondo quanto scoperto dalla polizia belga, a Bruxelles dal loro connazionale Emiro (termine usato per indicare comandanti militari o, come in questo caso, capi terroristi) Sayf Allāh Ben Hassine, capo e fondatore di una organizzazione salafita tunisina appartenente alla costellazione qaedista. La bomba, nascosta nella telecamera dei due finti giornalisti, provocò la morte immediata di uno degli attentatori e il ferimento del secondo, poi ucciso in un tentativo di fuga. Dopo l’attentato, infatti, il secondo falso giornalista fu catturato dalle guardie del corpo di Masʿūd e messo in una cella. Riuscì a scappare ma, quando fu scoperto, tentò di usare la sua pistola, venendo ucciso con un colpo di fucile da una guardia del corpo. L’omicidio mirato, avvenuto a due giorni dall11 settembre passò quasi in sordina nell’informazione internazionale, ma può essere che Bin Laden abbia voluto così quasi annunziare il terribile attentato americano.
Al funerale di Masʿūd si calcola che fossero presenti circa centomila persone. Il suo corpo fu tumulato nella città natale di Bazarak, nella valle del Panjshir.

Nel 2002 venne candidato al premio Sakharov per la libertà di pensiero dal Parlamento europeo. Nello stesso anno, il 25 aprile, Aḥmad Shāh Masʿūd è stato proclamato ufficialmente eroe nazionale. Entrato nel mito, è stato raccontato in libri, video e film. Ricordo solo questo: il cantautore Sköll ha dedicato a lui un brano intitolato Comandante Massoud. Il gruppo corso Voce Ventu ha dedicato un brano al Comandante Masʿūd intitolato Rughju di vita.
Lo ricordo anch’io con ammirazione e rispetto.
Nicola Bellomo (Bari, 2 febbraio 1881 – Nisida, 11 settembre 1945) è stato un generale italiano.
Una storia d’Italia, strana, tragica, perché, pur essendo stato un ottimo ufficiale, leale e coraggioso, finì fucilato dagli inglesi doopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Gli inglesi. Gli inglesi, che dopo aver accompagnato Garibaldi nell’impresa dei Mille, e fornito qualche aiuto all’esercito italiano nel 1918, ma non per amore e solidarietà all’Italia, da quel momento si posero in ogni momento contro l’Italia, che Churchill desiderava trasformare in un protettorato britannico. Ci mancò poco che facessero togliere di mezzo Alcide De Gasperi, come mostrano documenti del Foreign Office recentemente desecretati. E certamente non piansero quando Enrico Mattei e Aldo Moro furono assassinati. Gli inglesi.
Il generrale Bellomo, fu però fu decorato dalla repubblica Italiana con la Medaglia d’argento (perché non d’oro?) al valor militare. Un po’ della sua storia.
Bellomo è stato un ufficiale di carriera, che si era distinto per coraggio e leadership nella Prima Guerra mondiale, come capitano di artiglieria. Il suo carattere era mite e nel contempo spigoloso e determinato molto apprezzato sia da sopra sia dai sottoposti.

Dopo essere stato congedato nel 1936, fu richiamato in servizio nel 1941. Ebbe immediatamente modo di mettere in mostra le sue qualità, con la cattura dei paracadutisti inglesi che avavano già dato prova di pericolosità. E iniziò la vicenda che l’avrebbe portato alla morte. Dopo la cattura, Bellomo impedì ai civili di eseguire una sommaria esecuzione dei sabotatori. La notte del 30 novembre 1941, due ufficiali inglesi – il capitano George Playne e il tenente Roy Coston Cooke – fuggirono dal campo di prigionia di Torre Tresca, ma furono ricatturati alcune ore più tardi. Riportati al campo, trovarono ad accoglierli il generale Bellomo e il capitano Sommavila, che vollero farsi mostrare dai due ufficiali il punto esatto da cui erano evasi e le modalità di evasione. Infatti il controspionaggio italiano sospettava l’esistenza di una rete spionistica inglese che si avvaleva dell’aiuto di ufficiali italiani. In quell’occasione, i due ufficiali inglesi – secondo la ricostruzione italiana – avrebbero approfittato dell’oscurità per tentare nuovamente la fuga.
A quel punto Bellomo ordinò di aprire il fuoco: il Capitano Playne fu raggiunto alla nuca da un solo colpo che gli risultò fatale, mentre il Tenente Cooke fu ferito ad un gluteo. L’inchiesta interna avviata dall’Esercito Italiano e condotta dai generali Luigi De Biase (comandante del IX corpo d’armata di Bari) e Enrico Adami Rossi (comandante della Difesa territoriale di Bari) avvalorò la tesi fornita dal generale Bellomo, surrogata anche dalle dichiarazioni e dalle testimonianze degli altri militari presenti all’accaduto, ovvero che il generale Bellomo avesse dato ordine di sparare solo dopo la fuga dei due ufficiali inglesi. Qualche mese più tardi, si indagò di nuovo sull’accaduto, questa volta con una nuova inchiesta sollecitata dal Governo britannico che affidò l’incarico alla Legazione svizzera a Roma e alla Croce Rossa. Anche questa nuova inchiesta pervenne alle medesime conclusioni della precedente.
Il 26 luglio1943 Bellomo fu nominato comandante della “Piazza militare di Bari”. Il 9 settembre 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, a Bari il Generale Bellomo venne fortuitamente a conoscenza della notizia che il generale tedesco Sikenius aveva mandato dei guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città. Bellomo raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza.
A questi si affiancarono dei genieri del 9º Reggimento guidati dal sottotenente Michele Chicchi. Con questi ridotti nuclei attaccò i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura. Costretti sulla difensiva, i tedeschi furono obbligati ad una ritirata da due attacchi condotti dal generale Nicola Bellomo e infine alla resa. Bellomo fu anche ferito durante questi scontri.Bellomo riuscì anche a coinvolgere i civili nella difesa della città, tanto che ragazzi di Bari vecchia affrontarono i tedeschi con armi in parte fornite dallo stesso Bellomo, tra cui alcune casse di bombe a mano. Ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti.
Il Generale Bellomo mantenne la sua carica fino al 28 gennaio 1944, quando la polizia militare britannica lo arrestò nel suo ufficio “per aver sparato o fatto sparare contro due ufficiali britannici, causando la morte di uno di essi e il ferimento dell’altro“. Al momento dell’arresto, non esistevano a carico del generale elementi precisi in mano agli inquirenti inglesi. Solo il 5 giugno 1945 (dopo circa un anno dall’arresto) il tenente Roy Roston Cooke presentò una denuncia scritta e circostanziata contro il generale stesso, il quale, nel frattempo, era stato più volte trasferito tra i campi di concentramento alleati di Grumo Appula, di Padula e di Afragola (il campo 209). Il 14 luglio gli fu comunicato il deferimento dinnanzi alla Corte Marziale e accusato di aver sparato con la propria Colt Pocket contro i due ufficiali inglesi, nonostante Bellomo avesse sempre negato – sotto giuramento – di aver mai usato l’arma in quel frangente. Lo stesso Bellomo ricostruì così gli avvenimenti:
«Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Playne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano miei subordinati, ubbidivano soltanto ai miei ordini»
(Nicola Bellomo durante la propria difesa.)
La Corte, il 28 luglio, dopo poco più di un’ora di camera di consiglio pronunciò la sentenza di condanna a morete, poi eseguita mediante fucilazione presso il carcere di Nisida. Bellomo rifiutò di inoltrare richiesta di grazia. Il generale Bellomo fu l’unico ufficiale italiano fucilato, per “crimini di guerra”, a seguito di una sentenza emessa da un tribunale militare speciale britannico.
Nel 2005 l’allora sottosegretario alla Difesa Rosario Giorgio Costa durante una celebrazione della giornata della Forze Armate annunciò l’intenzione di aprire un processo di riabilitazione di Bellomo. La città di Bari gli ha dedicato via Generale Nicola Bellomo, vicino al Policlinico Cotugno.
Aspetti controversi sull’operato della Corte Marziale britannica
L’operato della Corte Marziale britannica è considerato controverso: essa non si avvalse delle due precedenti inchieste svolte l’una del Regio Esercito italiano e l’altra dalla Croce Rossa su input dello stesso Governo britannico, e non fu permesso al generale Enrico Adami Rossi, chiamato dalla difesa ma prigioniero degli americani, di poter testimoniare, mentre la testimonianza del generale De Biase, raccolta da un ufficiale dei carabinieri, non fu accettata poiché mancante della formula del giuramento. Non si diede alcun peso alle contraddittorie dichiarazioni del tenente Cooke (prima asserì che le sentinelle italiane gli spararono da distanza, poi ritrattò dicendo che fu il generale Bellomo in persona a sparare a bruciapelo a lui e al capitano Payne).
Bellomo fu inoltre accusato dai quattro militari italiani che avevano partecipato all’arresto del tenente Cooke e del capitano Playne che raccontarono versioni contrastanti tra loro. Il sottotenente Stecconi testimoniò di essere disarmato e che Bellomo aprì il fuoco senza dare alcun ordine. Il soldato Gigante sostenne invece che fu dato l’ordine di fare fuoco ma di non aver fatto fuoco. Il soldato Olivieri raccontò anch’esso di aver ricevuto l’ordine di sparare ma di aver sparato in aria. Il soldato Curci sostenne anch’esso di aver sparato in aria e accusò anche Sommavilla.Testimoniarono tutti e quattro di non aver sparato ai prigionieri e che fu lo stesso generale ad uccidere il prigioniero, ma Bellomo era armato con la pistola mentre le ferite sul corpo dei due fuggitivi erano causate da proiettili di fucile.
In un suo libro Peter Tomkins – referente dell’OSS (i Servizi segreti britannici) a Roma nel 1944 – sostiene, riprendendo le conclusioni di Riggero Zangrandi, che il generale Bellomo fu vittima delle macchinazioni di Badoglio e dei monarchici che volevano eliminare un testimone pericoloso dei giorni della fuga del dopo 8 settembre:
«Dopo una lunga e accurata ricerca sulle circostanze relative all’arresto di Bellomo, Zangrandi è stato in grado di documentare come la corte britannica fosse stata tratta in inganno da Badoglio e da agenti monarchici che, in tutta segretezza, fecero ricorso al falso per favorire la fucilazione di Bellomo. Essendo l’unico generale italiano che di propria iniziativa combatté i tedeschi e mantenne la città di Bari fino all’arrivo degli Alleati, rappresentava una minaccia per il re e per Badoglio, perché rivelava al mondo lo squallore del loro tradimento.»
(Peter Tompkins)
Commenta invece Eugenio Di Rienzo citando Emilio Gin:
“La faziosità del dispositivo della corte militare britannica, contrario alla Convenzione di Ginevra e al più elementare criterio di giustizia, non sfuggì al corrispondente inglese Steve Ray. Il giornalista scriveva infatti al deputato laburista Igor Thomas di ritenere che «il verdetto è contro il peso delle prove, che le capacità di accusa e difesa non erano eque, che insufficiente rilevanza è stata data a chiare circostanze attenuanti e al comportamento di Bellomo tenuto subito dopo l’8 settembre».
Secondo la testimonianza di Ray, l’affare Bellomo sarebbe stato quindi un vero e proprio caso di «giustizia politica», con il quale l’Alto Comando inglese dava libero sfogo alla sua volontà punitiva nei confronti dell’ex avversario di guerra, l’Italia. Questa interpretazione largamente diffusa non convince però Gin che si mostra scettico anche nei confronti della tesi secondo la quale la decisione del tribunale sarebbe stata influenzata da una fitta trama di delazioni orchestrata dagli elementi baresi maggiormente compromessi con la dittatura fascista. Più verosimile appare invece a Gin l’esistenza di una «pista rossa» che avrebbe condotto Bellomo dinnanzi al plotone d’esecuzione. L’inflessibilità del comandante della Piazza di Bari e la sua decisione nel far rispettare rigidamente l’ordine costituito accrebbe il numero dei suoi nemici ben oltre la cerchia dei conniventi con le forze germaniche e dei nostalgici del caduto regime. Il CLN pugliese non esitava infatti a definirlo senza mezzi termini «un nevrastenico» e «un ex fascista», accusandolo esplicitamente di essere uno dei maggiori ostacoli alla rinascita della vita democratica nella regione in linea con l’impostazione reazionaria del governo Badoglio.
Inoltre, in quel torbido settembre del 1943 un flusso continuo di denunce, per lo più anonime, relative a casi di favoreggiamento col nemico da parte dei comandi militari italiani, avvenute durante gli scontri successivi all’armistizio, venivano indirizzate alle autorità militari inglesi. Gli stessi Carabinieri Reali non erano rimasti incolumi da quella che apparve ben presto come una vera e propria campagna di criminalizzazione volta a discreditare le forze regolari italiane e l’istituzione monarchica. Di quella campagna Bellomo finì per essere la principale vittima, ma con la condanna infamante che pose fine alla sua vita si volle far scomparire soprattutto la memoria della resistenza del ricostituito Esercito italiano che, tra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, arrivò a schierare circa mezzo milione di uomini, inquadrati in sei Gruppi di combattimento, fornendo un concorso sicuramente più decisivo alla sconfitta delle forze naziste di quello rappresentato dalle sparute formazioni partigiane.
Il Ricordo
Il 28 aprile 2023 il Sindaco di Bari ed il Comandante delle Forze Operative Sud dell’Esercito, alla presenza anche dei familiari del Generale Bellomo, scoprivano sull’isola di Nisida una targa ricordo nel luogo della fucilazione, recuperando altresì l’originaria lapide posta nel sito della prima tumulazione e piantando un albero d’ulivo donato da cittadini del barese. Le lapidi:
Morire vuol dire sopravvivere con queste parole il Generale NICOLA BELLOMO eroico difensore di Bari si immolò su questa isola l’11.9.1945 orgogliosamente consapevole di dare col proprio sacrificio gloria al Suo nome ed all’Esercito Italiano
In questo luogo all’alba dell’11 settembre 1945 veniva fucilato il generale Nicola Bellomo eroe dei due conflitti mondiali. Il tempo gli ha già reso giustizia (Le notizie biografiche e del processo/ condanna a morte sono state reperite da varie fonti sul web) Le altre due persone che uccisero in guerrra e che metto vicino a Bellomo e a Ma'sud Shah sono mio padre Pietro, servente alla mitragliatrice pesante Breda in Grecia e in Jugoslavia dal 1941 al 1943, che uccise all'arma bianca un partigiano (non seppe mai dirmi se titino o cetnico) che lo aveva aggredito nottetempo mentre montava la guardia al campo. Mi raccontò questo fatto dopo che ebbi compiuto i vent'anni, e aggiungeva sempre "ero andato a casa loro e si difendevano... mi dispiace molto"; l'altra persona è mio suocero Cesare. medaglia di bronzo e croce di guerra al valor militare con soprasoldo, che facendosi largo con le bombe a mano, dopo che il cannoncino 45 si era bloccato per il freddo, con cui cercavano di contrastare i carri armati T72, trasse sé stesso e diversi commilitoni della Brigata Julia da una sacca dove erano stati circondati dalle fanterie corazzate sovietiche nei pressi di Rossosch sul Don, e mi diceva sempre (per il poco tempo che potei frequentarlo, perché mancò a neanche 65 anni) che era stato costretto ad andare in una guerra brutta e sbagliata. All'amico Pierluigi, che mi diceva qualche giorno fa "non sono esperto di queste cose", ho risposto che l'uomo, ancora incapace di non fare la guerra, deve potere difendersi, anche uccidendo chi lo aggredisce, anche se lui stesso è... l'aggressore: elementare principio di sopravvivenza. Si tratta del male che è e persiste nell'uomo.
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E così anche il Gen.Bellomo ha offerto il suo tributo di sangue alla parola d’ordine che più è stata scambiata ( e tuttora viene sussurrata) in Italia e nel mondo: ordisco e non ardisco.
Caro Sergio,
il tuo commento ermetico, quasi ungarettiano, richiede la giusta attenzione al lettore, quasi come esercizio obbligato, di questi tempi sgangherati e superficiali, grazie, renato