L’attuale “cultura” woke è paragonabile al Bücherverbrennungen, cioè il rogo dei libri “degenerati” che nel 1933 Hitler e Goebbels vollero fare in Germania?
Appena avuto l’incarico di cancelliere dal Presidente Paul Von Hindenburg, Adolf Hitller, che si era già circondato dei suoi primi e principali adepti come Goering e Goebbels, iniziò immediatamente a costruire uno stato che fosse conforme all’ideologia nazionalsocialista, che aveva pubblicamente presentato fin dal suo Mein Kampf del 1923. Già in quel testo il futuro Führer aveva chiarito la propria volontà di costruire uno stato germanico fin dai fondamenti storico-culturali e antropologici della Tradizione mitica dell’antica Germania, nei quali traspariva una volontà di potenza (nefanda parafrasi della omonima dottrina nietzscheana, che aveva ben altre connotazioni filosofico-morali di cui l’hitlerismo aveva cercato di impadronirsi) pangermanista, un’aggressività verso le altre nazioni, un antisemitismo violento, una visione dell’uomo e della cultura totalitaria e antidemocratica.

Tali intenzioni, non appena raggiunto il potere, furono immediatamente poste in atti e decisioni concrete, tra le quali un attacco visibilissimo e violento contro tutto ciò che rappresentava la cultura democratica precedente, liberale e socialista, la narrativa non nazionalista (un esempio di questa avversione fu la distruzione delle copie del romanzo a tema di guerra Niente di nuovo sul fronte occidentale di Eric Maria Remarque, il quale “cantò” gli orrori delle trincee del fronte franco-tedesco nelle battaglie sanguinosissime di Verdun e della Somme), le arti figurative contemporanee, ritenute degenerate, come l’espressionismo (forma artistica tipicamente tedesca, come in un Georg Grosz), il dadaismo, il futurismo.
In ciò imitando ciò che in Unione Sovietica lo stalinismo aveva iniziato a fare con il ministro della cultura Andrej Ždanov. I totalitarismi hanno molti punti in comune, basta sull’illibertà e sull”oppressione delle persone, delle menti e dei cuori, in nome di un ideale collettivistico antiumano. Ciò nonostante, nella Germania hitleriana sopravvissero momenti ed episodi che mantennero in qualche modo vive le tradizioni citate, perché nessuna dittatura riesce mai a spegnere completamente la libertà di pensiero e la creatività umana.
I cosiddetti Bücherverbrennungen sono stati dei roghi di libri e documenti organizzati nel 1933 dalle autorità della Germania nazista, come simboli ritenuti contrari a ciò che voleva essere, ed anche essere percepita la Germania del Terzo Reich.
Il più grande rogo avvenne il 10 maggio 1933 nell’Opernplatz berlinese; in quel giorno, infatti, si organizzò un grande falò dove vennero gettati i libri considerati dai nazisti “contrari allo spirito tedesco“. Nello stesso giorno Joseph Goebbels vi tenne perfino un discorso, dove affermava che i roghi erano un ottimo modo «per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato».
«La storia dei sei milioni è anche quella dei cento milioni. Questo, secondo i calcoli di uno storico delle biblioteche, è il numero di libri distrutti dai nazisti, in solo dodici anni, in tutta Europa, come è ovvio, si tratta di una stima assai approssimativa, che sarà probabilmente corretta con il progredire delle ricerche. Ma si può partire da una terribile certezza: lo sterminio di massa degli ebrei fu accompagnato dal più spaventoso sterminio letterario di tutti i tempi. Tutti gli storici del libro condividono la medesima premessa di base: nelle società acculturate, scritti e stampa sono i mezzi primari per la conservazione della memoria, per la diffusione delle informazioni, la divulgazione delle idee, la distribuzione della ricchezza e l’esercizio del potere. La prima domanda che gli studiosi si pongono riguardo ad ogni cultura è: in che modo ha preservato, utilizzato e distrutto i documenti? Dalla cultura del Puritanesimo nella Nuova Inghilterra alle cause della Rivoluzione francese al collasso dell’Unione Sovietica, questo nuovo approccio alla storia ha costretto a riconsiderare i meccanismi del passato; nel caso della Shoah, potrebbe aiutare anche a comprendere l’incomprensibile». (Jonathan Rose, storico e preside alla Drew University, in il libro nella Shoah)
In Germania Martin Heidegger supportò il nazismo per preservare la propria posizione, a differenza di Benedetto Croce, che in Italia fu un coerente antifascista, quantomeno dal 1923 (all’inizio del periodo mussoliniano lo era stato in modo un po’ tiepido, anche in considerazione della sua amicizia culturale con Giovanni Gentile). Mi si potrebbe replicare che il fascismo ebbe un comportamento molto diverso e tollerante in tema di arte e creatività rispetto al nazismo, e che quindi per Croce fu più facile che per Heidegger (cf. Schwarze Hefte, Quaderni neri, trad. it di D. Di Cesare). In ogni caso la sua figura di filosofo non deve essere gettata via in ragione di una biografia per certi aspetti discutibile. In Italia, figure come Giuseppe Bottai, ministro della Cultura popolare, lo stesso genero del Duce Galeazzo Ciano, il ministro dell’Aeronautica Italo Balbo, erano tutt’altro che dei bacchettoni fascisti in tema di cultura e di espressioni artistiche. E’ utile ricordare che Ciano e Balbo morirono in due diverse situazioni, di morte violenta.
E vengo al tema del titolo: l’attuale sub-cultura woke, nell’ultima sua versione, a me sembra sia paragonabile al Bücherverbrennungen, cioè al rogo dei libri di cui sopra. Per la visione woke occorre distruggere ogni memoria e racconto del passato, perché bisogna far sparire ogni traccia dialettica e filosofica; si deve eliminare ciò che “disturba”, o potrebbe disturbare qualcuno, sia la statua di un navigatore che ha raggiunto terre lontane, cui sono seguite colonizzazione etc., sia che si tratti di un racconto che descrive qualcosa e non “altro”, perché, secondo costoro, bisogna sempre chiedersi se si potrebbe offendere qualcuno se si sostiene una qualche tesi.
Si tratta della rinunzia preventiva alla ricerca e alla conquista di nuovi saperi scientifici o più generalmente umani. Vediamo un po’ in sintesi estrema l’etimologia e la storia del termine.
Woke (in inglese sveglio) è un lemma che ha iniziato a diffondersi negli anni Trenta del XX secolo negli USA, con riferimento alle tematiche e ai problemi relativi agli Afroamericani. A partire dagli anni 2010, il termine ha cominciato a designare una consapevolezza più ampia relativa alle disuguaglianze sociali come la discriminazione razziale ed etnica, le tematiche sessuali e di genere, le abilità o disabilità individuali e qualsiasi tema che differenzia una persona da un’altra. Fino all’attuale fissazione maniacale per gli ambiti lgbtq+, etc..
Torniamo un po’ indietro nel tempo. Lo slogan da cui deriva il termine, stay woke (“rimani sveglio”), venne reso popolare in alcune registrazioni della prima metà del XX secolo dal cantante folk e attivista Lead Belly e, in tempi più recenti, dalla cantautrice Eryak Badu. Durante le rivolte di Ferguson del 2014, la frase venne ulteriormente diffusa dal movimento Black Lives Matter, per denunziare la violenza della polizia sulla comunità nera. E trascuro per brevità altri esempi.
Da quel momento il termine è dilagato, modificandosi profondamente per quanto attiene l’accezione, caratterizzando – anche se solo (grazieadio) in parte – il linguaggio e le scelte espressive delle generazioni definite Millennial e Generazione Z, cioè di coloro che sono nati dopo il 1990 e nel terzo Millennio. La parola nel 2017 è stata inserita nell’Oxford English Dictionary.
Negli ultimi anni il termine ha progressivamente assunto accezioni sempre più intolleranti, superficiali e insinceri, revisionistici e scientificamente infondati sotto il profilo epistemologico. Di più, il woke si è trasformato in una sub-cultura intollerante di qualsiasi forma di dialogo razionale e democratico, favorendo forme di “razzismo all’incontrario”, pregiudizialmente antioccidentale, di denigrazione sistematica della cultura europea e perfino di antisemitismo e antisionismo (un esempio: i “woke” non considerano qualsiasi distinzione tra sionismo aggressivo e falsificatorio à là “Savi di Sion”, e sionismo socialista, quello dei kibbutzim!), rifiutando l’approfondimento conoscitivo di qualsiasi disciplina socio-antropologica e di storia umana, così distruggendo le differenze naturali e storiche sussistenti tra popoli e nazioni.
Ho ascoltato le interviste presenti nel video che ha raccontato il recente pride di Budapest, con una Schlein radiosamente presente e parlante, ovviamente contro Meloni da cui è ossessionata, altro non aveva da fare, e sono riuscito a meravigliarmi ancora di tanta inettitudine intellettuale e perfin cognitiva (non dovrei meravigliarmi ormai), cioè delle affermazioni fatte da vari partecipanti, il cui comun denominatore è stato un inascoltabile vittimismo, secondo cui chi aderisce alla visione lgbtq+ viene discriminato, offeso e impedito di vivere la propria vita secondo le proprie scelte di coscienza.
Le stesse persone, però, che coincidono (non stranamente, visto il comune rifiuto della razionalità scientifica) più o meno con i pro-pal, nulla dicono della sofferenza delle donne – ad esempio – in Iran e in tutti i paesi dove non c’è la democrazia, la quale ammette pacificamente il pluralismo delle posizioni, nel rispetto di tutti, però. Anzi, da ciò è ontologicamente costituita. Queste persone, nel loro vittimismo fasullo e ipocrita, pretendono che anche gli altri, quelli che non la pensano come loro, si adeguino alle loro mattane, anche se costoro sono una minoranza che pretende di sottomettere la maggioranza, in una visione elitaria e antidemocratica. Èlites del nulla.
Quanto dico non è di destra o di centro, come riporta wikipedia (anche di ciò non mi meraviglio) alla voce “woke”, ma è puro buonsenso, peraltro di tipo socialista, o semplicemente razionale.
Il termine woke si connette in modo negativamente efficiente con la cancel culture, che pretende di riscrivere la storia ad uso di un moralismo retrodatato e antistorico, caratterizzato da una sorta di attivismo performativo e insincero, e da una ideologia falsamente moralizzatrice. Basti pensare all’ambiguo termine di “inclusione”, che significa “tutti dentro, tutti uguali“. Ebbene no, perdio!, siamo tutti uguali in dignità umana, ma tutti irriducibilmente unici in quanto persone. Questo è l’ABC di una sana antropologia, cari woke!
Il filosofo Michel Onfray ha definito l’ideologia woke come espressione di una “tirannia delle minoranze”. Lo condivido, mentre direi al filosofo Pierre-Henri Tavoillot, che ha definito il “wokisme” come un corpus di diverse idee riguardanti “l’identità, il genere e la razza”, con il principio di denunciare e combattere determinate strutture di potere oppressive, attraverso strumenti quali l’approccio a un linguaggio più inclusivo, una maggiore attenzione all’educazione e una decostruzione delle vecchie norme di genere: “Ne sei proprio sicuro, caro collega?”
Ciò può essere accettato se non si scade nel fanatismo, come si può mostrare con evidenze, se si fanno politiche equilibrate anche nelle aziende. Io lo posso direttamente attestare per esperienza pratica: l’inclusione di tutti non deve diventare oppressione di pochi sui più, ma riconoscimento dei diritti di tutti, e nel contempo delle differenze di ciascuno da tutti gli altri.
Il femminismo, come esempio di grande rilevanza, ha compiuto un passo decisivo quando è passato, da una prima fase egualitaristica alla fase della valorizzazione delle differenze tra i sessi, tra uomini e donne. E aggiungiamo pure, perché esiste, e con il tertium genus.
L’ideologia woke è una forma di neo-puritanesimo che sostanzialmente vuole rendere illegale la performance artistico-esspressiva umana in tutte le sue forme, come mostra ciò che sta accadendo nell’industria di intrattenimento mainstream occidentale (in primis Hollywood e quindi Netflix e Disney), che ha avuto un brusco calo dei fan, clienti paganti, azionisti e spettatori (e quindi di profitti e azioni) dopo aver completamente abbracciato l’ideologia woke e politicamente corretta. Aggiungo senza tema di smentita che l’ideologia woke è divisiva (altro che inclusiva!), escludente e odiosa, e offre alle persone cattive uno scudo per essere meschine e crudeli, mascherate dietro una falsa virtù.
Il linguista John McWhorter ha affermato come la storia del concetto di woke sia molto simile a quella di politically correct, un altro termine talvolta usato da alcuni in un’accezione neutra, ma che neutra non è.
E dunque, si può concludere che il rogo dei libri, il Bücherverbrennungen di goebbelsiana memoria, ricorda molto l’attuale “cultura” woke? A me pare di sì, per come è diventata, da sensibilità libertaria e liberante come era all’inizio, a fanatismo ideologizzato e colpevolmente ignorante.
Perché vi è un’ignoranza incolpevole, come quella di chi non ha potuto studiare, ma non pretende di insegnare ciò che non sa, e chi invece fa il contrario, docente o professore del nulla (cf. mio post qui presente “I professori del nulla“, pubblicato oltre dieci anni fa. buona lettura).
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