Papa Francesco tra pàthos e lògos, tra conservazione e progressismo, tra teologia e pastorale, tra politica e profezia, tra relativismo e relazionalità, tra pensiero e cuore, tra guerra e pace. Il prossimo sarà un pontefice al bivio, e dovrà essere uomo capace di profonda e paziente sintesi. Chi sarà quell’uomo?
Parto dallo Spirito Santo, che – come quasi tutti sanno – soffia dove vuole, e anche dalla sua divina astuzia (con rispetto parlando), anche se forse qualche volta la Terza Persona della SS. Trinità si è distratta, come quando al pontificio soglio furono eletti papi personaggi controversi, quantomeno. Bonifacio VI, nel IX secolo fece riesumare il cadavere del predecessore, Formoso, lo fece processare e poi fece gettare le spoglie del cadavere condannato nel Tevere, mentre nel XVI secolo papa Alessandro VI, don Rodrigo Borja, legittimo papà (sì, con l’accento) di Lucrezia e Cesare, il duca di Valentinois (il Valentino), è stato un pontefice noto per la sua vita assai “secolare”.

Fu Benedetto XVI, il professor Ratzinger, che era ritenuto perfin troppo serioso, a fare la battuta sulla ipotetica “distrazione” dello Spirito Santo in un’intervista.
DE FRANCISCI ALIQUIS REBUS GESTIS
Francesco viene eletto dopo la rinunzia di Benedetto XVI, conscio di non poter reggere una Chiesa piena di problemi, immensa di un miliardo e quattrocento milioni di esseri umani, ma semper sancta et peccatrix (cf. sant’Agostino, il quale usa addirittura un termine assai più aspro, meretrix) atque reformanda, che aveva bisogno di cambiare nella sua struttura gestionale e lui, delicato e profondo professore di teologia, ma soprattutto teologo (il docente e il teologo sono due figure strutturalmente spesso molto diverse!), a mio avviso il maggiore del Novecento in ambito cattolico, e non direttore operativo di una struttura gigantesca di tipo aziendale, non sentiva di averne la forza sufficiente per farlo.
Un altro apparente paradosso (dello Spirito incarnato) è che, stante alle informazioni emerse dopo i due conclavi – Jorge Mario Bergoglio nel 2005 fece (obiettivamente) eleggere Joseph Ratzinger, e questi nel 2013 fece (altrettanto obiettivamente) eleggere l’argentino.
Mi viene da dire che lo Spirito Santo, dopo avere portato nel mondo il pensiero di papa Benedetto XVI ha portato il cuore di papa Francesco. Secondo Agostino e Tommaso d’Aquino, Dio crea sia il pensiero sia il cuore e parla all’uomo con il pensiero e con il cuore.
Ho aspettato qualche tempo dopo la sua morte per cercare di proporre in sintesi alcune riflessioni su Francesco, l’italo-argentino diventato papa della Chiesa Cattolica (ricordo sempre il sintagma greco da cui deriva il termine “cattolico”: katà òlon, cioè, secondo-il-tutto), cioè universale, e ho scelto due termini filosofici quasi contrapposti, come pathos, che vuol dire sentire, patire, soffrire e logos che significa discorrere, ragionare, discernere, con i due momenti della proàiresis (analisi dei dati) e della diàiresis (scelte pratico-morali), come direbbe l’antico filosofo Epitteto. Pàthos e lògos, i due termini tra cui i due ultimi papi e la Chiesa cattolica si sono mossi.
Dove si collocava Francesco tra questi due modi di concepire lo stare al mondo? Si può dire che apparteneva a una delle due posizioni, oppure prevalentemente, ovvero che non si deve dare una scelta di giudizio radicalmente binaria o polare? Proviamo a riflettere.
DE FRANCISCI THEOLOGIA PASTORALIQUE
Scelgo di non separare queste due dimensioni del papato bergogliano, poiché sono inscindibili, a differenza di quanto potei scrivere a suo tempo di papa Benedetto XVI, il cui pensiero e il cui agire erano chiaramente distinguibili, cristallini, rigorosi (non rigidi, come pensano coloro che non fanno la fatica di comprenderne il pensiero, o forse non hanno i mezzi per comprenderlo). Papa Benedetto poteva apparire rigido, ma in realtà era solo coerente, conseguente e fermo nella sua riflessione filosofico-teologica che si fondava su princìpi di carattere ontologico-metafisico che, a mio avviso, sono indispensabili per un corretto approccio ai fondamenti di un discorso credibile sul “divino”. Con tutto il rispetto dovuto ad atei ed agnostici. Francesco non aveva nemmeno la formazione personale per seguire Ratzinger su questo sentiero, e questo limite ne ha generati altri, anche sul piano pastorale, come cercherò di spiegare con christiana caritas.
Parto dallo stile comunicazionale di papa Francesco. Il linguaggio di Francesco era semplice e diretto, a volte impreciso, ma bisogna tenere conto che lui pensava sicuramente in spagnolo e poi traduceva in italiano. Francesco parlava un italiano basico a braccio, mentre quando leggeva un testo, questo era sempre chiaro e comprensibile. Forse (o senza forse) scritto in parte da altri. Anche papa Wojtyla chiedeva aiuto per la redazione delle sue encicliche, ed io ho avuto l’opportunità di conoscere uno di questi ghost writer, un coltissimo padre domenicano, che Dio l’abbia in gloria. Ma Giovanni Paolo II aveva una solidissima formazione filosofica tommasian-husserliana, mediata e meditata sui testi di Edith Stein, che era Santa Teresa Benedetta della Croce, Dottore (non dottoressa, e su questo che facciamo, una vertenza woke-femminista?) della Chiesa. Una buona lettura per chi desideri conoscere meglio il papa polacco è costituita da “Persona e Atto”, la sua tesi dottorale.
Francesco, invece, come Jorge Mario Bergoglio, se non mi sbaglio, è passato agli studi teologico-filosofici da… perito chimico. Con tutto il rispetto per tutti i periti industriali del mondo dico questo, come quando mi chiedono di commentare il cursus studiorum di non pochi insegnanti di lettere delle medie (e anche di molti avvocati) che sono approdati alla facoltà di Lettere da periti meccanici o da ragionieri, dopo la, a mio avviso, infausta riforma che ha liberalizzato l’accesso a tutte le facoltà universitarie a chiunque avesse un diploma di scuola media superiore. Non c’è niente da fare: chi non ha studiato almeno un buon latino (meglio se anche il greco antico) alle superiori, porterà avanti delle carenze insuperabili negli studi universitari e negli esiti professionali successivi, se sceglierà carriere come quella giuridica o dell’insegnamento umanistico, o infine come quella ecclesiastica. Democrazia della condivisione dell’ignoranza tecnica, E politicamente anche ignoranza morale (secondo la mia distinzione filosofica tra le due tipologie di ignoranza, di cui la prima è incolpevole, mentre la seconda, no). Con tutto il rispetto per chi, per poi laurearsi in lettere, deve fare qualche sporadico e debole corsuccio obbligatorio di “latinetto” alla Facoltà umanistica. Suvvia.
Si tratta dunque di vigilare sempre sul linguaggio che usa ciascuno di noi, ché il linguaggio è fondamentale, spesso trattato dai media con superficialità inaccettabile. Anche i commentatori, che dovrebbero essere più accorti dei cronisti, quando hanno parlato e parlano oggi più che mai, sino a generare una sorta di indigestione mediatica, di Francesco, mi hanno dato la sensazione di non comprendere bene di che cosa si trattava, e che soprattutto non si trattava di uno scontro tra curve calcistiche. Hanno spesso esagerato nelle definizioni della linea “politica” e pastorale di questo papa, ad esempio Progressista (sì, anche a mio avviso) ma non nella dottrina, conservatore nella dottrina ma rivoluzionario nelle priorità “politiche”. Un po’ complicato uscirne con un’idea chiara.
Basterebbe sostituire il termine “politiche” con “pastorali”, cura linguistica presente solo quando l’opinionista si chiama almeno Cacciari et similia. Schematismi poveri di contenuti e a volte squallidi nelle intenzioni: questo giudizio vale ancora di più per i titolisti, che fanno un mestiere da mercanti di falsità, in quanto quasi sempre l’articolo parla di cose diverse dalle eclatanze macroniane (mi si perdoni l’orrendo francesismo) sbattute in faccia al lettore. Solo un esempio: forse solo un comunicatore su dieci ha parlato della fine del papato di Benedetto XVI come “rinunzia” (al Ministero petrino, in latino Munus Petri), usando il termine “dimissioni”. Qualche volta questa non gravissima imprecisione mi ha fatto venire in mente un altro atto linguistico superficialmente impreciso: l’uso del termine “licenziamento” in luogo di “dimissioni”, anche quando un lavoratore lascia un’azienda. A volte è lo stesso cronista che usa a sproposito questi termini, perché è il lavoratore che si dimette mentre l’azienda licenzia. Studiate, signori, studiate.
Toltimi diversi sassolini dalle scarpe sulla comunicazione in generale, torno al papa.
Innanzitutto, ci si deve chiedere se vi sia un riferimento dottrinale più importante, anche implicito, nella teologia pastorale di questo pontefice, e la risposta è affermativa: Si tratta del Concilio Ecumenico Vaticano II, cui raramente, però, nei dodici anni di pontificato ha fatto riferimenti espliciti, almeno negli interventi pubblici. E, alla luce di questa considerazione, visto che il Vaticano II è stato un evento obiettivamente “progressivo” per la Chiesa universale, che cosa significa per Bergoglio essere stato conservatore o progressista? Quasi nulla, se ai due termini si dà l’accezione corrente. Basti solo dire, a mero titolo di esempio, che la Chiesa, sulle tracce del cardinal Nicolò da Cusa, ha spesso cercato di praticare la sintesi tra posizioni diverse, quasi una coincidentia oppositorum, cioè capace di conciliare gli estremi, essendo la Chiesa stessa “quella” che sant’Agostino definiva (vedi sopra) con un’endiadi ossimorica clamorosa.
E, per citare un fatto di cambiamento storico che attesta come la Chiesa sia sempre (o quasi) riuscita a riformarsi, ricordiamo quando (san) Francesco d’Assisi propose a papa Innocenzo III la sua Regula, il papa non la bullò (perché la bullò il suo successore papa Onorio III), ma la accettò di fatto. A quei tempi assai critici, la Chiesa capì come i due grandi ordini regolari (di frati) dei francescani e dei Predicatori di Domenico Guzman sarebbero stati profeticamente dei “salvatori” dell’intera comunità ecclesiale.
Ecco, molte delle cose-di-chiesa, cambiamenti nella struttura della Chiesa e in alcuni aspetti dottrinali, sono rimasti allo stato de facto, senza assumere la dimensione de iure: peraltro, questo è uno degli aspetti più criticati da chi, da sincero e totalmente progressista, voleva un papa deciso, non solo nel benedire le coppie di fatto (un esempio), ma anche nell’attribuzione (almeno) del diaconato alle donne, se non dell’ordine sacerdotale.
Altro tema di papa Francesco il “rivoluzionario”: Lesbo, Lampedusa, l’Irak… la favela di Varginha a Rio, il Sud del mondo, papa itinerante tra i poveri come faceva da vescovo a Buenos Aires, dove visitava le villas miseria, o a Ciudad Juarez sul Rio Grande al confine tra Messico e USA, per far capire a Trump-il-bullo come la pensa il papa cattolico sulle migrazioni, oppure quando, interpellato sull’aereo circa l’omosessualità, risponde “chi sono io per giudicare“, così da risultare sconvolgente, non solo per don Minutella o mons. Viganò, ma non tanto.
Ancora: dopo l’enciclica Evangelii gaudium (il gaudium che è – almeno etimologicamente – la gioia di papa Ratzinger) i crocicchi, gli ultimi (attenzione alla retorica melensa di tanti tronfi laudatores bergogliani), i trans, i carcerati (ma anche papa Giovanni XXIII, Paolo VI e papa Wojtyla andavano nelle carceri), la donna nella Chiesa e nel mondo (sul quale tema si fermò a metà del guado), erano altri suoi centri di interesse pastorale. Tanti processi riformatori aperti cui spesso non è seguita una sufficiente elaborazione coinvolgente la comunità ecclesiale. La metodica dei Sinodi è stata importante e utile, ma anche un po’ contraddittoria e incompleta, perché non corroborata da una conseguente fase riformistica delle norme canoniche.
Su un tema Francesco è stato coerentemente inflessibile: quello della denunzia della guerra, di ogni guerra, su cui ha perfino rischiato di non farsi capire, con la sua equi-distanza o equi-vicinanza tra i confliggenti, di volta in volta sospettato di essere filo russo dagli Ucraini e e filo palestinese dagli Israeliani. La sua espressione “Terza Guerra mondiale a pezzi” si è ormai impadronita dei media e sta ispirando gli storici.
Non si può dire che Francesco sia stato tutto-pastore e nulla-teologo, poiché aveva una sua “teologia”, fatta di un essere-gesuita nel profondo, ma intriso di francescanesimo. A volte il mix di queste due dimensioni non lo ha aiutato, poiché il gesuitismo è fatto per l’apertura alla politica e alla gestione del potere (che Francesco, pur cantore della semplicità, ma non moltissimo dell’umiltà, che mi pare citasse raramente, amava), mentre il francescanesimo è tutt’uno con la condivisione empatica della condizione umana, della sofferenza, della malattia, e della penuria (“Madonna Povertà”).
Mons. Piero Coda, teologo dell’Università Lateranense, parla di un’uscita nel mondo di Francesco proprio secondo la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, che insegna l’evangelizzazione, il rinnovamento, il camminare con lo Spirito e una certa sinodalità nello stare-nel-mondo, e in ciò rileva una certa continuità con Ratzinger tramite la Lumen fidei, sulla virtù teologale della Fede.
In sostanza, la Theologia Francisci è sempre stata intrisa di linguaggi esistenziali, emotivi, di forme civiche della politica, di un’estetica popolarista (non “popolare”), e di un certo sesto senso dell’opportunità, viatico per piacere a molti, anche di diverso orientamento politico-culturale, mentre con tale agire ha insospettito non pochi eredi della polemica secolare del modernismo novecentesco contra traditionem.
Non si può negare che Francesco sia rimasto convintamente dentro il processo post conciliare, cercando di mettere insieme la “sostanza dell’antica dottrina” con “una nuova formulazione del rivestimento” della dottrina stessa, sulle tracce di papa Roncalli e di papa Montini. Ha corso, però, rischio di aprire una quantità enorme di processi riformatori, senza avere la forza, il tempo, e forse neppure le intenzioni di portarli tutti a positivo compimento, per segnare un nuovo passo della storia bimillenaria della Chiesa.
Se in ogni opera umana si possono individuare i pregi, altrettanto vale per i limiti, che non sono meramente difettosità, ovvero, come direbbe sant’Agostino, defectiones boni, mancanze di bene, cioè male, e in Francesco questi limiti o difetti si sono visti non poche volte.
In definitiva, nell’opera di questo papa abbiamo constatato rapidità decisionale, anche troppa, entusiasmo, anti-burocratismo e fortitudo dicendi, anche troppa, a volte commiste a indecisioni sull’orlo del passaggio successivo, frenate e anche ambiguità. Ne parlerò successivamente.
DE FRANCISCI CONTRADICTIONIBUS
Riprendo alcuni temi bergogliani: la misericordia, il costruire ponti non muri, magari evitando di erigere ponti levatoi di chiusura (come gli è non raramente capitato), le scomuniche, una openess spesso a-critica, come quella sulle migrazioni (Francesco ce l’aveva con il buon ministro PD Minniti, di cui non capiva il politicismo, ovvero la sensibilità politica). Francesco era buono come il pane? Non lo ho conosciuto, ma si narra che è stato anche autocratico, iracondo, “uomo molto diretto con gli altri” (Ratzinger su Bergoglio) in molti momenti. Ha risposto ai dubia dottrinali posti da molti sul suo stile pastorale e sulla sua teologia? No, e ciò non va bene. Quando Francesco ha (giustamente) denunziato e criticato il chiacchiericcio tutt’intorno a lui, intendeva la nefasta chiacchiera descritta in Essere e Tempo (Sein und Zeit, 1927) da Martin Heidegger, rivolta a chi coltiva l’inutilità e l’insensatezza, oppure intendeva dire anche che non sopportava di essere criticato?
L’impressione che spesso mi ha dato è che davanti alle telecamere (vita mediatica) avesse una certa postura (uso un termine che non amo per l’abuso che se ne fa: qualcuno si compiace di usarlo spesso, perché gli pare dia un tono di eleganza linguistica), mentre a telecamere spente (vita privata-reale) fosse diverso. Estroflessione vs. l’interiorità introversa di Ratzinger. A Francesco pare non interessasse alcunché della sua personal “postura”. Un termine che si potrebbe tranquillamente sostituire con “atteggiamento”, peraltro – a mio avviso – item indispensabile nella selezione del personale, in qualsiasi ambiente si operi.
Enzo Bianchi non credeva nella divinità di Cristo e papa Francesco non ebbe nulla da dirgli, pare, finché non gli tolse la direzione del Centro spirituale di Bose; di contro, anzi no, il papa non si è peritato di confrontarsi con Fabio Fazio e di mandare un video a Carlo Conti per il festival di Sanremo. Queste due ultime cose sono state, a mio avviso, pastoralmente X.
Molto affabile con i fedeli e anche gli infedeli, a volta ha manifestato scatti d’ira, come quando diede uno schiaffetto a una mano tesa che lo tratteneva un po’ troppo. Nietzsche direbbe “umano troppo umano”, mentre il popolo trasteverino potrebbe affermare “dàje e dàje che vien fori er cosacco”, per significare una persona un pochino iraconda. Umano, solo umano. Proprio “petrino”, se ricordiamo il Pietro che confligge con un altro assai fumantino, Paolo di Tarso.
Un altro dictum Francisci: La carità precede, la dottrina segue… Ma è vero? O si tratta di una forma di vetero-arianesimo?
Francesco, a volte origeniano con l’apocatastasi, che significa la ricapitolazione nella salvezza di tutti, anche dei peccatori più incalliti, per l’infinita potenza del sacrificio di Cristo. Magari!
Personalmente io sono “origeniano”.
Forse, su questo argomento, basterebbe ricordare che Benedetto XVI, interpellato su che cosa possa essere l’inferno ebbe a rispondere che forse è solo (e non è poca cosa) il silenzio di Dio. Di contro, la visio beatifica altro non è che il Canto XXXIII della Terza Cantica del padre Dante.
DE VOCATIONIBUS FUTURI TEMPORIS ET SPIRITUS SANCTI ELECTO
Va bene procedere verso il Sud del mondo e la Cina, con l’accordo con il Partito Comunista Cinese per la nomina dei vescovi, sulle tracce gesuitiche di san Francesco Saverio; va bene la piena dignità alle donne, ma la struttura storica della Chiesa non va rovesciata; va bene la linea di dare un diverso significato al cardinalato, ma il prossimo papa farà cardinali, ne sono umilmente certo, il Patriarca di Venezia mons. Moraglia, e l’Arcivescovo di Milano mons. Delpini, perché così s’ha da fare; va bene procedere a un chiarimento della legge canonica sulle grandi questioni della morale della vita umana, dove colpa e pena, espiazione e perdono, legge e sanzione, siano nel solco della virtù di Carità (cf. I Corinzi 1-13), non solo della virtù di Giustizia.
Papa Francesco è stato un pontefice importante, che ha iniziato diversi percorsi e processi pastorali, e quindi intrinsecamente politici, che non ha terminato. Occorrerà riprenderli e portarli avanti, correggendo qualcosa.
LOGOS o PATHOS?
Il successore di Francesco (o di Pietro? di tutti e due) dovrà essere uomo capace di profonda e paziente sintesi di queste due dimensioni dello spirito umano illuminato dalla Fede, mentre Speranza e Carità lo assistono, una cum le tre virtù benedettine di Umiltà, Obbedienza e – finalmente – Silenzio.
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