Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Poesia e filosofia comprendono forse meglio (o più completamente), sia delle scienze cosiddette “dure” (le Naturwissenschaften, secondo Wilhelm Dilthey), e delle scienze umane (Geistwissenschaften, sempre secondo Dilthey) della psicologia e della sociologia, le realtà del mondo e della vita umana

Il mondo naturale e le vite degli esseri umani sono conosciuti in modi differenti e complementari: in sintesi, mediante le scienze fisiche e biologiche, e anche con quelle psico-sociologiche, a partire più o meno dalle lezioni di Francis Bacon, di René Descartes e di Galileo Galilei, fino alla contemporaneità.

(Jean-Martin Charcot)

Vi sono però, a mio avviso, altri due modi della conoscenza, quello filosofico e quello poetico.

Porto l’esempio del post precedente nel quale analizzo le risposte di diverse categorie di persone intorno a un esercizio di carattere psico-sociologico: quello della rappresentazione numeristica di un avverbio di modo: “prevalentemente”. E riprendo le conclusioni del pezzo.

(…)

“Ne parlo con loro (alcuni miei interlocutori), e uno degli ingegneri, eletto portavoce dagli altri due, mi dice che il 51 è comunque una cifra che dice “maggioranza” sul numero 100, e dunque il “prevalentemente” è rappresentato in modo adeguato con il numero 51; il quarto partecipante, il non-ingegnere, invece, mi dice che ha scritto il numero 66, poiché l’avverbio di modo gli fa percepire una sorta di “aura” di maggioranza superiore al 51, quindi più che assoluta (in un’altra occasione un giurista aveva pure lui scelto il numero 66 spiegandomi poi che per lui era particolarmente congrua la percentuale (%) che nelle normative pubbliche rappresenta la maggioranza qualificata, come nelle votazioni istituzionali.”

Si noti, una sorta di “aura” scrivo sopra, come se vi fossero elementi o misure non-rappresentabili con la mera grandezza del numero.

Cosa si può trarre da questo esercizio (neuro)-psico-sociologico-culturale? Nulla, o fors’anche qualcosa sulle mentalità che si consolidano dopo avere seguito un determinato tipo di studi, per cui mi pare che l’idealtipo “ingegnere” tenda a rappresentare il significato semanticamente dato dell’avverbio “prevalentemente” con il numero 51, come “maggioranza semplice”, come recita la normativa istituzionale, mentre gli altri idealtipi tendono a indicare numeri superiori, perché, a mia domanda rispondono, che gli sembra più appropriato?

Si può dunque dire che il numero, così come è, non può rappresentare tutto il campo semantico-culturale del suo significato matematico, perché esso deborda dalla quantità e dal significato/ accezione condivisa del numero, descrivendo molto di più (e forse in modo migliore) la realtà effettuale?”

Domanda retorica.

Ed eccoci di nuovo sul pezzo.

Sia il modo filosofico sia il modo poetico di rappresentare la realtà effettuale del mondo/ natura e delle vite umane sono modi approssimativi, perché i contorni e i confini degli oggetti rappresentati sono pieni di angoli e spigoli di poligoni/ enti irregolari, oppure di curve, archi e seni. Forse la matematica irrazionale dei frattali può rappresentare un po’ le cose come la poesia, o come la filosofia.

Poesia è il “fare”, dal verbo greco poièin, e dunque la poesia è una sorta di attività fabbrile, che prevede, quasi in analogia, le varie fasi del trattamento metallurgistico, dalla fusione ai trattamenti termici, e fino al (come si dice oggi) machining e alle finiture. Anche la poesia prevede un lavoro scritturale iniziale cui segue poi una analisi critica del testo e un delicato e fervoroso lavoro di “toglimento” e perfezionamento del testo.

Chi scrive poesia sa (presso a poco) come essa inizia, ma non sa dove e come finirà un testo, sempre considerando i contenuti, mentre invece per la struttura del testo, se si tratta di uno schema chiuso come nel sonetto classico, si-sa-tutto-prima perché la struttura è pre-fissata ab initio (dai tempi di Guido d’Arezzo e di Guido Cavalcanti, passando per Francesco Petrarca, fino al Foscolo e al Carducci: due strofe di quattro versi e due strofe di tre versi, solitamente endecasillabi). Basta dare uno sguardo attento ai manoscritti del conte Giacomo, disponibili nelle teche di casa Leopardi a Recanati.

Giuseppe Ungaretti pensa che la poesia sia una sorta di “combinazione” di vocali e di consonanti, di parole varie, di frasi diverse… entro cui entra la luce. Mi pare bellissimo. Un altro modo di dire “attività fabbrile”.

Il lavoro poetico prevede un processo di rifinitura per successive approssimazioni, fino a un risultato “accettabile”. Funziona quasi come nella medicina ippocratea, che precedeva per 1) analisi-anamnesi/ 2) diagnosi/ 3) prognosi.

Riassumo: 1) è lo sguardo sul mondo della vita; 2) è l’interpretazione, 3) è il testo finale.

Proviamo a trasferirci in ambito filosofico-teoretico, e qui chi meglio di Hegel ci può aiutare, con la sua triade logica, composta da tesi, anti-tesi e syn-tesi? … che corrispondono, a mio parere, in qualche modo, al terzetto concettuale di Ippocrate.

Come si può constatare, anche la poesia e la filosofia possono contare su delle strutture pre-fissate, ma queste non bastano, soprattutto perché la riflessione logica e il pensiero poetico si avvalgono anche di tutto l’immenso (anzi, pressoché infinito) armamentario retorico disponibile in ogni linguaggio umano.

Basti pensare alla metafora in tutte le sue declinazioni, per quanto riguarda la poesia, oppure al sillogismo in filosofia.

Si può dire, dunque, che poesia e filosofia possiedono intrinsecamente gli strumenti per rappresentare la realtà effettuale, sia pure in modo diverso da come lo colgono le varie scienze fisiche e umane. Ma c’è di più.

Poesia e filosofia, a differenza delle citate scienze, sono forse anche in grado di creare, rispettivamente, nuove realtà effettuali (la poesia), e sempre nuove interpretazioni del reale (la filosofia) e dunque, con queste prerogative debbono essere considerate l’avanguardia della conoscenza, e nel contempo un approfondimento sempre evolventesi.

Non che le scienze non evolvano, anzi, poiché vanno avanti “per prove ed errori”, migliorando la conoscenza umana del reale, ma la poesia e la filosofia precedono le scienze poiché si basano, sull’intuizione creativa, la poesia, e sull’intuizione deduttiva, la filosofia.

Sono forse queste le dimensioni che mancano a volte negli studi scientifici. Un esempio: Karl Gustav Jung, forse il più grande psicologo del ‘900, che era anche medico, interpellato sui caratteri umani, invece di rispondere come molti successori hanno fatto elencando tassonomie numerose e imprecise, a partire dai quattro caratteri/ colori (azzurro, verde, giallo e rosso) di Hermann, ha risposto che tra i miliardi di esseri umani viventi si possono distinguere forse solo due modalità espressive, quella dell’introversione e quella dell’estroversione, dentro le quali vi sono tutte le infinite sfumature individuali.

Aggiungo: forse ha compreso e comprende dell’essere umano più della psicologia clinica la grande letteratura poetica di un Dostoevskij, o comunque va considerata indispensabile accanto alle anamnesi cliniche degli psicoterapeuti.

Infine: anche il disagio individuale, che nei nostri anni viene affrontato spesso a partire dalla farmacologia psichiatrica, dovrebbe conoscere un processo inverso, che parta dal dialogo filosofico-antropologico. Siamo ancora indietro su questo campo: infatti solo due o tre grandi istituti sanitari (per ora solo a Torino e a Firenze laddove operano un filosofo e una filosofa, miei cari amici e colleghi) prevedono che nelle équipe di sostegno e cura delle anime umane (diciamo pure della psiche), accanto a psicologi e psichiatri, sia prevista la figura del filosofo pratico.

Negli ospedali e nelle carceri, la politica e la pubblica amministrazione dovrebbero decidersi a normare e a diffondere questo modello più completamente umanistico, nel quale filosofia e poesia possono essere co-protagoniste come le scienze “dure” sempre per l’uomo e con l’uomo.

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