Fra il “Ganz anderes”, cioè il “totalmente altro” e la “kènosis”, vale a dire lo “svuotamento” della divinità nel Figlio di Dio. Leggendo assieme Husserl, Ricoeur, Heidegger, Nietzsche, Edith Stein, Jaspers, Pareyson, Vattimo, Severino e sant’Agostino, senza dimenticare Tommaso d’Aquino et multi alii aliaeque
Sembra che i due concetti messi nel titolo, il “totalmente altro” e la “kènosis,” siano inconciliabili, poiché il primo termine esprime la radicalità assoluta della trascendenza divina, fortissima nell’islam e nell’ebraismo, e un po’ più temperata nel cristianesimo, proprio dall’incarnazione del Figlio… che è presente fin dalla fondazione del mondo, apò katabolès kòsmou (Apocalisse 13, 8).
Come si può tentare di leggere assieme, in una sinossi teologica e teologale, ma anche logico-filosofica, questi due “luoghi” concettuali estremi? Scritti molto recenti ci possono aiutare. Ciò che affermarono su fede e ragione teologi come Joseph Ratzinger e lo stesso Woytjla giovane. Oppure tedeschi dell’Ottocento come Schleiermacher e Schelling.
Temi come il “credere-di-credere”, attesato nel cosiddetto pensiero “debole” di un Vattimo, ci possono interessare, contro ogni arroganza, così come la kènosis, ossia lo svuotamento della potenza umana, come carità e rifiuto della violenza (lezione di evangelo a Putin, caro Kirill, ad esempio).
E una metafisica non-gerarchica, ma gnoseologica.
La metafisica in questo modo non si opporrebbe alla kènosis, cioè alla debolezza dell’uomo, perché la verità dell’ente si pone su un altro piano rispetto alla sua fatticità: il fatto è altra cosa rispetto all’essere dell’ente, ma la sua essenza è la medesima.
L’essenza è il punto di incontro tra fatto e ente, mentre l’essere appartiene ad entrambi.
Kènosis è una parola greca, che significa letteralmente “svuotamento” o “svuotarsi”, ed è storicamente utilizzata quasi esclusivamente per indicare un concetto legato alle teologie e alle mistiche del cristianesimo. Essa corrisponde all’antica parola greca κένωσις, kénōsis, in italiano “kenosi”, che deriva dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”
Nella sua Lettera ai Filippesi, san Paolo scrisse: «Cristo svuotò se stesso (ἐκένωσε, ekénōse)» (Fil 2, 7, Bibbia di Gerusalemme), facendo uso del verbo κενόω, kenóō, che, appunto, significa “svuotare”.
Nella teologia cristiana, il concetto di kenosis indica anche il processo interiore che porta il cristiano a svuotarsi della propria volontà incline al peccato e al male, a svuotarsi del proprio egocentrismo, per diventare interamente recettivo alla volontà della Divinità e potersi quindi abbandonare ad essa senza provare sentimenti di ribellione o di paura o di privazione della libertà. Lo spogliarsi (kènosis) è premessa indispensabile e funzionale al rivestimento con Cristo ad opera della Grazia e dello Spirito divino. (Filippesi 2:5-7) “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.” (traduzione CEI 2008)
La kenosis sarebbe un percorso di conversione doloroso in quanto demolirebbe le sicurezze e le certezze che l’uomo, nel corso della vita, si costruisce. Un esempio celebre di kènosis è la Notte Oscura dell’Anima raccontata dal mistico Giovanni della Croce (riprendendo un mistico tedesco: Johannes Meister Eckhart) il quale narra il senso di angoscia e di cieca disperazione che precedette la sua piena conversione. Anche l’episodio della conversione di Francesco d’Assisi, allorquando, sulla piazza, si spoglia delle ricchezze della famiglia per abbracciare una vita religiosa, segnala una fase cruciale della sua kènosis.
Su questi temi provo a interpellare un po’ due filosofi contemporanei che hanno avuto a che fare con il cristianesimo, Gianni Vattimo ed Emanuele Severino.
Severino denunzia il rischio che la carità cristiana sia un altro nome della violenza, perché non consente di contemplare con gli occhi dello spirito l’essere eterno delle cose. Un pensiero difficile e contraddittorio, il suo.
Severino, per evitare che la carità e la fede stessa (virtù teologali) diventino violenza propone di scegliere la Gloria, come contemplazione dell’essere assoluto che basta a sé stesso.
Per Vattimo la questione della kènosis di Cristo è la manifestazione di un pensiero debole, come pensiero dei deboli, per i quali il cristianesimo è la salvezza.
Per lui, l’ama et fac quod vis agostiniano è la relazione buona tra onticità dell’essere e fattualità dell’agire, poiché se il canone di riferimento è Gesù, la carità non è più violenza. Vi è però in Vattimo, il tema (però, a mio avviso, non chiarito bene) del rapporto tra svuotamento-indebolimento, la kènosis e innalzamento, croce o gloria.
Domanda: si può parlare della kènosis del Cristo-Dio senza parlare dell’Innalzamento in Croce e della Gloria? Domanda retorica, mi pare, anche se mettere vicino kènosis e Gloria quasi impone alle nostre povere menti un lungo momento “docetista”, cioè di un “falso-dio-in-croce”, un momento che può anche sembrare non finir mai.
Difficile è non sentirsi monofisiti, cirilliani, seguaci di Eutiche fuori-tempo-massimo, se non musulmani talmente increduli della teandricità di Cristo-Gesù da voler-dovere credere solo in una croce-vuota, anzi in una croce trasparente, un ologramma dell’innalzamento, che solo così può porre un’ipotesi e un’ipostasi di Gloria?
Resta il dilemma su come Vattimo concepì la morte in croce di Gesù, se come l’estremo svuotamento della vita dell’Uomo-Dio in-quanto-uomo, o se, invece, la ritenesse l’estremo e più potente modo del Cristo di darsi agli uomini-della-morte, per mostrare la sua inarrivabile forza di Figlio di Dio, ma anche dell’Uomo.
L’altro tema è quello che riguarda un Cristo che, mostrandosi debole, illustra un cristianesimo debole e aperto ai limiti antropologici e morali dell’uomo, specialmente l’uomo d’oggi. Ma il cristianesimo non è una religione della debolezza, vorrei dire a Vattimo, e neanche per “deboli”, anzi, non è nemmeno una re-ligione abbandonica (a Dio) come l’islam, anzi ancora non è nemmeno una religione (in un certo senso), ma è il retaggio di una Persona che sussiste nelle due Nature, quella umana, auspice Maria madre di Dio, la Theotòkos (Efeso, 431), e di tutti noi, anche se di Lui in primis, che E’ fin dalla fondazione del kòsmos.
E in questo Gesù il Cristo vi è l’immagine di ogni uomo, anche del più malvagio (bestemmio?) che conserva nel fondo della propria anima un barlume di divinità (cf. Meister Johannes Eckhart, tra altri, e induismo classico), anche se adombrata dal limite dell’umanità stessa.
Il tema Trinitario secondo Gioacchino da Fiore, che Vattimo predilige, pongono i tre tempi della storia umana commisurati e ispirati dalla Tre Persone trinitarie, il Padre come autorità, il Figlio come condivisione, lo Spirito come amicizia, per cui Caritas è il nome definitivo di Dio stesso.
Le due “modalità” della manifestazione trinitaria, quella economica, storico-salvifica, e quella immanente o relazionale intra-trinitaria, in Vattimo si confondono, mi pare, mentre in Severino risulta perfino difficile trovare un campo di comparazione e di contatto con il cristianesimo stesso.
Proviamo a cercarne le ragioni per poi valutare se non si possa, in ultima analisi, recuperare un “fondo ancora cristiano” nel suo pensiero.
Innanzitutto recuperiamo i tre modi veritativi di questo filosofo:
a) la verità ontologica dell’essere-che-è-e-non-può-non-essere,
b) la verità logica incontrovertibile del principio di identità e di non-contraddizione,
c) la verità epistemologica o scientifica, necessaria (che-non-cessa).
La verità ontologica fondamentale: mettiamoci pure all’inizio, in esergo, la meraviglia, lo stupore del filosofare rilevato e còlto da Aristotele, e pure il cogito (ergo…) cartesiano, ma non basta, ovviamente, per Severino, senza dimenticare, le idee eterne di Platone che l’anima coglie perché essa, nella sua immortalità (Fedone) vi è consentanea. E nemmeno Agostino con la sua credenza indefettibile in un “Dio” (Dio) che abita nel cuore dell’uomo. Ma soprattutto Parmenide, con la sua opzione assoluta per la verità che risiede e sussiste solo e solamente nell’essere perfetto (e rotondo), che non ha né principio né fine.
E allora, se tutto ciò non basta, per Severino occorre oltrepassare a ritroso anche la domanda originaria della filosofia presocratica che poneva, ancor prima del “perché” post-socratico (Platonico-aristotelico, e a seguire), la domanda incidentale del mito: “cos’è”, che è la domanda implicita del bimbo prima ancora che (come hanno spiegato Piaget e altri) si chieda il perché-delle-cose, come facevo io quando correvo, treenne, su e giù per l’orto e chiedevo a mio papà il nome degli ortaggi e dei frutti degli alberi. “Cos’è?” E, nel linguaggio primordiale dei lemmi irriflessi balbettavo “Tì (quasi inconsapevolmente aristotelico!) tàri-tòri” (cavolfiori), “tì adìc” (qui radicchio), “tì bèesis” (qui verze, verzis, in friulano, che è stata la mia prima lingua madre). Su questo mi pare abbia ragione Severino, anche a costo di scontare un qualche distanziamento dalla verità tout court, secondo l’intreccio delle tre modalità veritative classiche, che comunque il filosofo bresciano accoglie per dialogare con chi non la “vede” come lui, di cui sopra.
Si tratta dunque di una verità im-mediata, là dove la cosa è il suo stesso nome, e il nome è la cosa stessa. L’etimologia, la semantica, la filologia stessa diventano, in questo modo, servitrici della verità, con il limite insuperabile che esse di danno nel tempo e subiscono le angherie del tempo.
Il problema che sorge con Severino, è il suo credere solo nella verità ontologica, che è immediata intuizione a-temporale e priva di ogni (condizione di) possibilità di qualsiasi divenire. L’essere resta, per Severino, senza tempo. Non dunque Essere e Tempo, di heideggeriana ispirazione, ma solo “essere”.
Il problema decisivo è la coincidenza degli “eterni essenti” con l’essere stesso di ogni cosa, “eterni essenti” sia che siano evento, fatto, atto, deliberati o che siano inconsci, determinati dal libero arbitrio o dalle circostanze. Ciò determina, per Severino, l’inconsistenza ontologica del divenire storico, di ogni divenire, di ogni flusso di volontà, di ogni percorso salvifico della stessa “lezione” del cristianesimo.
Se tutto è già con-presente nell’eterno essente non si può dare alcun movimento, sia o non sia di tipo “eracliteo”.
Provo a “entrare” nel concetto severiniano di “eterno essente”. Se riusciamo a concepirlo come uno stato attinente l’essere-della-cosa che appare nell’istante, si può dire che la cosa-che-appare-nell’istante può anche scomparire senza smettere di essere eterna, proprio perché è comparsa e non può non essere comparsa.
Anche il cristianesimo, dunque, può essere letto come un qualcosa di eterno nel suo essere, ma anche di (diversamente) eterno nel suo apparire e scomparire. Teo-logicamente, come il sacrificio di Gesù sulla croce è avvenuto nella storia sotto Ponzio Pilato e Tiberio, preceduto dalla cena, così la memoria dei due atti, vissuta nelle sante messe di ogni giorno nel tempo, richiamano i due sacrifici in uno, essendo eternamente una sola memoria, una sola messa nel tempo e nello spazio, perché ognuno di questi atti, dalla cena e dall’orrendo sacrificio in croce emerge come atto eterno nell’essere eterno.
Per Severino si dà la dimensione spirituale della Gioia, che è il tutto-buono della vita umana verso l’apertura all’essere-eterno che è la Gloria (cf. testo omonimo di E. Severino). Si ratta del passaggio tra l’im-perfezione dell’essente-uomo, e anche, teologicamente, della parte umana (la Natura) di Gesù il Cristo, così come indicato nei teologumeni calcedonesi di “in-confuso”, “im-mutabile”, “in-separabile” e “in-diviso”, e la perfezione assoluta di Dio, che è la, che è nella Gloria, come termine a quo la Gioia dipende eternamente, apò katabolès kòsmou.
La verità logica incontrovertibile
Per Severino tale verità è la stessa verità ontologica, nonostante questa potesse apparire come un’apertura infinita all’essere, mentre nei suoi scritti appare tout court tale. Ma è proprio vero che la verità logica non può anche coincidere con la verità onto-logica? E’ condivisibile la critica (implicita) di Vattimo, e quella esplicita delle autorità accademiche dell’Università Cattolica a Severino, al punto da togliergli l’insegnamento?
Io non ne sono convinto, anche se autorevoli critici (Grillo, Gusmano) attestano la convinzione che Severino operi una sorta di riduzionismo logico della realtà effettuale, ponendo la fenomenologia sotto il governo della logica, la possibilità di una realtà governata dal pensiero…
Potrebbe anche essere inteso diversamente il rigoroso e potente pensiero severiniano? A mio parere sì, se si ritiene il lògos-logico come strumento supremo del pensare libero dell’uomo autocosciente e, aggiungo, sano di mente. Certamente il lògos hitleriano non farebbe parte del lògos. Si potrebbe obiettare che i delitti del regime hitleriano attestano la prevalenza del fenomeno, del fatto delittuoso sul pensiero… ma il Mein Kampf è stato scritto nei primi anni Venti mentre i delitti del regime iniziano con il regime stesso una decina di anni dopo. E’ un esempio, ma non peregrino, mi pare.
E il pensiero è com-presente all’essere dell’autore, per cui come si può non dire che la verità onto-logica è coincidente con la verità logica?
L’hegeliana dizione “il razionale è reale”, se non ben compresa, anche nel mondo severiniano, rischia di confondere il rigore cogitante con la rigidità concettuale. In Severino la dizione “hegeliana” diventa assoluta, se non la si comprende bene, nell’intero sistema del filosofo bresciano.
Restano i problemi, comunque, che Severino pone con la sua distinzione dei vari “tipi di verità”.
A me pare che, soprattutto nel confronto che Severino ebbe con Piero Coda (cf. E. Severino e P. Coda, La verità e il nulla. Il rischio della libertà, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2000, p. 52) che una “pista” plausibile, che può anche condurre a una ripresa delle condizioni di possibilità di un dialogo con la teologia cristiana, possa essere l’elemento dell’intuizione veritativa, che accompagna quasi a latere il processo induttivo-deduttivo dell’epistemologia moderna.
In altre parole, l’intuizione, in Severino, può essere considerata come un atto analogo all’atto di fede, una analogia di partecipazione (neo-scolastica, magari sulle tracce di un Cornelio Fabro).
Conseguenze teologiche, trinitarie e cristologiche
Sotto il profilo teo-logico, Severino si pone quasi su una posizione origeniana, quella dell’apocatastasi, vale a dire della ricapitolazione del tutto in Cristo, anche del male e del tragico, con una differenza: che anche in Origene (cf. De Principiis, Perì archòn) si trova, così come nella teologia cristiana “ufficiale”, quella di Agostino e Tommaso d’Aquino, che tutto accadrà alla fine dei tempi, sempre però nella differente prospettiva tra Origene e la teologia cristiana “ufficiale”, che non coincidono sul tema della salvezza eterna per tutte le anime.
Certamente fa problema pensare che la verità della salvezza possa comprendere Giuda Iscariota, Hitler, Stalin, i capi di Hamas, Netaniahu, Pol Pot, Putin, l’Isis et alia similia, epperò nessuno può sapere dove l’imperscrutabile sapienza e l’infinita misericordia divina possano arrivare. Ad esempio, considerando Giuda, nel tempo mi sono quasi convinto che la sua anima sia (stata) salvata, cioè resa-salva dall’infinitezza dell’amore sacrificale di Gesù Cristo.
Per Severino, l’eternità dell’essente, di ogni essente comprende la Gioia (del perdòno, in fondo), che annichilisce ogni tragedia, ogni male, ogni dolore, perché questi finiscono con la morte. In un certo senso non mi pare che la posizione severiniana sia assurda.
Vediamo la questione trinitaria in Severino. Il suo eleatismo potrebbe risultare inconciliabile con ogni ipotesi di teologia trinitaria, ma forse no: invece di concepire missioni processioni e relazioni intra-trinitarie come un eterno e statico essere, si può accettare, anche nel mondo teoretico severiniano, un eterno divenire, per cui l’eleatismo parmenideo purissimo degli “eterni essenti” può essere temperato, senza essere dissolto, dall’accettazione del reale divenire di tutte le cose nell’ambito di un essere eterno, in quanto sostrato imperscrutabile e ineffabile (in questo senso, divino) della realtà.
Conciliare l’inconciliabile? A questo punto, se la gerarchia accademica dell’Università Cattolica avesse potuto usufruire del dialogo, avvenuto nel 2000 per iscritto, fra Severino e monsignor Piero Coda (relatore di Dottorato del mio carissimo amico Don Angelo Zanello), forse la carriera accademica del filosofo bresciano avrebbe potuto continuare colà.
Uno sguardo al rapporto tra verità e libertà.
Si percepisce una difficoltà nel pensiero severiniano allorquando si pone il tema che coinvolge le due dimensioni teoretico-morali, quella noetica e quella pratica.
Coda suggerisce di cercare di superare l’impasse tra atto di fede e atto intuitivo puramente intellettualistico con l’accettazione di un’evidenza di verità originaria e originante lo stesso… atto di fede. Mi sembra che tale impostazione possa addirittura avvicinare il rigido intellettualismo (hegeliano fin nel midollo) di Severino, all’accettazione delle condizioni di possibilità di un atto teo-logale né ir-razionale né a-razionale, ma semplicemente logico della logica umana che un Odifreddi tanto esalta contra quamquam religionem.
Si tratterebbe, secondo Piero Coda, di un darsi della verità dentro la libertà, perché l’atto di fede, anche contro (o, meglio, oltre) il credo quia absurdum tertullianeo e la gettatezza kierkegaardiana.
Un altro problema che pone il pensiero severiniano è quello afferente l’incarnazione. Per il filosofo, l’incarnazione del divino nell’umano, che è veritiera, non può manifestarsi se non nella sua eternità, come direbbe il padre Barzaghi: apò katabolès kòsmou, fin dalla fondazione del mondo, citando Apocalisse (13,8).
Per Severino il Gesù storico non ha importanza, poiché la “figura” teologica, anzi te-andrica che conta è solamente il Cristo-Figlio, eternamente generato dal Padre. Ora, bisogna intendersi, e Coda propone il massimo sforzo, non per conseguire un concordismo teoretico a tutti i costi, ma per cercare ciò che di “cristiano” continua a sussistere nel pensiero di Severino, anche dopo l’espulsione dall’accademia cattolica. Trovo che la dottrina degli “eterni essenti” e dunque anche dell’eternità riferibile al Cristo-Figlio possa non essere una visione assolutamente contrastante il Gesù Cristo dolente della tradizione catechistica che Vattimo predilige, perché misura e figura dell’uomo debole e del Servo sofferente isaiano,
Ad esempio, e cito un teologo domenicano che fu mio professore di ontologia e di metafisica, secondo il padre Giovanni Cavalcoli, si può ammettere la veridicità del Cristo-Figlio nella com-presenza di Gesù di Nazaret, proprio nella misura della presenza immanente del divino nell’umano (cf. Schleiermacher, e anche, senza che nessun si scandalizzi, dell’induismo classico del Brahman-atman). L’anima umana (cf. Genesi 1, 27), vale a dire l’uomo stesso, è creato a immagine di Chi lo crea.
La kènosis stessa, in questa prospettiva nella quale anche il pensiero di Severino può attingere, è il “locus teologicus” entro il quale si manifesta la dinamica umano-divina o (secondo me, indifferentemente) divino-umana.
Per apprezzare il pensiero di Severino in un’ottica di non-contrapposizione alla teologia cristiana, con il rischio di uno scivolamento in un panteismo freddamente logico, si può ammettere l’importanza della sua visione di una verità ontologica fondamentale che è rappresentata dal Dio-Trinità immanente al Tutto, e dunque alla Storia della salvezza, che si raccorda, sia alla verità logica di cui l’uomo è capace, sia alla verità epistemologica cui l’uomo attinge mediante il bene dell’intelletto razionale, che non collide mai con l’atto di fede, in quanto anche l’intelletto abbisogna del momento iniziale, originario, dell’intuizione.
Fides et Ratio, in definitiva, da Agostino a Husserl, Edith Stein e Woytjla (soprattutto nella sua tesi di dottorato Atto e Persona), passando per Tommaso d’Aquino, se vogliamo, dove l’approccio storico-umano si connette con quello dell’intuizione teologale dell’atto di fede.
Alla fine di questa sequenza di riflessioni, che ci hanno visto interpellare, tra Vattimo e Severino, i grandi padri antichi, cristiani e non, e i teologi-filosofi contemporanei (sullo sfondo abbiamo particolarmente presenti figure come Heidegger e Ricoeur) si può dunque parlare perfino di una “ragione credente”? Oppure l’ossimoro implicito nel sintagma citato è troppo azzardato, arduo, fantasioso?
Si può, a mio avviso, azzardare proprio e con cognizione di causa, che ambedue i filosofi citati apportano un contributo fondamentale a questo tentativo di recuperare al pensiero attuale, sia la solidità del pensiero “forte”, parmenideo, eleatico, classico, severiniano, che dà ragione della possibilità-necessità di una verità ontologica fondamentale, di un “essere” che è sostrato di ogni fenomeno, atto, fatto e persona, sia la naturale vivezza e storicità del pensiero (cosiddetto) “debole”, eracliteo, transeunte, vattimiano, moderno e perfin volubile, di un “divenire” continuo e rischioso, che quello dell’umano-vivente, figlio e immagine del Figlio… dell’Uomo.
La ragione, in questo contesto dinamico, interpella, dunque, la rivelazione, traendo da essa forza e conferendo ad essa plausibilità all’interno di un linguaggio umano condiviso (e qui ci soccorre Wittgenstein, eccome, con il suo rigorosissimo richiamo all’essenza della parola significante).
Ontologia (Platone-Aristotele-Agostino-Tommaso-Severino-Fabro et alii), fenomenologia (Aristotele-Tommaso-Descartes-Kant-Hegel-Husserl et alii) ed ermeneutica (Origene-Gregorio Nisseno-Tommaso-Averroè-Lessing-Schleiermacher-Schelling-Gadamer-Heidegger-Ricoeur-Pareyson et alii) possono, anzi debbono, connettersi nella ricerca di una proposizione della verità capace di riassumere e riepilogare ciò che all’uomo è concesso in termini intellettuali e cognitivi.
A queste modalità conoscitive occorre aggiungere una sorta di fiducia esistenziale congiunta a un distacco critico che siano in grado di cogliere tutti gli aspetti della realtà, da quella effettuale delle vite umane, a quella simbolica della cultura e delle credenze, tra le quali la religiosa è fondamentale, ausiliate da un pensiero filosofico ampio e mai asfittico o militante nei meandri a volte fastosi dell’ideologia di tempo in tempo prevalente, sia pure essa di stampo ecclesiale. Sto pensando a certi perniciosi fondamentalismi che ammorbano anche società evolute, non solo i precordi arcaici dell’islam rurale e tribale, come nell’America statunitense, nell’ambito della potenza economica maggiore.
Un aiuto fondamentale a questo pensare ampio lo può dare anche l’analogia, sia essa quella filosofica classica dell’aristotelismo tomista e fabriano (intendo l’assai poco ricordato Cornelio Fabro), sia essa quella narrativa della creatività letteraria (ad e. Tragèdi greci, Dante, Dostoevskij), perché opere dell’uomo in ricerca della verità su di sé e sul mondo, sulle ragioni del vivere e sulla naturalezza del venir meno naturale.
Kènosis, gloria e gioia, allora, potranno incontrarsi al limite – sempre da esplorare – dell’anima umana, nella sua divina profondità (cf. Johannes Meister Eckhart) e verità.
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