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Verità ed Eternità, o di dove riposano gli “eterni essenti”

Caro lettore,

qui accanto trovi un’immagine di Cà Foscari a Venezia, dove ha insegnato per tanti anni il prof Emanuele Severino, che per molte sue idee filosofiche apprezzo molto, come quelle di cui tratto in qualche modo qui. Ho appena letto il suo Dispute sulla verità e sulla morte, edito da Rizzoli in questo inizio 2018.

Che esistano verità e eternità è domanda che l’uomo si fa da millenni, in Oriente e in Occidente, dal Siddharta Gautama (cioè il Buddha, l’Illuminato) a Platone e Aristotele, da Shankara a Plotino, a Origene, a Severino Boezio, a sant’Anselmo d’Aosta o di Canterbury, e soprattutto a sant’Agostino, con la sua nozione sul tempo che sembra pre-dire Einstein (cf. Confessiones, libro XI). Nel nostro tempo, prima Nietzsche e Henri Bergson, e poi più recentemente Emanuele Severino e Gustavo Bontadini, suo maestro, hanno pensato a lungo a questi concetti, e scritto. E anche il mio amico e docente di metafisica il domenicano padre Barzaghi. E io pure.

Che significa?

Probabilmente che i due concetti sono talmente universali e importanti da coinvolgere da tanto tempo le persone pensose in ogni ambiente e cultura.

La verità talvolta viene declinata al plurale, oppure viene intesa in senso molto relativistico, e non precisamente in-relazione, cosa molto diversa. Il mio amico filosofo Stefano Zampieri ha coniato il bellissimo sintagma “verità locali”, pur non essendo assolutamente un relativista, ma un pensatore cosciente che tutto-e-ogni-cosa–è-in-relazionecon-tutto-e-ogni-cosa. I relativisti, specialmente quelli dediti alla ricerca gnoseologica ritengono che A possa tranquillamente e immediatamente essere sostituita da B, senza alcun rispetto per il principio di identità e di non contraddizione. E questo non funziona, come vedremo nel successivo post che dedicherò a Wittgenstein. Noi umani dobbiamo avere l’umiltà di rispettare le convenzioni linguistiche e i nomi-che-diamo-alle-cose, non violare questo patto sacro per ragioni ideologiche, come accade di questi tempi quando si vuol talora chiamare le cose con nomi impropri, come chi insiste a definire “matrimonio” una legittimissima “unione civile”. Si può dire che non è vero che un matrimonio coincide con un’unione civile, poiché matrimonio significa etimologicamente “ufficio della madre”, e non sempre nelle unioni civili vi è una madre. O no? Ecco come si trova la verità, che possiede una sua inconfutabile eternità, o perennità, se vogliamo dire in un altro modo.

Che la caratteristica di verità di ogni ente presupponga la sua eternità va però mostrato, per quanto possibile. Prima però occorre fondare in qualche modo l’eternità degli enti-che-sono o, come preferisce chiamarli Severino, a differenza di Aristotele e Tommaso d’Aquino, “essenti”. Proviamo così, senza scomodare ragionamenti troppo astrusi, visto che si tratta di metafisica.

Se immaginiamo di metterci “dal punto di vista di Dio”, possiamo ipotizzare di sospendere la credibilità di ogni realtà transeunte secondo il “prima e il poi” di aristotelica memoria, e di proporre una sorta di sguardo dal “nunc aeternum” (un ora eterno) sulle cose e sul mondo, di modo che la realtà appaia come un continuum senza inizio né fine o, come si dice nel linguaggio classico “(aeternitas) est tota simul et perfecta possessio“, significando un contemporaneo essere di tutte le cose per sempre, perfettamente, completamente.

E dunque l’eternità è a-temporale, si può dire, come tempo-di-Dio, che l’uomo può solo tentare di de-finire con parole sempre insufficienti, essendo presso a poco l’eternità della stessa natura di Dio. E di Dio, come sanno i filosofi musulmani sufi e i mistici cristiani à la Meister Echkart si può solo dire negandolo, cioè dire ciò che non è, e dunque un qualcosa di simile al nulla, alla negazione di qualsiasi altra cosa. Dio non è… altro che… non sappiamo bene cosa e come. Sappiamo forse chi è, ma solo per come ce lo ha insegnato fin da bambini il venerando catechismo di san Pio X, papa Sarto: “Dio è l’Essere perfettissimo Creatore e Signore di tutte le cose“.  L’eternità è dunque un attributo di Dio, e ciò per il momento basti, visto che né i più grandi fisici, né i maggiori filosofi e teologi ce lo sanno dire in modo convincente.

Poche parole o poco più ora, sulla verità.

La verità, per i Greci era l’alètheia, (alfa privativo innanzi al nome del corso d’acqua infero Lete, il fiume della dimenticanza), cioè il non-nascondimento, definizione riproposta con efficacia nel secolo scorso da Martin Heidegger.

Il primo immenso pensatore occidentale che se ne occupò fu il “terribile” Parmenide di Elea, il filosofo dell’essere, che riteneva essere e pensiero coincidenti, e il nostro contemporaneo Karl Jaspers, medico e psichiatra condivideva questo asserto a duemilacinquecento anni dalla sua esposizione. Platone e Aristotele seguirono Parmenide, arricchendo ulteriormente questa prima grande intuizione. “Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, e di ciò che non è che non è, è vero” (Metafisica, IV, 7, 1011 b). Affermazioni apparentemente banali, ma solo a una prima lettura, ché se ci pensiamo bene attestano convenientemente e razionalmente tutti i giudizi sulla realtà che possiamo dare. Infatti, se crediamo a queste semplici definizioni, fondiamo nientemeno che la coincidenza assoluta tra verità e realtà.

Poi, nella vita sappiamo che non è così: basti pensare che nell’ambito del diritto vi è una differenza tra verità di fatto e verità processuale, per cui si può condannare un innocente e assolvere un colpevole!

Tornando al pensiero filosofico e poi fisico e matematico troviamo: Aristotele con la sua logica sillogistica, per cui date certe premesse, conseguono necessariamente (obbligatoriamente) certe conclusioni, ad es. “L’uomo è razionale/ il razionale è libero/ l’uomo è libero“. Inconfutabile. Lasciamo stare qui le neuroscienze di taglio positivistico che tendono a negare il libero arbitrio, in nome di un biologismo quasi assoluto.

Agostino d’Ippona ritiene che la verità segua l’illuminazione dell’intelletto da parte di Dio, come dono di grazia, seguito in questa linea da sant’Anselmo; Tommaso d’Aquino chiosa ammettendo che la verità deve poi occuparsi, aristotelicamente, dell’oggetto da conoscere “Idem est actus cognoscentis et cogniti“, cioè  l’atto di ciò che è conosciuto è lo stesso di quello del conoscente, che Descartes porterà alle estreme conseguenze di un dualismo assoluto, platonico, tra la verità delle cose e quelle dello spirito che conosce le cose: il suo “penso dunque sono, cogito ergo sum“. Io direi forse “cogito quia sum, penso perché sono“. Ma Cartesio è più autorevole di me.

Vi sono poi diverse teorie sulla verità che possono essere così sintetizzate: a) quella corrispondentista, che lega strettamente la verità con la realtà; b) quella coerentista, caratterizzata da una sorta di omogeneità autosimilare all’interno di una serie di affermazioni; c) quella del consenso, connotata dalla coincidenza di opinioni su un dato; d) quella pragmatista, tipica di un pensiero utilitarista, come quello anglosassone, per cui è più vero ciò che serve di più; e) quella costruttivista, sociologica e politica, in qualche modo utilitarista anch’essa.

Autori contemporanei come  Rorty e Tarski sostengono che a volte il discorso su certe cose è ridondante e si potrebbe semplificare molto. Un esempio: non occorre dire che “la neve bianca è vera“, poiché basta dire che “la neve è bianca“, in quanto proposizione implicitamente capax veritatis, cioè veritiera, ok no? E io aggiungo: perché aver bisogno di dire “assolutamente sì, assolutamente no“? Che cosa aggiunge all’affermazione e alla negazione l’avverbio modale? Non è che il “sì” e il “no” non siano di per sé già chiari e chiarificatori? E dunque perché sprecare fiato ed energie con avverbi inutili? La verità a volte è semplice.

E a volte è terribilmente complessa e quindi non direttamente afferrabile, come nel caso delle cose relative alla trascendenza, al divino, all’immortalità dell’anima, alla vita eterna, al rapporto della verità stessa con l’eternità.

Tornando alla storia del pensiero in tema, troviamo che, dopo la lezione greca classica il concetto è stato studiato con passione e rigore da pensatori successivi, come l’islamico Averroè, che sulle tracce di Aristotele provò a sintetizzare l’idea che la verità potesse essere trovata nell’armonioso concerto di ragione e fede, in qualche modo opinione non distante dalla più alta teologia cristiana come quella di Tommaso.

In ambito evangelico la verità si fa persona, quella di Gesù Cristo (Gesù di Nazaret detto il Cristo, per essere precisi), come racconta ad esempio Giovanni (cf. 18, 37-38): “Allora Pilato gli disse, dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Gli dice Pilato: Che cos’è la verità?. (…).

Per la fede cristiana il criterio di verità è dunque il maestro nazareno, senza che ciò significhi che l’uomo non debba ricercare, con il suo intelletto, le verità terrene, quelle scientifiche, conseguite con i criteri dell’induzione e della deduzione così come proposti da Galileo e da Descartes all’inizio della Modernità.

In logica matematica troviamo le tesi di Kurt Gödel che sostiene la non coincidenza tra verità e dimostrabilità (cf. Teoremi dell’Incompletezza, Vienna 1925), garantendo così un ruolo fondamentale all’intuizione (retaggio platonico-agostiniano), Prima di lui Gottfried Leibniz aveva distinto tra verità di ragione e verità di fatto, là dove le prime si basano sul principio di identità e di non contraddizione (cf. supra Aristotele, Metafisica, V, etc.), mentre le seconde possono fondarsi semplicemente sul principio di ragion sufficiente, come spiega con un esempio: “Colombo scoprì l’America“, dove la veridicità della proposizione è mostrata dalla credibilità dei navigatori e dalla credendità delle loro cronache. Io di solito dico così: “Non sono mai stato in Australia, ma credo che esista“. Infatti non metto in dubbio le cronache a partire da quella del viaggio settecentesco del capitano inglese James Cook, e le testimonianze di emigranti in quel continente che conosco personalmente.

E potremmo continuare trattando della verità nelle scienze del diritto, dove si distingue, come abbiamo visto supra tra verità di fatto e verità processuale, che possono (purtroppo) non coincidere. Ma ci fermiamo qui per tornare al titolo del pezzo.

Si può dire che verità ed eternità appartengono al novero degli enti possono definire “eterni essenti” come sostengono Bontadini, Severino e il padre Barzaghi? Cioè, è plausibile, anzi vero che i due concetti rinviano a un qualcosa che non finisce, che dura per sempre, che non muore?

A mio parere sì, perché ciò che accade ed è accaduto non può essere fatto non-essere-accaduto, neppure da Dio, che è nell’eternità e da lì, con un solo sguardo, tutto sa e tutto contempla, amando le creature e il mondo, nella sua visione, eterno e vero.

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3 Comments

  1. Il tuo articolo ha toccato due temi certamente rilevanti, verità ed eternità… Come in altri casi privilegi un approccio che chiamerei storiografico (snoccioli diverse prospettive sui due temi cardine), pur non disdegnando di trarre conclusioni personali. Anche nella mia prospettiva non si può prescindere dalle due nozioni in quanto postulati o presupposti di ogni dire e pensare. Come ben sai, anche lo scettico che nega che si diano verità e il relativista che non distingue verità e opinione non possono fare a meno di supporre, contraddittoriamente, che le loro rispettive tesi siano “vere” e vere, presumibilmente, a differenza delle tesi dei loro avversari, altrimenti non sarebbero rispettivamente uno scettico e un relativista. Nella mia prospettiva, dunque, la verità è alcunché di necessariamente postulato. Questo, tuttavia, non garantisce affatto che questa determinata proposizione sia “vera”. Essa non può che costituire un’immagine di ciò che è, vera o falsa a seconda di come viene intesa. Come sai, nella mia prospettiva questa “intenzione” non è altro che esercizio di intelligenza (nous) in senso platonico (o agostiniano, se preferisci). Se cercassi di tradurre quello che intendo per comunicartelo, tu potresti sempre fraintendermi. Posso solo provare a suscitare in te, maieuticamente, le stesse intuizioni, senza mai poter accertare che questo “si verifichi”. Per l’eternità le cose non sono molto diverse. In tanto riesco a concepire il tempo, il divenire, in quanto lo distinguo alla sua negazione, da ciò che è sempre uguale a se stesso. Tuttavia non facciamo esperienza dell’eterno, ci limitiamo a presupporlo o, al più, a intuirlo. Queste e altre nozioni cardine, tra loro strettamente intrecciate, postulati di ogni possibile dire e pensare, dunque, in ultima analisi, di ogni ente in quanto “pensato” come tale, costituiscono insieme un “pleroma”, un cosmo noetico, la cui più profonda e analitica penetrazione (conseguita attraverso la messa in luce dell’ordine gerarchico delle loro relazioni), ho trovato, oltre che in Tommaso, in una delle sue più rilevanti, anche se talora misconosciute fonti, Proclo Licio Diadoco, forse il più grande platonico dopo Plotino e prima dello Pseudo-Dionigi (che ne dipende), in particolare nelle Teologia platonica e negli Elementi di teologia (che costituiscono, in un certo senso, l’introduzione metodologica della Teologia). Eupraxia, o loste!

  2. Certo che facciamo esperienza dell’ eterno, basta riuscire a meditare per pochi minuti, ovvero fermare la baraonda che abbiamo tutti costantemente nella testa.

  3. Grazie Marco, fai bene a sottolineare la “baraonda” odierna che indigna e stanca… meditare, come insegnavano gli antichi, anche del Medioevo oggi tanto vituperato dai “tecnicamente” ignoranti, è una straordinaria medicina spirituale. Grazie caro amico

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