Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La “Maat”, o “giustizia” nell’antico Egitto, prodromo della giustizia biblica, di quella greca (Platone, Aristotele, etc.), di quella del diritto romano, dalla Repubblica al Corpus iuris civilis di Giustiniano, della “giustizia” cristiana (sia la “paolina” sia delle virtù cardinali dei Padri Agostino, Evagrio Pontico, Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno, fino alla Morale di Tommaso d’Aquino della Secunda secundae della Summa Theologiae) e in fine della giustizia che conosciamo. Una comparazione sintetica tra le varie “filosofie del diritto”

Parlare di Maat (“Giustizia”), che era, prima di tutto la “dea” della “giustizia”, ma rappresentava anche l’antico concetto egizio dell’equilibrio, dell’ordine, dell’armonia, della verità, della legge e regola, della moralità e della giustizia, mi offre l’occasione di tornare proprio su quest’ultima virtù cardinale, o semplicemente umana.

Come immagine Maat era personificata come una dea antropomorfa, con una piuma in capo, responsabile della disposizione naturale delle costellazioni e delle stagioni, delle azioni umane così come di quelle delle divinità, nonché propagatrice dell’ordine cosmico contro il caos. La sua antitesi teologica era la dea Isfet.

Mandata nel mondo da suo padre, il dio-sole Ra, perché allontanasse per sempre il caos, Maat aveva anche un ruolo primario nella pesatura delle anime (o pesatura del Cuore) che avveniva nel Duat, l’oltretomba egizio: la sua piuma era la misura che determinava se l’anima (che si credeva residente nel cuore) del defunto avrebbe raggiunto l’aldilà o meno.

Intesa come ordine della natura e della società, sia nel mondo terreno sia nell’aldilà, Maat fece la sua comparsa nell’Antico Regno, e precisamente nei testi della piramide di Unis (ca. 2375 a.C. – 2345 a.C.), faraone della V dinastia egizia.

Successivamente, nelle vesti di dea, fu considerata la controparte femminile del dio Thot, dio dell’aritmetica, della scrittura, delle misurazioni e del giudizio dell’anima del defunto, talvolta anche come sua sposa, assimilata in ciò alla dea Seshat, che presiedeva la scrittura, le misurazioni e l’architettura.

Maat rappresentava il principio etico e morale che ogni egizio doveva seguire nel corso della sua vita; Maat era infatti parte integrante della società, garante dell’ordine pubblico.

Il principio di Maat si formò all’incontro delle diverse necessità dello Stato egizio nato da poco, che abbracciava popoli diversi con interessi anche conflittuali. Tale concetto etico e morale voleva scongiurare il disordine all’interno dello Stato; pragmaticamente, divenne la base della legge egizia. Sin dal periodo più antico della storia dell’Egitto, il faraone cominciò ad appellarsi Signore di Maat, sottolineando la credenza che i suoi decreti fossero espressione della Maat che governava il suo cuore. Il sovrano aveva come compito primario quello di presiedere al rispetto della legge e dell’ordine per questo molti sovrani portarono come nome Meri Maat, che letteralmente significa Amato da Maat.

L’importanza di Maat giunse al punto di coinvolgere ogni aspetto dell’esistenza, incluso l’equilibrio fondamentale dell’universo, delle relazioni fra le parti che costituiscono la sostanza della realtà, del ciclo delle stagioni, dei movimenti celesti, delle speculazioni religiose, dei rapporti equi, dell’onestà e della fiducia fra gli uomini. Gli egizi credevano fermamente nella fondamentale sacralità e unità dell’universo.

Nella mentalità egizia Maat legava tutte le cose in una unità indistruttibile: l’universo, il mondo naturale, lo stato e gli esseri umani tutti, come tasselli di un ordine superiore generato da lei. Un passaggio delle Massime di Phtahotep presenta Maat come segue:

«Maat è il bene e il suo valore è duraturo. Non è stata disturbata sin dal giorno del Suo Creatore, mentre chi trasgredisce le sue disposizioni è punito. Come un cammino, si trova anche di fronte a chi non sa nulla. Il misfatto non si è spinto fino alla [sua] porta. È pur vero che il male può portare ricchezza, ma la forza della verità è ciò che dura.»

Esistono poche fonti letterarie originali sulla antica legge egizia. Maat era più venerata come lo spirito della legge e della sua amministrazione che non come la formale esposizione delle norme giuridiche. Maat simboleggiava i valori su cui si fondava l’amministrazione della giustizia, oltre a essere l’entità indirettamente offesa dai crimini; la sentenza equa rappresentava il ritorno di Maat. A partire dalla V dinastia (2510 a.C. – 2370 a. C.) i visir responsabili della giustizia e i giudici cominciarono a essere contemporaneamente sacerdoti di Maat, oltre a indossare immagini della dea. A sottolineare il proprio legame inscindibile con la dea, il faraone era vertice dell’ordinamento giuridico e primo amministratore della giustizia.

Scena della pesatura del cuore sulle pareti del tempio di Hathor a Deir e- Medina. Maat, con la piuma in capo, è in piedi a sinistra. La sua piuma è adagiata su un piatto della bilancia. Thot, a destra, prende nota dell’esito.

La pesatura del cuore, o psicostasia, solitamente raffigurata nelle illustrazioni del Libro dei morti e nelle pitture sulle pareti delle tombe, presenta Anubi mentre supervisiona la pesatura e il mostro Ammit accovacciato in attesa del risultato. Un’altra tradizione voleva che Anubi recasse l’anima al cospetto del defunto Osiride, il quale compiva la psicostasia. Mentre il cuore veniva pesato, il defunto recitava le cosiddette 42 confessioni negative.

Le 42 confessioni negative (dal Papiro di Ani)

  1. Non ho commesso peccato.
  2. Non ho commesso furti con violenza.
  3. Non ho rubato.
  4. Non ho ucciso né uomini né donne.
  5. Non ho rubato grano.
  6. Non ho sottratto offerte.
  7. Non ho rubato le proprietà degli dei.
  8. Non ho mentito.
  9. Non ho sottratto cibo.
  10. Non ho proferito maledizioni.
  11. Non ho commesso adulterio, non ho giaciuto con uomini.
  12. Non ho fatto piangere nessuno.
  13. Non ho mangiato il cuore [cioè Non ho rattristato inutilmente, Non ho provato rimorsi].
  14. Non ho attaccato alcun uomo.
  15. Non sono un ingannatore.
  16. Non ho rubato terra coltivata.
  17. Non ho spiato.
  18. Non ho calunniato.
  19. Non mi sono adirato senza ragione.
  20. Non ho corrotto la moglie di nessuno.
  21. Non ho corrotto la moglie di nessuno. (Ripete l’affermazione precedente, ma rivolto a un altro dio).
  22. Non mi sono contaminato.
  23. Non ho terrorizzato nessuno.
  24. Non ho trasgredito la legge.
  25. Non sono stato iroso.
  26. Non ho chiuso le mie orecchie alle parole della verità.
  27. Non ho bestemmiato.
  28. Non sono un uomo violento.
  29. Non sono un agitatore di contese (o un disturbatore della pace).
  30. Non ho agito (o giudicato) frettolosamente.
  31. Non ho curiosato nelle varie questioni.
  32. Non ho moltiplicato le mie parole nel parlare.
  33. Non ho fatto torti, né ho fatto il male.
  34. Non ho compiuto sortilegi contro il Re, né proferito blasfemie contro il Re.
  35. Non ho fermato [il corso del]l’acqua.
  36. Non ho alzato il tono della mia voce (parlando con arroganza, o con ira).
  37. Non ho bestemmiato il Dio.
  38. Non ho agito con ira malefica.
  39. Non ho rubato il pane degli dei.
  40. Non ho sottratto alle anime dei morti le torte khenfu.
  41. Non ho strappato il pane al bambino, né trattato con disprezzo il Dio della mia città.
  42. Non ho abbattuto la mandria appartenente al Dio.

Diamo ora uno sguardo al Decalogo del Sinài in Esodo e Deuteronomio

Il Decalogo in Esodo

20 Dio allora pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.

Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

12 Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.

13 Non uccidere.

14 Non commettere adulterio.

15 Non rubare.

16 Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

17 Non desiderare la casa del tuo prossimo.

Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

18 Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano.

19 Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!».

20 Mosè disse al popolo: «Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore vi sia sempre presente e non pecchiate».

21 Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio.

Il Decalogo in Deuteronomio

Mosè convocò tutto Israele e disse loro: «Ascolta, Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo dinanzi a voi: imparatele e custoditele e mettetele in pratica. Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un’alleanza sull’Oreb. Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti in vita. Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco, mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte. Egli disse:

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, 10 ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti.

11 Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non ritiene innocente chi pronuncia il suo nome invano.

12 Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. 13 Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, 14 ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15 Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato.

16 Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.

17 Non uccidere.

18 Non commettere adulterio.

19 Non rubare.

20 Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

21 Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.

22 Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall’oscurità, con voce poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede.

Bene, caro lettore, proviamo a leggere consecutivamente i 42 precetti negativi di Maat e i 10 Comandamenti di Yahwe… forse che troviamo qualche consonanza? Mi pare di sì: ciò significa che l’antica saggezza permeava i popoli che avevano contatti e che in qualche modo convivevano nei territori della Mezzaluna fertile, dalla Mesopotamia all’Egitto.

Diamo anche uno sguardo alla Stele del Caldeo Hammurabi:

Il corpus legale è suddiviso in capitoli che riguardano varie categorie sociali e di reati, abbraccia molte delle possibili situazioni dell’umano convivere del tempo, dai rapporti familiari a quelli commerciali ed economici, dall’edilizia alle regole per l’amministrazione del regno e della giustizia. Le leggi sono notevolmente dettagliate, e questo ha fornito un aiuto prezioso agli archeologi, consentendo loro di ricostruire importanti aspetti pratici della società mesopotamica. L’importanza del Codice di Hammurabi risiede certo nel fatto che si tratta di una delle prime raccolte organiche di leggi a noi pervenuta, ma soprattutto nel suo essere pubblico, o per meglio dire pubblicamente consultabile, esplicitando il concetto giuridico della conoscibilità e della presunzione di conoscenza della legge.

Il Codice fa un larghissimo uso della Legge del Taglione. La pena per i vari reati è infatti spesso identica al torto o al danno provocato: occhio per occhio, dente per dente. Ad esempio la pena per l’omicidio è la morte: se la vittima è il figlio di un altro uomo, all’omicida verrà ucciso il figlio; se la vittima è uno schiavo, l’omicida pagherà un’ammenda, commisurata al “prezzo” dello schiavo ucciso. Il codice suddivide la popolazione in tre classi:

  • awīlum (lett. “uomo”), cioè il cittadino a pieno titolo, spesso nobili;
  • muškēnum, uomo “semilibero”, cioè libero ma non possidente; in seguito la parola passò a definire un povero o mendicante
  • wardum (fem. amat), cioè lo schiavo, che poteva essere acquistato e venduto.

Le varie classi hanno diritti e doveri diversi, e diverse pene che possono essere corporali o pecuniarie. Queste ultime sono commisurate alle possibilità economiche del reo, nonché allo status sociale della vittima.

Non viene riconosciuto nel Codice il diritto di responsabilità personale, ossia la pena non è differente a seconda che il danno commesso sia volontario o colposo. Un esempio classico è l’architetto che progetta una casa; se essa crolla e uccide coloro che vi abitano, la colpa è di chi l’ha progettato, e la pena è come se egli avesse ucciso di persona le vittime.

L’impostazione basata sulla legge del taglione modifica il pensiero giuridico dominante nel periodo precedente, attestato dal Codice di Ur-Nammu, che prevedeva per alcuni reati semplici sanzioni pecuniarie invece di quelle fisiche. È possibile che questo cambiamento sia da attribuire alla diversa composizione della popolazione sud mesopotamica del periodo: nel XXI secolo a. C., data a cui risale il codice di Ur-Nammu, i sovrani erano ancora di origine sumerica e la popolazione accadica era solo una parte, sebbene importante, del totale; nel XVIII secolo a. C., gli Accadi, semiti, erano ormai la maggioranza e le stesse leggi vennero scritte in accadico anziché in sumerico.

Rimarchevole del codice è il linguaggio adoperato nel dettare le disposizioni normative: asciutto e conciso, come sarebbe poi stato il linguaggio inaugurato dalla tradizione codificatrice francese, e non prolisso e didascalico tipico della tradizione romana (la quale amava anche fare riferimenti a leggi e costumi precedenti oppure alle finalità perseguite dalla legge), poi seguita in tutta Europa nel corso del medioevo e in Austria nella prima età contemporanea. Ogni parola ha una funzione precisa nell’economia del precetto, conformemente agli odierni canoni di buona tecnica normativa.

Il codice ha anche inaugurato un’altra importante caratteristica tipica della codificazione moderna, vale a dire la suddivisione del testo in articoli: ogni disposizione normativa del codice, infatti, è numerata, il che ne consente il richiamo in modo molto agevole. Anche in questo caso i romani si sono dimostrati più arretrati, in quanto il loro diverso e più complesso sistema di numerazione imponeva l’uso di una gran quantità di numeri per riuscire a richiamare la singola disposizione (sistema che, paradossalmente, è stato recuperato in tempi recenti in Francia): per menzionare o citare disposizioni dal Digesto di Giustiniano, per esempio, era necessario indicare il numero del libro, del titolo e infine del paragrafo (che conteneva la singola disposizione), perché la numerazione dei paragrafi ricominciava da capo ad ogni titolo.

Questa la struttura del Codice:

  1. I processi (1-5).
  2. Alcuni reati contro il patrimonio (6-26).
  3. La scomparsa della persona fisica (27-32).
  4. Alcuni reati propri dei militari (33-36).
  5. I diritti reali (37-65).
  6. Disposizioni perdute (66-99).
  7. Alcune disposizioni su obbligazioni e contratti (100-126).
  8. La calunnia (127).
  9. Rapporti familiari (128-195).
  10. Alcuni reati contro la persona (196-214) (qui sono contenute le notissime disposizioni sulla legge del taglione, come le nn. 196 e 200 sulle lesioni agli occhi e ai denti).
  11. Altre disposizioni su obbligazioni e contratti (215-282).

Tuttavia è facile constatare che ancora siamo lontani dal rigore sistematico tipico delle codificazioni moderne e contemporanee. Vengono trattati indistintamente argomenti di diritto civile, penale e processuale, e lo stesso ordine di trattazione manca a volte di coerenza. Il codice contiene inoltre la prima testimonianza dei doveri della professione del medico, ben prima del Giuramento di Ippocrate.

Giustizia distributiva e giustizia retributiva secondo Aristotele

Nell’Etica Nicomachea (V, 3, 1131 a 10 – 1132 b 9) Aristotele discute della giustizia, la più importante tra le virtù etiche (la loro “forma”) in quanto, derivando direttamente dall’osservanza delle leggi dello Stato, copre tutta l’area della vita morale. Come le altre virtù etiche, anche la giustizia implica il giusto mezzo tra eccesso e difetto; tuttavia, in aggiunta rispetto alle altre, essa stabilisce una proporzione tra i membri della società, proporzione che, secondo i fatti e i rapporti sociali considerati, potrà essere geometrica quando si tratta di “distribuire” a chi più merita onori e vantaggi (giustizia distributiva), mentre assumerà una forma aritmetica quando si tratta di riparare a un danno provocato o subìto (giustizia retributiva). Ora, entrambe le forme di giustizia non contengono norme sufficienti per consentire la scelta etica nei casi particolari. Nota infatti a tal riguardo la filosofa americana Martha Nussbaum (La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, ed. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 555): «Aristotele sostiene che chi tenti di decidere in ogni occasione appellandosi a certi principi generali considerati saldi ed inflessibili è come un architetto che tenti di usare una riga diritta per misurare le complesse curve di una colonna scanalata. Il buon architetto dovrebbe invece prendere le misure con una striscia flessibile di metallo che «si piega alla forma della pietra e non rimane rigida». La buona deliberazione, come questa riga, si adatta a ciò che trova, dimostrando sensibilità e rispetto per la complessità. Non presuppone che la forma della regola governi le apparenze; permette alle apparenze di governarsi da sole e di stabilire se la regola è corretta o meno».

La giustizia, che costituisce la “forma” delle virtù etiche, implica la giusta proporzione tra eccesso e difetto o il giusto mezzo rispetto a sentimenti, passioni, azioni.

«Poiché chi è ingiusto è iniquo, e ciò che è ingiusto è iniquo, è evidente che anche dell’iniquità vi è un giusto mezzo. E questo è l’equità: infatti in quelle azioni in cui v’è un più e un meno esiste anche l’equità. Se dunque ciò che è ingiusto è iniquo, ciò che è giusto è equo: e ciò appare a tutti anche senza ragionamento. E poiché l’equo è una posizione di mezzo, il giusto deve essere pure una posizione di mezzo. L’equo presuppone poi almeno due termini. Necessariamente quindi il giusto, che è una posizione di mezzo ed è equo, è relativo a un oggetto e a delle persone; e in quanto è una posizione di mezzo, presuppone alcuni termini, cioè il più e il meno, in quanto è equo presuppone due persone, in quanto è giusto alcune persone. Necessariamente dunque il giusto comporta almeno quattro elementi: due sono infatti le persone per le quali si trova ad essere e due gli oggetti, rispetto ai quali può esistere. Si tratta, anzitutto, di essere giusti in base al “merito”, cioè ripartire in modo diseguale secondo la validità dei titoli, la dignità del pretendente e la giustificazione della pretesa; abbiamo così la giustizia distributiva.

E tale sarà l’eguaglianza: per le persone e nelle cose; e quali sono i rapporti tra le cose, tali dovranno essere anche quelli tra le persone: se infatti esse non sono eque non avranno neppure rapporti equi, bensì di qui sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e ottengano rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi. Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito, bensì i democratici lo vedono nella libertà, gli oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella virtù. Quindi il giusto è, in certo senso, una proporzione. Ogni forma di giustizia si realizza mediante una proporzione a quattro termini; in particolare, la giustizia distributiva consiste in un’equità di rapporti tra persone e cose distribuite.

Infatti la proporzione non è propria soltanto del numero aritmetico, ma in generale di ogni numero: la proporzione infatti è un’equità di rapporti e almeno tra quattro termini. E che la proporzione disgiunta abbia quattro termini, è evidente; ma ne ha quattro anche quella continua. Quest’ultima infatti usa un termine in due funzioni e lo ripete due volte; ad esempio, come A sta a B, così B sta a C. Quindi il termine B è ripetuto due volte, cosicché, se il B è posto due volte, quattro saranno i termini della proporzione. E anche il giusto si compone di almeno quattro elementi, e il rapporto è identico: sono infatti similmente distribuite le persone tra cui si svolge e i suoi oggetti. Si dirà dunque che il rapporto tra A e B si trova anche tra C e D e quindi, permutando, come A sta a C, così B sta a D. Quindi tale è anche il rapporto della somma alla somma: e la distribuzione combina i termini a due a due. E se essi sono giustamente combinati, l’addizione è giusta. Perciò l’accoppiare il termine A col termine C e B con D è giusto quanto alla distribuzione: e qui il giusto è il medio tra i due estremi che contrastano la proporzione: infatti la proporzione è un medio e il giusto è proporzione. La proporzione che definisce la giustizia distributiva è quindi “geometrica”, per esempio: A (uomo) : B (onore) = C (uomo) : D (onore). Di conseguenza si può anche dire che A : C = B : D.

I matematici chiamano poi geometrica questa proporzione: infatti nella proporzione geometrica anche la somma sta alla somma come un termine sta all’altro. E questa proporzione non può essere continua: infatti non si può trovare un solo termine numerico per una persona e per una cosa. Il giusto infatti è questa proporzione, e l’ingiusto è ciò che contrasta la proporzione. Invero vi si distingue anche un più e un meno. E ciò accade nelle opere: chi infatti commette ingiustizia si attribuisce di più, chi subisce ingiustizia riceve di meno di ciò che è bene. In ciò che è male, invece avviene il contrario: il minor male è tenuto in conto di bene, il maggior male in conto di male. Infatti il male minore è preferibile a quello maggiore, e ciò che è preferibile è bene e tanto più grande bene quanto più lo è.Viene poi la giustizia regolatrice, detta anche più comunemente “retributiva” e, in subordine, correttiva (per le relazioni involontarie) e commutativa (per le relazioni volontarie). Qui la proporzione è aritmetica, poiché esprime l’equidistanza dalla legge: ognuno è valutato per quel che ha fatto, indipendentemente dal suo status.

Dunque una specie di giusto è questa ora esaminata. Ve n’è poi un’altra ed è quella regolatrice, la quale si presenta nelle relazioni sociali, sia in quelle volontarie, sia in quelle involontarie. Questo giusto è di una specie diversa dalla precedente. Infatti la giustizia distributiva si manifesta sempre in conformità alla proporzione suddetta delle cose comuni […]. Ciò che invece è giusto nelle relazioni sociali è una certa equità e l’ingiusto un’iniquità, non però secondo quella proporzione geometrica bensì secondo quella aritmetica. Infatti non v’è alcuna differenza se un uomo per bene ha rubato a un uomo dappoco o un uomo dappoco a uno per bene: né se chi ha commesso adulterio fosse un uomo per bene o un uomo dappoco; bensì la legge bada soltanto alla differenza del danno (e tratta le persone come eguali), cioè se uno ha commesso ingiustizia e un altro l’ha subita, se uno ha recato danno e un altro l’ha ricevuto. Cosicché il giudice si sforza di correggere questa ingiustizia, in quanto iniqua; e quando l’uno abbia ricevuto percosse e l’altro le abbia inferte, oppure anche uno abbia ucciso e l’altro sia morto, il subire e l’agire sono stati in rapporti d’iniquità: allora si cerca di correggerli con una perdita sottraendo così da ciò che era in vantaggio. Quando la proporzione è aritmetica, si dà a ciascuno ciò che è dovuto in parti uguali; l’equo consiste nel retribuire la parte offesa con un vantaggio e quella che offende con una perdita.

Si parla di vantaggio in tali cose solo in senso generale, anche se per taluni, come per chi ha percosso, la parola “vantaggio” non sia propria e così la parola “perdita” per chi ha subìto. Ma quando si voglia misurare ciò che si subisce, allora si può parlare di perdita e di vantaggio. Cosicché l’equo è il medio tra il più e il meno; il vantaggio e la perdita sono poi in senso opposto il più e il meno, il vantaggio è un più rispetto al bene e un meno rispetto al male, la perdita è il contrario: tra di essi l’equo è, come s’è detto, la via di mezzo ed è ciò che diciamo giusto: cosicché la giustizia correttiva sarebbe il medio tra il danno e il vantaggio. […]Il giudice ha qui il compito di eguagliare; infatti “giusto” è simile a “bipartito” e il “giudice” è il “bipartitore”.

Quindi la giustizia, come pure il giudice, è qualcosa di medio. Il giudice poi eguaglia e, come se si trattasse di una linea tagliata in parti diseguali, toglie ciò per cui la parte maggiore supera la metà e l’aggiunge alla parte minore. Quando infatti il tutto è bipartito, si dice di avere la propria parte quando si prende una parte eguale. Perciò l’equo è il medio tra il più e il meno secondo la proporzione aritmetica. Per questo in greco esso è chiamato col termine “giusto” [díkaion], che è simile al termine “bipartito” [díchaion], proprio perché è diviso in due; e il termine “giudice” [dikastés] è simile al termine “bipartitore” [dichastés]. Se infatti, date due parti eguali, si toglie una certa quantità da una di esse e la si aggiunge all’altra, questa supererà la prima del doppio di tale quantità (se invece si sottraesse questa certa quantità alla prima parte, ma non la si aggiungesse all’altra, questa supererebbe la prima di questa sola quantità). Così essa supera il mezzo di una tale quantità e a sua volta il mezzo supera di una tale quantità la parte diminuita.

Con questo ragionamento dunque potremo scoprire che cosa bisogna sottrarre a chi ha di più e che cosa aggiungere a chi ha di meno: bisogna infatti aggiungere alla parte minore quel tanto di cui il mezzo è ad essa superiore, e togliere alla parte maggiore quel tanto di cui il mezzo è da essa superato. Siano eguali tra loro AA′, BB′, CC′. Si tolga da AA′ il segmento AE e si aggiunga a C′ un egual segmento, C′D. In tal modo la CC′D supera EA del segmento C′D più il segmento CZ, mentre supera BB′ del segmento C′D». (Aristotele, Etica Nicomachea, cit., pp. 113-118).

Come si può vedere i 42 precetti egizi sono uno sviluppo antecedente dei Dieci comandamenti. Cosa significa ciò? Che le due storie e le due culture, quella ebraica antica e quella egizia dei regni di mezzo si sono fortemente intrecciate soprattutto nel secoli XV-XIV e XIII a. C.

L’avvento dell’enoteismo del faraone Akenaton (sec. XIV a. C.) nonostante alla more di questi sia sto di nuovo sostituito dal politeismo sacerdotale, ha sicuramente influito sulla religiosità successiva, che ebbe nel periodo del faraone Ramses II il suo massimo sviluppo.

A quei tempi “la schiavitù d’Egitto” del popolo ebraico era al suo acme ed è lì che inizia la storia (molto leggendaria, ma assai fondamentale, teologicamente) di Mosè, di Aronne e del “Popolo prediletto” da Jahwe. Anche sulla schiavitù occorre chiarire qualcosa, se si sia trattato di una vera e propria generale schiavizzazione di un piccolo popolo da parte del maggiore di quella regione ai confini tra Africa e Asia, oppure non del tutto…

Per il lettore più volenteroso propongo di seguito una parte fondamentale dell’Etica di Tommaso d’Aquino contenuta nella Summa Theologiae – Secunda secundae (seconda parte della seconda parte), suddiviso per capitoli, questioni, articoli e argomenti, che a mio avviso possono costituire fondamento razionale anche di un’Etica generale contemporanea.

Secunda pars secundae partis
Quaestio 58
Articulus 1

(41417) IIa IIae, q. 58 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter definiatur a iurisperitis quod iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuens. Iustitia enim, secundum philosophum, in V Ethic., est habitus a quo sunt aliqui operativi iustorum, et a quo operantur et volunt iusta. Sed voluntas nominat potentiam, vel etiam actum. Ergo inconvenienter iustitia dicitur esse voluntas. Seconda parte della seconda parte
Questione 58
Articolo 1

(41417) IIa IIae q. 58 a.1 arg. 1
SEMBRA che la giustizia non sia ben definita dai giuristi come “la volontà costante e perenne di dare a ciascuno il suo”. Infatti:
1. La giustizia, a detta del Filosofo, è “un abito dal quale derivano certe operazioni dei giusti, e mediante il quale essi operano e vogliono le cose giuste”. Ora, la volontà sta a indicare una potenza, o un atto. Dunque non è esatto affermare che la giustizia è volontà. (Idem arg. 2.)
Praeterea, rectitudo voluntatis non est voluntas, alioquin, si voluntas esset sua rectitudo, sequeretur quod nulla voluntas esset perversa. Sed secundum Anselmum, in libro de veritate, iustitia est rectitudo. Ergo iustitia non est voluntas. (Idem arg. 2.)
2. La rettitudine della volontà non è “la volontà”: altrimenti nessuna volontà sarebbe perversa. Poiché, a detta di S. Anselmo, “la rettitudine equivale alla giustizia”. Perciò la giustizia non è una volontà. (Idem arg. 3).
Praeterea, sola Dei voluntas est perpetua. Si ergo iustitia est perpetua voluntas, in solo Deo erit iustitia. (Idem arg. 3).
3. La sola volontà di Dio è perenne. Quindi, se la giustizia fosse una volontà perenne, si troverebbe soltanto in Dio. (Idem arg. 4).
Praeterea, omne perpetuum est constans, quia est immutabile. Superflue ergo utrumque ponitur in definitione iustitiae, et perpetuum et constans. (Idem arg. 4). 
4. Tutto ciò che è perenne è costante: perché immutabile. Perciò è superfluo mettere entrambi gli aggettivi nelle definizioni della giustizia, “perpetua” e “costante”. (Idem arg. 5).
Praeterea, reddere ius unicuique pertinet ad principem. Si igitur iustitia sit ius suum unicuique tribuens, sequetur quod iustitia non sit nisi in principe. Quod est inconveniens. (Idem arg. 5).
5. Rendere a ciascuno il suo appartiene a chi comanda. Se quindi la giustizia consistesse nel dare a ciascuno il suo, ne seguirebbe che dovrebbe trovarsi soltanto nei principi. Il che è inammissibile. (Idem arg. 6).
Praeterea, Augustinus dicit, in libro de moribus Eccles., quod iustitia est amor Deo tantum serviens. Non ergo reddit unicuique quod suum est. (Idem arg. 6). 
6. S. Agostino insegna, che “la giustizia è un amore che si assoggetta a Dio soltanto”. Essa perciò non è fatta per rendere a ciascuno il suo. (41423 1co).
Respondeo dicendum quod praedicta iustitiae definitio conveniens est, si recte intelligatur. Cum enim omnis virtus sit habitus qui est principium boni actus, necesse est quod virtus definiatur per actum bonum circa propriam materiam virtutis. Est autem iustitia circa ea quae ad alterum sunt sicut circa propriam materiam, ut infra patebit. Et ideo actus iustitiae per comparationem ad propriam materiam et obiectum tangitur cum dicitur, ius suum unicuique tribuens, quia, ut Isidorus dicit, in libro Etymol., iustus dicitur quia ius custodit. Ad hoc autem quod aliquis actus circa quamcumque materiam sit virtuosus, requiritur quod sit voluntarius, et quod sit stabilis et firmus, quia philosophus dicit, in II Ethic., quod ad virtutis actum requiritur primo quidem quod operetur sciens, secundo autem quod eligens et propter debitum finem, tertio quod immobiliter operetur. Primum autem horum includitur in secundo, quia quod per ignorantiam agitur est involuntarium, ut dicitur in III Ethic. et ideo in definitione iustitiae primo ponitur voluntas, ad ostendendum quod actus iustitiae debet esse voluntarius. Additur autem de constantia et perpetuitate, ad designandum actus firmitatem. Et ideo praedicta definitio est completa definitio iustitiae, nisi quod actus ponitur pro habitu, qui per actum specificatur, habitus enim ad actum dicitur. Et si quis vellet in debitam formam definitionis reducere, posset sic dicere, quod iustitia est habitus secundum quem aliquis constanti et perpetua voluntate ius suum unicuique tribuit. Et quasi est eadem definitio cum ea quam philosophus ponit, in V Ethic., dicens quod iustitia est habitus secundum quem aliquis dicitur operativus secundum electionem iusti. (Idem).
RISPONDO: Se bene intesa, la suddetta definizione della giustizia è esatta. Infatti essendo qualsiasi virtù principio di atti buoni, è necessario definire una virtù mediante gli atti buoni relativi alla materia propria di codesta virtù. Ora, la giustizia ha come propria materia i doveri verso gli altri, come vedremo subito. Perciò con quelle parole, “dare a ciascuno il suo”, si accenna all’atto della giustizia in rapporto alla materia e all’oggetto proprio: poiché, come scrive S. Isidoro, “giusto è chi rispetta il diritto”. Ma perché un atto relativo a qualsiasi materia sia virtuoso, si richiede che sia volontario, e che sia stabile e fermo: poiché il Filosofo afferma che per l’atto virtuoso si richiede prima di tutto che uno “lo compia coscientemente”; secondo che lo compia “deliberatamente e per il debito fine”; terzo, che “lo compia stabilmente”. Ora, il primo di tali requisiti è incluso nel secondo: poiché, a detta del Filosofo, “ciò che si fa per ignoranza si compie involontariamente”. Ecco perché nella definizione della giustizia si parla di “volontà”, per chiarire che l’atto della giustizia dev’essere volontario. Si parla poi di “costanza e di perennità”, per indicare la stabilità dell’atto. Perciò la definizione indicata è una perfetta definizione della giustizia, a eccezione del fatto che in essa l’abito è sostituito dall’atto che lo specifica: infatti gli abiti sono ordinati agli atti. Ma se uno volesse ridurre l’enunciato a una definizione rigorosa, potrebbe dire così: “La giustizia è l’abito mediante il quale si dà a ciascuno il suo con volere costante e perenne”. – E questa definizione coincide con quella che dà il Filosofo nell’Etica, affermando che “la giustizia è l’abito mediante il quale uno compie con proponimento cose giuste”. (41424 Idem a. 1 ad 1).
Ad primum ergo dicendum quod voluntas hic nominat actum, non potentiam. Est autem consuetum quod apud auctores habitus per actus definiantur, sicut Augustinus dicit, super Ioan., quod fides est credere quod non vides. (Idem). 
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La volontà qui sta a indicare l’atto, non la potenza. È consuetudine infatti presso gli autori (classici) definire gli abiti mediante gli atti: S. Agostino, p. es., afferma che la fede è “credere ciò che non vedi”. (Idem … a. 1 ad 2).
Ad secundum dicendum quod neque etiam iustitia est essentialiter rectitudo, sed causaliter tantum, est enim habitus secundum quem aliquis recte operatur et vult. (Idem). 
2. Ma neppure la giustizia è la rettitudine in maniera essenziale, bensì in maniera causale soltanto: essa infatti è l’abito in forza del quale uno agisce e vuole rettamente. (Idem … a. 1 ad 3).
Ad tertium dicendum quod voluntas potest dici perpetua dupliciter. Uno modo, ex parte ipsius actus, qui perpetuo durat. Et sic solius Dei voluntas est perpetua. Alio modo, ex parte obiecti, quia scilicet aliquis vult perpetuo facere aliquid. Et hoc requiritur ad rationem iustitiae. Non enim sufficit ad rationem iustitiae quod aliquis velit ad horam in aliquo negotio servare iustitiam, quia vix invenitur aliquis qui velit in omnibus iniuste agere, sed requiritur quod homo habeat voluntatem perpetuo et in omnibus iustitiam conservandi. (Idem).
3. Una volontà può dirsi perenne in due maniere. Primo, in rapporto all’atto medesimo, che dura perennemente. E in tal senso è perenne la sola volontà di Dio. – Secondo, in rapporto all’oggetto: cioè nel senso che uno vuol fare sempre una data cosa. E questo è quanto si richiede per la giustizia. Infatti per avere la giustizia non basta che uno voglia osservare la giustizia per un momento, poiché difficilmente si trova uno che voglia agire ingiustamente in ogni cosa: ma si richiede la volontà di osservare la giustizia continuamente e in tutte le cose. (Idem … a. 1 ad 4).
Ad quartum dicendum quod quia perpetuum non accipitur secundum durationem perpetuam actus voluntatis, non superflue additur constans, ut sicut per hoc quod dicitur perpetua voluntas designatur quod aliquis gerat in proposito perpetuo iustitiam conservandi, ita etiam per hoc quod dicitur constans designatur quod in hoc proposito firmiter perseveret. (Idem).
4. Non è inutile l’aggettivo “costante”, perché perenne qui non è preso per indicare la durata continua dell’atto di volontà: cosicché con l’espressione “volontà perenne” si indica che uno agisce col proposito di osservare la giustizia, e col termine “costante” si indica che egli persevera fermamente in codesto proposito. (Idem … a. 1 ad 5).
Ad quintum dicendum quod iudex reddit quod suum est per modum imperantis et dirigentis, quia iudex est iustum animatum, et princeps est custos iusti, ut dicitur in V Ethic. Sed subditi reddunt quod suum est unicuique per modum executionis. (Idem). 
5. Il giudice rende a ciascuno il suo come imperante e dirigente: poiché, a detta di Aristotele, “il giudice è il diritto animato”, e “il principe è custode del diritto”. I sudditi invece rendono a ciascuno il suo come esecutori. (Idem a. 1 ad 6).
Ad sextum dicendum quod sicut in dilectione Dei includitur dilectio proximi, ut supra dictum est; ita etiam in hoc quod homo servit Deo includitur quod unicuique reddat quod debet. (Idem). 
6. Come nell’amore di Dio è incluso, stando alle spiegazioni date, l’amore del prossimo, così il fatto che un uomo serve Dio implica la conseguenza di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto.

Et de quo, hodie, satis sit.

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