Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Su un discorso morale che vale sempre, quello che permette di parlare dei vizi umani, come Paola Pillepich ha avuto il coraggio di fare in un volume, “Le età della vita e i vizi capitali”, che sono stato onorato di presentare, con questa Prefazione

Ho conosciuto Paola nell’ambiente dell’Istituto Superiore di Scienze religiose, afferente alla Facoltà teologica del Triveneto, del Friuli Venezia Giulia.

Senza alcun atto di presunzione, Paola ha voluto mettersi lungo un percorso di storia del pensiero teologico abbastanza poco frequentato negli ultimi decenni, quello dei Padri antichi della Chiesa, che si occuparono di vizi e di virtù. Già il termine di “vizio” e quello di “virtù” nei tempi odierni rinvia a un lontano passato. Oggi si preferisce, in luogo di virtù, parlare di valori, o tuttalpiù di principi, mentre dei vizi quasi manco si parla, se non per intendere qualche tendenza o devianza social-individuale – tipo alcolismo o droghe – di cui si tende al incolpare la società intera, tendenza o devianza sociale, appunto, più legata a visioni e concetti socio-culturali come benessere, magari declinato all’inglese con wellness, o malessere-depressione, trascurando la possibilità che, se si dovesse parlare di una tendenza negativa del comportamento, si potrebbe – ad esempio – utilizzare il termine classico e omnicomprensivo di “gola”, quando una persona esagera nel bere e nel mangiare.

Ma parlare di “vizi” presuppone di interloquire con un altro concetto-valore decisivo, quello di “libertà”.

In questi mesi di inizio 2023 si fa un gran parlare di ergastolo e di carcere duro con riferimento al caso dell’anarchico Cospito, e si ascolta, sia dalla politica, sia dai media, un grande e confuso parlare, e confusivo. A volte anche disonesto intellettualmente. Mi spiego: se è vero che in uno “Stato-di-Diritto”, come l’Italia, nel quale la Costituzione della Repubblica prevede all’articolo 27 che la pena carceraria non sia abbruttente per la persona, cioè non sia costituita da condizioni di detenzione disumane e degradanti, e preveda pure una possibilità di resipiscenza redentiva del detenuto, non si fa che parlare quasi solo di questo tema, senza tenere in conto alcuno le responsabilità personali di questo signore, militante di un’anarchia insurrezionalistica, una dottrina  che non è non solo ideale e valoriale. Cospito ha o non ha avuto responsabilità personali nell’azzoppamento del dirigente Ansaldo cui ha sparato alle gambe?

Quando ha sparato era consapevole che se avesse colpito l’arteria safena, avrebbe potuto causarne la morte in un  minuto a poco più per dissanguamento? E ancora: ha agito liberamente Cospito oppure era sotto la pressione di una pistola puntata alla tempia? Domande retoriche.

In questo caso come in tutti gli altri casi nei quali l’agire individuale, pure nei limiti delle circostanze che impediscono una libertà assoluta, perché nell’agire umano la libertà [il libero arbitrio di sant’Agostino e di frate Martin Lutero],[1] è sempre relativa, nel senso che è-in-relazione con tutto il resto del mondo e delle scelte altrui.

Ciò, analogamente, vale per tutte le scelte che “liberamente” ogni persona umana assume nel corso della propria vita, sia in positivo, esercitando quelle che la Buona dottrina indica come virtù, a partire da quelle cardinali, Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, in tutte le loro specifiche declinazioni, e anche altre come l’Umiltà, particolarmente cara al Movimento benedettino,[2] sia in negativo, “osservando”, invece, comportamenti che si possono definire “viziosi”, quelli che l’elenco canonico cristiano enumera in sette: Superbia, Invidia, Cupidigia, Accidia, Ira, Gola, Lussuria, classificabili moralmente in due categorie, i primi quattro di carattere più spirituale, fors’anche più gravi,[3] i tre seguenti anche legati alle azioni corporali.

Paola Pillepich si è impegnata particolarmente su una parte dei vizi, la gola, la lussuria, la cupidigia-avarizia, l’invidia avida e l’accidia, proponendo tra le sue riflessioni densissimi testi degli antichi Padri, come in questo caso sul vizio della gola.

Evagrio così scrive: «Coloro che hanno il torto di nutrire troppo bene la loro carne […] si preoccupano di sé stessi e non di essa».[4]

La gola, o gastrimargía non nasce dai suoi bisogni. Paola scrive: “[…] infatti, spesso il desiderio supera il bisogno. Per questo viene considerata una passione dell’anima perché il corpo diviene strumento di compimento del desiderio dell’anima. Quando la gola supera i limiti si manifesta quasi come una tendenza all’autodistruzione, afferma.

Una metafora pratica di questo vizio può essere individuata nel consumismo, che talora diventa nevroticamente compulsivo, rendendo vittima colui che vi cede.

La lussuria, nell’analisi dell’Autrice, così come hanno insegnato i Padri è un fomite dell’anima concupiscibile [cf. Platone e Agostino] è definibile in questo modo “brama sfrenata di godimenti carnali, sessuali».[5]Si può ammettere che essa è obiettivamente legata al vizio corporale precedente, la gola, poiché come quello si manifesta in modalità eccessive e strumentali nei confronti del partner.[6] Altro modo di definirla può riscontrarsi in Aristotele che la definiva come “incontinenza” e “licenziosità”. Vizio, se si può dire, affascinante, che va distinto da un esercizio equilibrato e rispettoso dell’erotismo naturale di corpi sessuati, affinché non sia confondibile con la dissolutezza, che un atteggiamento esistenziale molto “incoraggiato” dalle società contemporanee, laddove spesso soprattutto la donna è volgarmente reificata, resa mero oggetto di desideri egoistici.

Molto interessante è il parallelismo della lussuria con la filautia, cioè un amore smodato di sé, su cui Paola trova conferme in alcuni autori che cita appropriatamente, come il Larchet.  Giovanni Climaco fornisce a Paola spunti morali di grande interesse che la nostra Autrice non trascura.

Sulla cupidigia, Pillepich ci orienta con un testo classico:

«Un giovane desidera entrare in monastero. Il maestro dei novizi lo interroga per sapere se è veramente deciso ad abbandonare il mondo: “Se tu avessi tre monete d’oro, le daresti ai poveri? Di tutto cuore, padre. E se avessi tre monete d’argento? Ben volentieri. E se avessi tre monete di rame? No, padre. E perché? – domanda il monaco stupefatto – Perché le ho!». Così iniziò una catechesi, tenuta dall’arcivescovo di Spoleto mons. Renato Boccardo, sull’avarizia. Egli continuò dicendo: «Possedere è legittimo, il problema inizia quando il danaro e i beni posseggono noi. O ci ossessionano. Come l’orgoglioso, il lussurioso ed il goloso, anche l’avaro è definito peccatore e vizioso non perché ama un qualche bene di questo mondo, ma perché il suo amore per questo bene è smisurato».[7]

L’avarizia, o cupidigia, philargyría in lingua greca,è uno dei vizi principali di ogni tempo umano, un “attaccamento al denaro e a ogni forma di ricchezza materiale”, scrive Paola. E ancora, riportando un autore: “Tale attaccamento si manifesta nel godimento provato nel possederli, nella preoccupazione di conservarli, nella difficoltà che si prova nel separarsene, nella pena che si sente nel donare.[8] “La pleonexía, invece, ci spiega ancora Paola, consiste essenzialmente nella volontà di acquisire nuovi beni, nel desiderio di possederne di più. Mentre abitualmente si traduce il termine philargyría con “avarizia”, la pleonexía è meglio resa con “avidità”, “invidia”, “bramosia”, “cupidigia”. Pur rappresentando due atteggiamenti differenti, tutte e due hanno lo stesso attaccamento passionale ai beni materiali e l’una implica l’altra.”[9]

Se l’avarizia è un male sociale, l’invidia, suggerirei, è forse, dopo la superbia, il peggiore dei vizi, poiché, dal verbo latino in-vidère, significa un “guardare-male-l’altro”, augurando allo stesso ogni male senza trarne alcun beneficio. È un vizio, ancorché pericoloso, molto stupido, e va distinto dalla gelosia, che nella giusta misura può essere anche un sentimento capace di suggerire l’imitazione di chi è migliore di noi.

Mi sembra corretto concludere questa mia presentazione del lavoro di Paola Pillepich sottolineando come affronta il tema di un vizio molto particolare, quello dell’accidia, termine derivante dalla tradizione classica di padri come Evagrio e Giovanni Cassiano, che attualmente pare quasi dimenticato o tuttalpiù definito in modo diverso, più attinente a patologie di tipo psicologico, come depressione.

Le parole di Paola: “L’akēdía, dal vocabolario greco significa “senza cura”. Il termine, nel greco classico, designa la negligenza, l’indifferenza, la mancanza di cure e di interesse per una cosa. Il termine greco akēdía è ripreso dal latino sotto forma di acedia, in italiano moderno è reso con “accidia”. I termini “pigrizia” o “noia”, con i quali spesso è tradotto, non esprimono che una parte della realtà complessa che esso indica. Esso designa l’abbattimento, lo scoraggiamento, la prostrazione, la stanchezza, la noia e la depressione dell’uomo di fronte alla vita. È lo smarrimento estremo: si produce uno stato d’animo che intacca e rischia di disorientare tutto ciò che raggiunge. È disinteresse per il presente e mancanza di prospettive per il futuro”, mentre in italiano “troviamo un lessico ricco di sfumature: «malinconia e inerte indifferenza verso ogni forma di azione»[10] e ancora: torpore, pigrizia, disgusto, tedio, abbattimento, languore, indifferenza.”

L’accidia allora può essere definita come un “male oscuro”, una malattia esistenziale, che rischia di attecchire nell’anima umana, specialmente in tempi nei quali gli aspetti quantitativi del vivere, la ricerca spasmodica del successo, che non è quasi mai considerato come il participio passato del verbo succedere, ma l’obiettivo ineludibile di ogni vita: se non si ha successo riuscendo a possedere sempre più risorse materiali non si è nessuno.

Ecco che allora, così come la superbia può generare ogni genere e specie di comportamenti aggressivi, arroganti e protervi (elenco crescente proposto da Norberto Bobbio) verso gli altri, nell’accidioso la risoluzione positiva, la risorsa, può essere, o un definitivo “lasciarsi andare” fino al suicidio, o un recupero di sé attraverso l’aggressività.

Infatti, l’accidioso può essere definito anche come soggetto dall’autostima scarsa, per cui il superamento suggerito dai “manuali del successo” oggi tanto alla moda è, non tanto guardarsi dentro per scoprire i tesori nascosti in ogni anima umana, ma aggredire il mondo e gli altri, senza rispettare niente e nessuno. Si può dire che i vizi capitali oggi si esplicitano in un “combinato disposto” che li vede tutti tra loro pericolosamente proattivi.

Pertanto, non vi è “medicina giusta” che il riprendere per mano, nelle nostre menti, il suggerimento delle virtù, che, come insegnavano gli antichi Padri e anche filosofi moderni come Immanuel Kant e Martin Buber, sono il viatico comportamentale per esistenze equilibrate e capaci di dialogare con le altre persone, e per una vita individuale migliore.


[1] Non (casualmente) cito questi due pensatori assai attivi socialmente e politicamente, perché per loro la libertà era fortemente condizionata dal volere divino, soprattutto nel “secondo” Agostino.

[2] Che sottolinea con forza come Virtù anche il Silenzio e l’Obbedienza.

[3] Come sostiene il Manuale dei Confessori voluto da papa San Pio V e redatto dai Padri Cappuccini verso la fine del ‘500.

[4] EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 53, a cura di DATTRINO LORENZO, Città Nuova, Roma 1992, p. 90.

[5] Cfr. ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, (1970), Zanichelli, Bologna 1994, alla voce “Lussuria”.

[6] A questo proposito mi permetto di ricordare un mio studio sull’eros nella Bibbia, edito da Cantagalli di Siena, che orienta a un giudizio equilibrato su questa vitale manifestazione corporea: La Parola e i Simboli nella Bibbia per una Teologia dell’Eros.

[7] BOCCARDO RENATO, Avere, troppo avere, questo è il problema, in “Avvenire”, 16 luglio 2012 [versione online].

[8] Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, III, 17-18, in SCh 9, p. 128, cit. in LARCHET, p. 171.

[9] Cfr. LARCHET JEAN-CLAUDE, Terapia delle malattie spirituali, p. 171.

[10] ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, alla voce “Accìdia”.

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