Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Lo “smart working” (o lavoro snello) rischia di de-costruire le aziende, e dunque può diventare, da strumento utile e a volte indispensabile, mezzo distruttivo di strutture umane del lavoro

Il “lavoro leggero-snello” (smart working) e a distanza, esiste nel mondo da quando – più o meno – è possibile tenere contatti telefonici, cioè da circa centotrent’anni. Non mi sto riferendo a tutti i tipi di lavoro, ma a quelli intellettuali, specialistici e progettuali. Un esempio storico: negli anni ’30 del secolo scorso il professor Elton Mayo, psicologo e sociologo accademico, incaricato dalla General Electric di analizzare con una survey socio-statistica il sentiment morale dei dipendenti di quella grande azienda, soprattutto degli operai, e dunque di effettuare quella che oggi chiamiamo un’analisi del clima, dopo avere compilato un certo numero di questionari, aiutato dai suoi collaboratori, operando fisicamente in azienda, ha sviluppato l’analisi presso il dipartimento universitario da lui diretto, e quindi a distanza, in smart working, e poi ha restituito i risultati con degli assessment – in presenza – presso la sede aziendale. Il lavoro del professor Mayo fu prezioso per la Direzione, perché permise di migliorare l’ambiente di lavoro “solo” con un aumento e un perfezionamento dei sistemi di illuminazione di reparti e uffici.

Una modalità del genere cent’anni fa era più unica che rara. Un certo sviluppo di questo modo di lavorare si ebbe poi nell’ambito militare nei successivi tragici conflitti globali. E in seguito, man mano che crescevano le tecnologie telematiche, nel mondo bancario e delle grandi compagnie di assicurazione.

Dalla seconda metà del XX secolo lo smart working si è ulteriormente sviluppato con la telematica, l’informatica individuale e la digitalizzazione dei programmi e le reti (network), annettendo molte attività di carattere intellettuale e creativo. Un ambito importantissimo di forme di smart è quello sanitario, con lo sviluppo di strumenti info-telematici digitalizzati diagnostici, soprattutto per il sistema cardiocircolatorio.

Negli ultimissimi anni, con le pandemie mondiali, lo smart working è diventato una modalità di lavoro assai diffusa, ma solo per lavori tecnici e impiegatizi in genere, sia nel lavoro privato, a partire dai grandi sistemi telematici, come la telefonia e internet, sia nel pubblico impiego, dove però già si percepiscono aree di malfunzionamento e di rischio per la qualità dei servizi. Immaginiamo come può “godere” di un servizio pubblico efficiente, ma telematizzato, un anziano (e oggi, rispetto alla digitalizzazione si possono considerare “anziane” anche persone di sessant’anni) che non riesce a dialogare con una… macchina!

Sostituire negli uffici pubblici e di servizio le persone con le macchine può rivelarsi (già si sta rivelando) devastante, e origine non solo di disservizi insopportabili, ma di possibili tragedie.

La modalità del lavoro a distanza sta però ponendo ulteriori questioni e problemi nuovissimi, anche dove è stato sperimentato e utilizzato negli ultimi anni con un certo successo, che forse non stanno venendo considerati con la dovuta attenzione e profondità.

Il titolo scelto per questo articolo anticipa ciò che desidero principalmente sviluppare un po’ in questa sede dialogica e teorica.

Lo smart working sta già ponendo alcune criticità relativamente agli aspetti psico-relazionali e in generale antropologici. In altre parole, sta contribuendo a cambiamenti i cui itinerari e mete non possiamo neanche intravedere. La diffusione pervasiva dei social, ad esempio, sta riducendo i contatti umani, non solo quelli fisici, ma anche quelli telefonici tradizionali, dove si sente la voce umana. Soprattutto i giovani e i giovanissimi tendono a non rispondere più alle chiamate, di qualsiasi importanza siano (di carattere sanitario, lavorativo e, ciò che più impressiona, perfino di tipo affettivo), perché preferiscono il non-impegno emotivo del messaggino, laddove spesso l’emozione è espressa con gli inadeguati (perché non esprimono sentimenti veri ma solo loro parafrasi grafiche o addirittura parodie) e a volte emotikon un po’ infantili (abbracci, cuoricini, facce infuriate, perplessità, etc.). Sottolineo, tra l’altro, che vi è una differenza radicale, drammatica, tra ciò che comunica la voce umana, anche al telefono, costruendo un dialogo nel quale ciascuno degli interlocutori interviene, ribatte, si infervora, tace, domanda, si agita, cambia voce, risponde, chiede precisazioni e infine saluta, anche se non sempre gentilmente. Impossibile a farsi su un social, e anche in una chat line, poiché la parola, che è spesso criptata o acronimizzata, è secca, definitiva, entusiasmante se dice chiaramente “ti voglio bene”, ma già isquallidita se proposta con il vieto acronimo “t.v.b”, e anche devastante e definitiva se sbatte in faccia all’altro sentimenti negativi e distanza.

Attenzione, il famoso “whattsapp” et similia, può generare disastri relazionali!

Lo smart working sul lavoro pone anche aspetti etici e contrattuali, e nondimeno aspetti formativi e gestionali.

Proviamo a proporre delle condizioni di lavoro che costituiscono esempi alternativi:

a) chi può fare senza creare danni lo s.m.? Si possono indicare, tra alcune altre, le seguenti categorie: informatici, progettisti tecnici e web, art director, impiegati di back office, etc…., ma non possono “farlo” per sempre, perché anche questi lavori richiedono contatti umani, gerarchici, programmatici, relativi agli accordi economici. E quindi bisogna stare molto attenti a come si svolge il lavoro di queste figure, a come esse riescono a stare-dentro il flusso lavorativo che prevede attività “a monte e a valle” delle loro, che devono essere razionalmente connesse, condizione non sempre prevedibile.

Bisogna dunque ammettere che anche nei lavori dove lo s.m. è plausibile sussistono dimensioni non demandabili alla condizione della distanza tra colleghi, a partire da chi ha funzioni di leadership, cioè, di guida, coordinamento e responsabilità dei risultati (attesi) dalla Direzione/ Proprietà.

Proviamo ad individuare le attività che, a meno che la situazione non obblighi ad attuarlo, come nel caso della recente pandemia, non possono, non devono essere svolte. Eccole:

b) tutti coloro che gestiscono operazioni e operatori di produzione su macchine e impianti, che a loro volta possono lavorare solo in-presenza. Coloro che operaano nelle varie modalità di vendita al pubblico, dal porta-a-porta a supermercati. Ovvio, vero? Chi gestisce gruppi di lavoro, sia di reparto, sia di ufficio; chi si occupa di Risorse Umane, perché lo s.m. non rende possibile l’incontro, lo sguardo (che non può essere sostituito dalla video-chiamata!), perché con lo s.m. non c’è più il dialogo de visu, che è ontologicamente e funzionalmente altra cosa rispetto alla mail, al social e anche alla telefonata classica: il rischio dello s.m. in questa funzione è di constatare una vera propria impossibilità di curare la Qualità Relazionale, che è uno degli scopi istituzionali della Funzione HR; chi dirige un’azienda a livello operativo, per il quale valgono le medesime osservazioni soprastanti dedicata a Risorse Umane; chi si occupa di manutenzioni, pulizie e guardiania, etc.

Da non trascurare anche quest’ultimo (ma non ultimo per importanza) tema/ problema: i lavoratori in s.m. devono essere tutelati nella loro sicurezza del lavoro esattamente come chi lavora in presenza. In altre parole, l’azienda è responsabile della tutela del lavoratore come-se lavorasse all’interno, con tutte le conseguenze del caso. Esempi: se un/ a dipendente in s.m. non lavora al videoterminale come da norme della sicurezza (postura, illuminazione, etc.) e si rovina la vista, producendo nel tempo una malattia professionale, ne risponde l’azienda… Oppure, se qualcuno/ a in s.m., scende di casa in ciabatte per aprire al postino e cade dalle scale in orario di lavoro concordato, ne risponde l’azienda… Continuo? Consultare le sentenze di merito della magistratura, su casi di specie analoga.

Potrei continuare, ma mi interessa solo sottolineare il tema principale: non è indifferente il-dove-si-lavora per l’ottenimento dei risultati del lavoro. Bisogna accettare cause di forza maggiore che obbligano allo s-m., e utilizzarlo anche nei casi, temporalmente definiti e mai a tempo indeterminato, dove garantisca un’efficienza accettabile o buona.

Non deve essere utilizzato nei casi elencati in b), pena il decadimento della funzione prima di una sua definitiva scomparsa.

Chi deve pensare a queste cose, ci pensi, consiglio di un amico (competente).

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