Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Occorre fare il bene ed evitare il male, in latino: bonum agere, malum vitare

Fare il bene, evitare il male. Facile a dirsi, difficile a farsi. Il vecchio detto classico interpella ogni momento della vita dell’uomo, ponendo una valutazione morale su tutti gli atti umani liberi.

Le azioni umane vanno distinte tra ciò che viene agito liberamente e ciò che invece viene fatto, semplicemente, anche nei casi un agire costretto (o meno) sotto minaccia. Tant’è che la lingua latina prevede due verbi per dire “il fare”, come a) fàcere, che significa meramente un operare, che potrebbe anche essere quello dei sonderkommando dei lager nazisti, che facevano il loro tristo, terribile orrendo lavoro, costretti dal sistema posto in essere dagli uomini di Himmler; e come b) àgere, che significa un fare responsabile, da effettuarsi dopo la riflessione morale sul valore buono dell’azione.

Per chi non lo ricordasse i sonderkommando erano piccoli gruppi di prigionieri ebrei che si occupavano di spostare i cadaveri gassati dei compagni di sventura fin nei forni crematori, e poi di ripulire i vari settori della nequizia indescrivibile.

In Italiano il verbo fare è polivalente, sostituibile con alcuni verbi più o meno sinonimi, come effettuare, costruire, gestire, portare-avanti… tanto è che nelle modalità gergali contemporanee si può dire “fare” anche senza far seguire al verbo attivo-transitivo un complemento oggetto o, latinamente, un accusativo: infatti, quando si vuol parlare con semplicità fino a una praticità banale, si usa dire fare, anche quando si intende guidare un team dedicato a una particolare attività; un esempio: nel mondo aziendale si sente dire spesso, rispondendo alla domanda “che fai in azienda?” … “faccio Risorse Umane“, intendendo che si gestisce il reparto/area/servizio che si occupa del personale. Fare.

Tornando al precetto del titolo, l’etica classica ci aiuta partendo dall’antropologia. I nostri antichi ritenevano che l’uomo “sapesse” che cosa fosse il bene e il male e fosse capace di distinguerli bene. Aristotele proponeva il concetto fondamentale di sinderesi, che potrebbe essere intesa come una sapienza iniziale, pre-razionale e anche pre-morale. E allora, se l’uomo sa distinguere tra bene e male, come mai accadono tante nequizie, delitti, crimini, reati, peccati, se vogliamo usare un linguaggio misto civil-religioso?

E qui entrano in campo i vizi e le virtù, che sono distinti e catalogati fin dalle etiche classiche greco-latine, e sono poi ripresi dai Padri della chiesa fino alla sistematizzazione di papa Gregorio Magno.

Proviamo ad esaminare vizi e virtù. che nell’elenco classico sono sistemate in due elenchi, rispettivamente di sette/ otto, i vizi, e di quattro, le virtù, chiamate solitamente “cardinali” o più semplicemente “umane”.

I vizi sono anche suddivisi in spirituali e corporali, attribuendo implicitamente ai primi un elemento di maggiore gravità, come si può evincere dall’ordine stesso dell’elenco che segue: superbia, invidia, avarizia, ira, accidia, gola, lussuria, cui a volte viene aggiunto (negli elenchi di Giovanni Climaco e di Giovanni Cassiano) la vanagloria od orgoglio spirituale;, posto addirittura all’inizio, prima della superbia, che è caput vitiorum, vale a dire l’origine di tutti i vizi, come vedremo tra breve. Le virtù, quattro, sono le seguenti: prudenza, giustizia, fortezza (o coraggio), e temperanza.

I vizi

  • La superbia, come caput vitiorum, ha diverse definizioni nei vari autori, cui aggiungo una mia propria: il vizio spirituale che mostra l’ auto convincimento della persona di essere dotata di tali e tante qualità umane da potersi permettere qualsiasi azione, anche a danno degli altri. In questo senso può costituire il fomite di qualsiasi comportamento egoista e irrispettoso dell’altro. Utilizzando il linguaggio e il lessico della psicologia clinica contemporanea, si può dire che è una forma di egocentrismo spesso narcisistico e talora connotato da un senso di grandiosità personale.
  • L’invidia, anche etimologicamente evidenzia di essere l’origine dell’avversione verso gli altri. Infatti, il lemma deriva dal sintagma verbale latino in vidère, cioè guardare-contro, di mal occhio, si potrebbe dire. Direi che: l’invidia è il vizio che porta a guardare gli altri di malevolenza, augurandogli – per quanto possibile – il male; tra l’altro, e questo è l’aspetto “stupido” dell’invidia, che viene vissuta interiormente senza trarne alcun vantaggio personale. L’invidia va distinta rigorosamente dalla gelosia, termine che talvolta viene usato indifferentemente in luogo di invidia: la gelosia, a sua volta, è di due tipi: a) il primo può essere considerato non negativo, come nel caso di quando costituisce il fomite di un processo imitativo (ad esempio da parte del fratello/ sorella minore verso il/ la maggiore); b) il secondo genere di gelosia è invece negativo e possibile origine di ulteriori azioni male, come nel caso delle gelosie “patologiche” all’interno delle coppia umana, della quale le cronache spesso riferiscono di esiti drammatici.
  • L’avarizia, si tratta di un vizio cattivo e poco chiaroveggente: l’avaro è tale perché è avido, non rendendosi conto che i beni materiali fuggono, non sono persistenti, perché non è persistente la vita. L’impermanenza di tutto e di tutte le cose, a partire dalla vita, condanna l’avarizia come uno dei vizi più stupidi. Stupidi e faticosi, perché inutili.
  • L’ira, si tratta di un vizio da considerare con attenzione, perché è anche una… passione, solitaria nell’elenco classico delle passioni doppie e opposte (amore/ odio, desiderio/ fuga, gioia/ tristezza, etc.). L’ira diventa vizio, da possibile passione capace di far superare ostacoli ardui, quando si trasforma in collera e la collera si trasforma in violenza, che può diventare perfino omicida.
  • L’accidia, parlando dell’accidia a volte ci si trova in difficoltà, perché il termine stesso è desueto: oggi si preferisce, sull’onda di uno psicologismo pervasivo talora superficiale, parlare di depressione (minore o maggiore). L’accidia è qualcosa di diverso dalla depressione, qualcosa che assomiglia a una tristezza che rende inerti e stanchi prima di fare qualsiasi cosa. S’ha da combatterla con attenzione, perché pericolosa, e a volte mortale. L’accidia può nascere anche da una irresistibile noia, che a sua volte sorge dalla banalizzazione della vita e dei suoi linguaggi, rischio molto presente di questi tempi nei quali la pervasività di internet rischia di avvelenare la vita normale.
  • La gola, ed eccoci con la gola nei due vizi corporali. La gola è uno smodato desiderio di bere e di mangiare. Se dovessi dargli un titolo, direi che si tratta di un vizio poco elegante, rozzo e goffo. Dovrebbe bastare, vero?
  • La lussuria, il simbolo del peccato per un millennio e mezzo, soprattutto perché la chiesa stessa (forse) non ha studiato bene le Sacre scritture (invito al lettore e anche al… presbitero: si rilegga Origene e i suoi scritti sul Cantico dei Cantici!), non distinguendo così lo sfruttamento del corpo umano, che è benedetto, dalla sua fruizione (termine agostiniano!) generosa e amorevole. I Padri cappuccini, autori di un manuale dedicato ai confessori, redatto nel ‘500, hanno pensato di dedicare al peccato vitium di lussuria, il famoso de sexto, due volumi, invece che uno solo come a ciascun altro comandamento, di cui sono elencati i peccata/ vitia in violazione degli stessi. Ho letto in latino le tipologie di peccatum luxuriae e le relative proporzionate penitenze. Potrebbe essere oggetto di una lauda religiosa rinascimentale.

Le virtù:

  • La prudenza, a volte è considerata la virtù dei… vili, perché rallenta, o tende e a farlo, le decisioni. Invece è la virtù di chi sa valutare bene le circostanze e suggerisce, di volta in volta, se rallentare o accelerare le decisioni e le azioni conseguenti. Prudente non è chi rinunzia ad operare, ma chi, prima di operare sa valutare tutti gli aspetti dell’operazione, i pro e i contro, e poi decide ed agisce o fa agire, se ha responsabilità su altre persone. Un esercizio corretto della prudenza non fa mai perdere di vista il fine per cui si opera, e non impedisce di agire tempestivamente, entro i limiti ragionevoli dell’agire-per-un-fine. La tradizione classica e cristiana declina la prudenza in tutte le sue modalità, dalla prudenza politica a quella militare, dalla prudenza nelle relazioni umane a quella delle giustizia, poiché nessun ambito della vita delle persone può fare a meno di considerare la prudenza come atteggiamento corretto nell’agire libero dell’uomo.
  • La giustizia, talvolta considerata una virtù poco distinguibile dal diritto, di cui conserva l’etimologia latina di jus, è invece il fondamento del diritto e di tutte le leggi positive (poste dall’uomo nelle società), basandosi su fondamenti che possiamo ancora definire “naturali”, quasi che emergano dalla sapienza dei popoli; la giustizia può essere distinta in tre tipologie: a) quella legale, che è costituita dalle leggi fondative di una civiltà o di una nazione. Esempi: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, e la ad essa contemporanea Costituzione della Repubblica Italiana; b) quella commutativa, che regola i rapporti tra persone ed enti e si può esemplificare nella contrattualistica commerciale e del lavoro: essa sovrintende ai processi di accordo negoziale sulle vendite e sugli acquisti, sui contratti di lavoro e sulle normative commerciali di ogni genere e specie; c) quella distributiva, che offre e indica proposte di distribuzione dei beni e dei redditi in considerazione delle differenti, più o meno agiate, condizioni personali, familiari e sociali delle persone: un esempio molto in auge è quello del welfare, sia statale (scuola, sanità, settori e strutture socio-assistenziali, trasporti, etc.), sia di soggetti privati come le aziende. La giustizia è la virtù che più caratterizza la ricerca di buoni equilibri tra le persone e nelle società degli umani, e si è declinata nel tempo in molti modi, raggiungendo ai nostri tempi, forse, la sua massima espressione morale, pure se non mancano contraddizioni, anche gravissime, come la distribuzione dei beni e delle risorse naturali nel mondo. Aristotele, trattando della virtù di giustizia nel suo fondamentale trattato Etica a Nicomaco, propone anche una modalità differente, quella che chiama epichèia, o giustizia giusta, con la quale si possono assumere decisioni apparentemente ingiuste, ma sostanzialmente giuste per conseguire un bene maggiore sulla base della “scala dei beni”.
  • La fortezza (o coraggio), di questi tempi talora discussa o non compresa, è la virtù che aiuta l’uomo ad affrontare imprese ardue e anche pericoli, ma sempre nei limiti che suggerisce la prudenza. Nel caso in cui, invece, ci si confronti con pericoli e difficoltà che ragionevolmente possono essere superiori alle forze dell’agente, un atteggiamento di pervicace insistenza nell’agire, si può definire temerarietà, cosicché il “coraggio” smette di essere una virtù. Un esempio sperimentato da me direttamente è il seguente: in montagna, quando una parete o un sentiero erto mi attirava, avevo sempre attenzione a che non superasse, anzi fosse al di sotto delle mie già comprovate capacità. E sono qui a scriverne. Una sola volta rischiai di morire per una caduta, e fu quando sottovalutai l’ambiente innevato (stavo scendendo con degli amici dal monte Coglians, m. 2780, la più alta cima delle Alpi Carniche) e l’ora di discesa: alle 11 del mattino il sole aveva già iniziato a far sciogliere la neve che quattro ore prima si doveva scalettare con i ramponi. Me la cavai solo perché, nella scivolata sempre più veloce sul nevaio a 50 (e oltre) gradi di pendenza, riuscii a mantenermi lucido e mi girai bocconi potendo così frenare la mia corsa, che sarebbe finita in un burrone di almeno cento metri, come accadde a uno sfortunato medico, nello stesso luogo, qualche anno dopo, che morì. I “miei” danni quella volta si limitarono a grandi abrasioni lungo le gambe e alla scia di sangue che sulle prime scoraggiò i miei amici rimasti impietriti più in alto, che poi quando li chiamai, urlandogli di essere vivo e incolume, cominciarono a scendere con… prudenza. Eccola, la virtù! Qualche anno dopo salii quella grande montagna per la ferrata Nord dal versante austriaco, 800 metri di quasi verticale, senza neve e senza ghiaccio (era agosto! anche qui, prudenza nello scegliere la stagione giusta per un’ascesa del genere), con la massima prudenza (eccola di nuovo!). Il coraggio va sempre coniugato alla prudenza.
  • La temperanza, solitamente ritenuta una virtù vecchiotta, non lo è certamente! Significa avere attenzione a non esagerare con il vizio della gola, soprattutto. E’ una virtù chiaramente schierata contra vitium. D’altra parte, come si può osservare con facilità, l’esagerazione nel bere e nel mangiare porta danni immediati alla struttura corporea e alla mente umana. Quindi, temperanza dice di bere e mangiare con moderazione, ma aggiunge anche il proprio monito contro l’uso di tutte (ripeto, tutte!) le sostanze stupefacenti, che qualcuno distingue, ponendo in competizione di dannosità i cannabinoidi (a eccezione del loro uso terapeutico) con l’alcol: non c’è competizione, anche le droghe leggere fanno male, così come fa male l’alcol quando è assunto in modo inadeguato. Mi spiego meglio citando una importante opera scientifica pubblicata come dottorato di ricerca (in italiano, inglese e friulano) da parte di un ricercatore mio conterraneo, che attualmente presiede la Facoltà di Scienze della Formazione all’Università del Friuli, il professor Franco Fabbro. Il suo libro, Vino e salute, attesta, sulle basi di una lunga e laboriosa ricerca, che il vino rosso del Nordest italiano, in ispecie nei vitigni del Merlot e del Cabernet, se assunti con moderazione, e in proporzione alla struttura corporea della persona, contribuiscono al mantenimento in salute del sistema cardio-vascolare. Come puoi intuire, caro lettore, anche in questo caso la virtù di temperanza è corroborata e quasi, si potrebbe dire, istruita, dalla virtù di prudenza (ancora lei!).

Tutto questo “apparato etico morale”, comunque, a nulla vale, se non si considera come intrinsecamente e necessariamente coinvolto, il tema della libertà. Essa è il valore distintivo dell’agire umano libero e dunque moralmente rilevante. Utilizzo qui un sillogismo aristotelico (da me ab-usato enne volte, oramai, in questo mio lungo discorrere con chi lo desidera) per attestare come l’uomo possa essere ritenuto il soggetto della libertà: a) l’uomo è razionale, b) chi è razionale è libero, c) l’uomo è libero, laddove troviamo due premesse logiche, a) e b), da cui si inferisce, deduttivamente, c), cioè la condizione di libertà dell’uomo.

Sulla libertà molto si è scritto negli ultimi due millenni e mezzo in Occidente, dalle definizioni sillogistiche sopra richiamate alla paradossale determinazione sartriana di un “essere umano obbligato alla libertà”. Ebbene, sì, mi pare che il filosofo francese abbia ragione, perché – in condizioni di salute mentale – l’uomo può decidere, anche se, ovviamente, sempre nei limiti delle proprie condizioni e situazione personale: io che scrivo e tu che leggi, caro lettore, siamo quasi completamente liberi, con il solo limite delle nostre condizioni di forza e di salute. La nostra situazione potrebbe costituire il “termine maggiore della libertà”, mentre il termine minore potrebbe essere quello del carcerato, che a sua volta deve essere considerato nella classificazione di innumerevoli modi di carcerazione, come segue: dai ventuno anni di pena detentiva massima (per qualsiasi reato!), così come vige in Norvegia (si pensi che tale pena è stata comminata anche al signor Anders Breivjk, che una quindicina d’anni fa uccise con bombe e fucili quasi un’ottantina di persone a Oslo e dintorni), alla situazione dei prigionieri di Auschwitz, che si presentavano nudi all’appello mattutino a venti sotto zero, prima di esser avviati alle docce di Zyklon B e ai forni crematori. Si può dire che queste persone disgraziate conservavano un rimasuglio, un briciolo di libertà? Tento, paradossalmente, di rispondere, sì, quantomeno nelle micro azioni che compivano con e tra i compagni di sventure, magari condividendo l’ultimo tozzo di pane nero duro come un sasso. E con il pensiero, riflessione che spesso mi incontra, quando penso a chi si trova in ristretti orizzonti.

Sull’agire morale, e il giudizio su esse si possono dare, alla fine, due modalità o dimensioni epistemiche, pratiche e giuridiche: il reato, che attiene alla sfera civile, sul quale si sono esercitati giuristi e capi di stato da più di due millenni e mezzo, e il peccato, che concerne la sfera spirituale, in senso teologico-religioso. In generale, si può dire che dove si configura un reato sotto il profilo penale, altrettanto si può configurare un peccato, ma non in assoluto. Un esempio: se una persona, assolutamente impossibilitata ad ottenere del cibo per la propria sopravvivenza, lo “ruba” in un supermercato, l’azione si configura certamente nel reato di furto/ appropriazione indebita, mentre sotto il profilo teologico-morale potrebbe anche non costituire peccato, in quanto, teologicamente (parlo della teologia cristiano-cattolica in particolare) il bene maggiore della custodia della vita umana prevale sul bene minore della proprietà privata di una confezione di mortadella o di un frutto. Non sto (questo è chiaro), “giustificando” (nel senso paolino di “rendere giusto” un atto) l’atto del rubare, ma sto collocando l’atto su un piano morale diverso da quello del diritto positivo, portandolo sul piano del diritto naturale. In tema si potrebbero fare innumerevoli esempi, ma mi fermo qui.

Il tema del reato è presente nei codici legislativi dai tempi antichi, ed è sempre stato considerato, pure se in modi molto diversi, fin dal Diritto romano (così come fatto sistemare da Giustiniano a metà del VI secolo nel Corpus Juris Civilis), anche in ragione delle condizioni mentali dell’imputato (che negli ordinamenti italiani attuali è colpevole, solo se oltre ogni ragionevole dubbio e dopo il terzo grado di giudizio); oggi, per i reati nei quali compaiono elementi di instabilità mentale da parte del sospettato o del presunto autore, la giurisdizione ordina consulenze psicologiche e psichiatriche per conoscere al meglio possibile le condizioni mentali dello stesso, e quindi il “grado di libertà” soggettiva vissuto nell’ambito della commissione dell’atto criminoso.

Tornando al tema del peccato (peccatum), che è teologico-moralmente offesa alla lex divina et humana (Comandamenti, Precetti, etc.), fino al Concilio Ecumenico Vaticano II, 1963-1965, la Chiesa ha ritenuto che esso dovesse sempre riferirsi all’agire concreto del “peccatore”, ma proprio il Concilio propose una novità di grande momento, sotto l’egida del padre gesuita Karl Rahner (grande e stimato amico personale di papa Paolo VI), che era il concetto di opzione fondamentale, vale a dire di una scelta più o meno radicale per il male, capace di orientare ad malum l’agire dell’uomo. O viceversa, poiché anche per il bene vi può esserci un’opzione fondamentale, anche se nei limiti della finitezza e dell’imperfezione umane.

Questa visione dava (e dà) un senso e un significato diversi al peccatum, che da “atto categoriale” singolo (violazione o non rispetto delle virtù e pratica dei vizi: si noti che il termine vitium è quasi sinonimo di peccatum!) può diventare, o meno, manifestazione concreta di un’opzione fondamentale per il male. Appunto, sottolineo l’inciso “o meno”, che significa come il singolo peccatum, e anche molti peccata, potrebbero non-essere manifestazioni di un’opzione fondamentale ad malum agere, ma debolezze su cui occorre riprendere il controllo delle virtù, per cambiare vita.

Noto un aspetto legato a questa visione, che richiama, in qualche modo, la dizione ebraica di peccato, awol o awon, che significa letteralmente “mancare il bersaglio”, l’obiettivo della propria vita, e anche quella greca di adikìa, o ingiustizia, vale a dire operare contro-ciò-che-è-giusto (per i Greci, il giusto è ciò che è logico e razionale).

Si potrebbe, dunque, affermare che, quantomeno teologico-moralmente, ogni peccato è di omissione alla propria umanità, e ai suoi fini più elevati. Per quanto concerne il reato, ecco che una visione analoga potrebbe suggerire di pensare ed applicare delle pene che siano veramente, oltre al necessario ed eticamente fondato “qualcosa” di afflittivo ed espiativo, anche educativo e pedagogico, per il risveglio dell’umanità possibile (cf. art. 27 della Costituzione della repubblica italiana) in chiunque.

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