Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Si dà, a mio parere, una differenza qualitativa radicale fra a) lavoro ed economia da un lato e b) politica dall’altro. In sintesi, sono dei fatti incontrovertibili: per a) la certificazione e il controllo della qualità dei processi e dei prodotti sono – da alcuni decenni – determinanti per l’economia, così come le certificazioni (1) ambientale, (2) della sicurezza del lavoro, (3) di sostenibilità ecologica e (4) dei profili etici, mentre su b) si può affermare che la politica odierna si mostra ed è spesso priva (o quasi) di “Qualità”, categoria e termine già presente nel pensiero e nei testi aristotelico, cartesiano, kantiano, hegeliano e perfin “musiliano” (di Robert Musil). Grazie a Dio non altrettanto si può dire degli ambienti economici e produttivi del lavoro autonomo e dipendente, dove vi sono qualità elevate e possibilità di crescita per giovani volenterosi e preparati, non solo impoverimento e precarietà di cui parlano alcuni come fossero l’unica cifra analitica socio-economica, che indubbiamente esistono, ma non possono essere l’unica chiave di lettura della realtà. Ad ascoltare costoro sembra che l’Italia sia alla rovina, ma è vero il contrario, caro Landini e c.

L’incipit del titolo sintetizzato in a) mi servirà per concludere questa riflessione basata sul contrasto radicale che si registra tra qualità del lavoro italiano e qualità della politica attuale.

Preferisco, di contro, partire da b). Molte volte ho scritto di politica, in questa sede e in altre. Sempre con la passione aristotelica che ho sempre avuto per la politèia, secondo il filosofo arte massima degli esseri umani che con-vivono. A volte puntualizzando lo stato dell’arte del momento e a volte confrontandolo con situazioni passate, e assieme a ciò paragonando il personale politico dei diversi tempi, quasi sempre con sconsolanti giudizi sull’attualità.

Giovanni Giolitti

In altre parole, ho constatato un -purtroppo – irresistibile declino qualitativo in chi si è occupato di politica nel tempo. Le ragioni di ciò sono certamente plurime e varie per tipologia.

Provo a sintetizzare una riflessione, valutando con la maggiore oggettività possibile da parte mia la qualità politica del ‘900 in due o tre periodi e quella dei primi decenni del terzo millennio, a partire dagli anni ’90, più o meno, fino a queste… settimane.

Consideriamo innanzitutto la situazione socio-culturale italiana che “produceva politica” nei vari periodi, alcune biografie e i rispettivi humus culturali degli uomini politici (le donne sono state molto rare in politica fino al secondo dopoguerra) più significativi.

Nei primi decenni del XX secolo, fino alla cesura della Prima Guerra mondiale e anche successivamente, almeno fino alla Seconda, il personale politico proveniva prevalentemente dalla borghesia proprietaria e intellettuale, compresa la sinistra, con dei significativi “resti” della tradizione aristocratica ottocentesca e monarchica, che aveva contribuito al Risorgimento come liberalismo di destra.

Sia nello schieramento conservatore, sia in quello progressista, sia in quello cattolico, che per definizione era interclassista, si trovavano figure di alto livello intellettuale: da Giovanni Giolitti a Francesco Saverio Nitti a Sidney Sonnino, da Filippo Turati e Anna Kuliscioff a Giacomo Matteotti fino a Leonida Bissolati e a Giovanni Amendola, da Benedetto Croce a Giovanni Gentile, a don Luigi Sturzo, ad Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, avevamo profili intellettuali, culturali e politici di alto e a volte altissimo livello (Giovanni Gentile, Benedetto Croce, Antonio Gramsci, ad e.). Tutti personaggi di alta cultura accademica, anche se non sempre sistematica: ad e. Gramsci e Croce non si sono mai laureati, ma sono da considerare tra i massimi pensatori e politici italiani del Novecento.

Se veniamo al Secondo dopoguerra, incontriamo alcune figure politiche di valore assoluto, già attive prima e durante il fascismo: il democratico cristiano Alcide De Gasperi, forse il politico di maggiore caratura del Novecento italiano, assieme a Giovanni Giolitti (e, nonostante tutto, a Benito Mussolini, di cui tutto il male si può dire, soprattutto sotto il profilo etico, ma non che fosse un politico scarso; peraltro nell’ambito del regime fascista possiamo riconoscere che Italo Balbo, il trasvolatore atlantico ucciso da fuoco amico nei cieli di Tobruk, il il conte Dino Grandi e Giuseppe Bottai, pur fascistoni, erano tutt’altro che politici mediocri, Grandi fu il primo attore della caduta di Mussolini e Bottai era aperto a una gestione non censurativa anche della cultura non fascista); il comunista Palmiro Togliatti, che sdoganò un partito comunista nell’Occidente atlantico, non senza contraddizioni, ma con una forza indiscutibile (si legga il suo Memoriale di Yalta, per comprendere il suo “obbligatorio” stalinismo dei tempi nazifascisti e di guerra, fino al 1944); i socialisti Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, che in tempi e modi diversi, portarono il socialismo democratico sul versante di una democrazia parlamentare con la quale si potesse coniugare al meglio giustizia sociale e libertà personali e collettive; a destra non si può non riconoscere che personaggi come il liberale Giovanni Malagodi e l’ex repubblichino segretario del MSI Giorgi Almirante siano stati dei politici “tecnicamente” di tutto rispetto; aggiungerei anche il professore Francesco De Martino che guidò il Partito socialista italiano dal periodo del grande leader Pietro Nenni fino a Craxi; ecco: Bettino Craxi, con tutti i distinguo che si vuol fare, va considerato tra questi grandi, soprattutto in politica internazionale, così come il più grande leader cattolico dopo De Gasperi e don Sturzo, Aldo Moro, che pagò con la vita la sua “profezia politica” (sgradita a Russi e Americani in primis, a democristiani e brigatisti, forse, in secundis); Enrico Berlinguer, esempio cristallino di rettitudine morale e di sapienza politica; il repubblicano ex azionista Ugo La Malfa e il liberal radicale Marco Pannella, fondamentale guerriero dei diritti civili; non dimenticherei, tra i bravi, il ministro della Giustizia che con Falcone e Borsellino sconfisse Cosa nostra, Claudio Martelli, che fu vice di Craxi e lungimirante organizzatore di convegni su merito e bisogno, come esempio di un’antropologia capace di distinguere e di congiungere pari dignità e irriducibile differenza tra le persone.

Di Giulio Andreotti, Gianfranco Fini, Ciriaco De Mita e di qualche altro come Gianni De Michelis si può dire che ebbero molte fortune politiche, senza brillare per particolari qualità comportamentali e (forse) morali. Sempre a mio personale avviso.

A sinistra personaggi di valore indubbio e anche intellettualmente onesti sono stati quelli del Manifesto e poi del Pdup: Rossana Rossanda che si definiva la ragazza rossa (titolo della sua biografia) ed ebbe a scrivere con chiarezza che le Brigate Rosse appartenevano all’album di famiglia della sinistra comunista italia, come peraltro sempre affermò Alberto Franceschini, e poi Lucio Magri e Luigi Pintor. Comunque, si è trattato di politici di primo piano.

Altro e diverso è invece il discorso che si può ragionevolmente fare sui politici dell’ultimo trentennio o giù di lì. Anche su questo segmento temporale si possono distinguere valori diversi. Ad esempio, si consideri un Bossi, che comunque seppe – se pure con uno stile e un linguaggio spesso rozzi e violenti – rimettere al centro il ruolo del Nord Italia a fronte di una notevole “meridionalizzazione” del personale politico governativo, un Veltroni e un D’Alema, capi (abbastanza) carismatici della sinistra ex comunista, oppure, sotto altri profili di giudizio, un Mario Draghi, un Sergio Mattarella, un Carlo Azeglio Ciampi, sono stati (o sono) senz’altro politici di vaglia, stimabili sotto il profilo delle capacità personali e delle carriere politiche. Berlusconi merita un discorso a parte, se possibile (e per me è possibile), non-ideologistico, come spesso capita di fare ad alcuni. Berlusconi è un grande imprenditore che a un certo punto ha deciso di fare politica essenzialmente per i suoi interessi; la ha fatta, lo hanno votato in moltissimi fino a far sì che il suo partito personale nei diversi nomi che egli stesso gli attribuì, fu spesso il partito più votato, anche dai ceti popolari; ha governato. Ovviamente (per chi mi conosce) ho sempre votato “contro” di lui e per una sinistra che spesso non è riuscita ad andare oltre un anti-berlusconismo totale, omni-comprensivo, a volte di maniera, affaticante e prosciugante energie che avrebbero potuto essere diversamente spese. Veramente pochino.

Sempre applicando il criterio non-ideologistico, ma quello qualitativo di merito, non si può disconoscere che un Antonio Tajani, conservatore garbato e competente, un Calenda, un Renzi o un Misiani abbiano delle capacità politiche e una certa preparazione. In misura minore anche tipe come Carfagna e Gelmini, che almeno sono signore educate. Meloni stessa appartiene certamente, a mio avviso, a questa categoria (anche se di destra, miei cari amici che non riuscite a distinguere la militanza da una valutazione equanime, ovvero l’appartenenza politico-ideologica da un ideologismo preconcetto).

Oggi, però, l’elenco dei mediocri è di gran lunga prevalente. Un primo elenco con micro commenti tra parentesi: Conte (il flaneur parvenù), Salvini (il trombone), La Russa (presidente del Senato assi poco degno dell’altissimo incarico) Di Maio (l’improvvisato), Di Battista (il presumido), Provenzano (ahi ahi il nomen-non-omen), Serracchiani (non credibile), Foti (dal verbum a memoria, spesso zoppicante assai), Ronzulli (lì per caso, anche se il caso, nel macro-mondo, non esiste), bocca-a-cuore Maiorino, dei 5S, e una congerie di portavoce a comando di tutti i partiti che, quando sono tele visivamente inquadrati e prendono la parola, sono tentato dall’assopimento che comunque è meglio dell’incazzatura.

Su Schlein sospendo il giudizio politico, perché se lo dovessi esprimere ora, sarebbe di chiara insufficienza, tali e tante sono le sue carenze di proposizione politica e anche di postura personale ed espressiva, senza neanche citare l’intervista a Vogue, che non è – in sé – “malvagia”, ma solo inopportuna. E pensare che d’impatto, a pelle, mi è perfino quasi simpatica, e non lo nascondo. Mi piacerebbe parlarne per spiegarle dove sbaglia (sì, proprio spiegarle, da zio molto più competente di lei su tutto, perché rischia di sbandare il PD su posizioni che non rappresentano una sinistra riformista e moderna, ma che rispondono solo o prevalentemente ad élites minoritarie borghesi, più vicine al jet set radical e/o al gruppo dirigente attuale della CGIL, piuttosto che al mondo del lavoro globalmente inteso, che è fatto di lavoratori, imprenditori e dirigenti, di sindacati e istituzioni preposte al controllo, mondo estremamente complicato sul quale non si possono esprimere giudizi semplificatori e sommari come lei è ora in grado di fare).

E dei sindacati confederali che dire? Parto da una piccolissima disamina storica, dove, analogamente all’ambito politico, troviamo nei decenni passati, a partire dal secondo dopoguerra (più o meno, perché il più prestigioso di costoro, Bruno Buozzi, fu fucilato dai nazisti nei pressi di Roma nel 1944 in circostanze mai chiarite… era socialista) alcuni grandi personaggi: da Buozzi stesso a Di Vittorio, da Mario Pastore a Santi, da Luciano Lama a Pierre Carniti, a Bruno Trentin, da Giorgio Benvenuto, che bene conobbi, a Enzo Mattina e a Franco Bentivogli, fino al declino di una serie di personaggi composta da Camusso Landini Bonanni Sbarra Barbagallo, detti di seguito anche senza punteggiatura.

Per terminare torno sul criterio che ho adottato come giudizio politico individuale.

Innanzitutto chiariamo che cosa si può intendere con la categoria “culturale” e filosofica di Qualità, secondo alcuni grandi filosofi come Aristotele, Descartes, Kant, Hegel e altri, e secondo un grande scrittore del XX secolo come Robert Musil, il quale ebbe a dedicare il suo maggiore romanzo a un uomo senza… qualità, il signor Ulrich.

Per Aristotele la qualità era una categoria diversa e irriducibile a quella della quantità; verso la tarda scolastica, tuttavia, le qualità cominciarono ad essere intese come l’esito di variazioni della quantità stessa, aprendo la strada alla fisica matematica e meccanicistica che riduceva le differenze qualitative delle specie a misurazioni geometriche, aritmetiche o di movimento. Una nozione di “qualità” assai differente dall’accezione attuale.

Dalla nozione antica, essenzialmente aristotelica, secondo la quale le stessa cosmologia si sarebbe fondata essenzialmente su quattro qualità fisiche come il caldo, il freddo, il secco e l’umido, si distaccò Descartes ritenendo che qualsiasi qualità sensibile sia puramente soggettiva per cui il colore, il calore etc. non sarebbero caratteristiche oggettive, inerenti alle cose, ma esse, anche se sono originate dalle proprietà oggettive della cosa stessa, fanno capo sempre al soggetto che le prova sensibilmente. Le uniche proprietà inerenti alla cosa sono, secondo Cartesio, la forma e la figura poiché possono essere espresse in una misura che prescinde dalla nostra percezionee sensibile soggettiva.

La moderna scienza galileiana della natura riprende e accetta questa distinzione che successivamente verrà teorizzata da John Locke nella differenziazione tra “qualità primarie”, oggettive come quelle caratteristiche che appartengono di per sé ai corpi (l’estensione, la figura, il moto etc.) e “qualità secondarie”, soggettive (colori, suoni, odori, sapori etc.) che non sono inventate ma che non hanno corrispondenza nella realtà. «Le idee delle qualità primarie dei corpi sono immagini di essi e le loro forme (pattern) esistono realmente nei corpi stessi; ma le idee prodotte in noi dalle qualità secondarie non hanno affatto somiglianza con essi.» (Un testo lockiano più volte richiamato nelle sue opere).

Il vescovo George Berkeley (1685-1753) sosteneva con ancora maggio forza di Descartes che anche le qualità primarie, oggettive, in realtà hanno essenzialmente una costituzione soggettiva con l’espressione icastica, in latino: esse est percipi, cioè l’essere (delle cose) è l’essere-percepito. Puro soggettivismo. Immanuel Kant, di contro, riprese la distinzione di Locke ed anzi teorizzerà che anche quelle soggettive possono essere riportate al concetto di quantità e quindi intenderle come oggettive. Per Kant le categorie di qualità si devono dedurre dalla distinzione logica dei giudizi che vengono definiti come affermativi o negativi in base alla qualità: oltre questi, secondo Kant, vi è il giudizio infinito e quello limitativo che è quello espresso dal giudizio «A è non-B»: quindi le categorie di qualità sarebbero quelle di realtà, negazione e limitazione. Le prime due (realtà e negazione) però in natura non si presentano mai isolate ma collegate l’una all’altra così da rappresentare sempre una realtà limitata (esprimente la terza categoria) quindi un “grado” della realtà che come tale rappresenterà una grandezza oggettiva, una quantità, non estensiva ma intensiva, oggettiva e misurabile.

Le quantità estensive hanno la caratteristica di essere l’una esterna all’altra come ad esempio in una linea si può scorporare un segmento: questo non può essere fatto con le quantità intensive che si compenetrano e si sviluppano invece lungo una linea continua sulla quale non si può “tagliare” un grado intermedio. Mentre le quantità estensive sono riferite alle funzioni trascendentalii di spazio e tempo, quelle intensive sono pura materia, oggetto delle nostre sensazioni che la percepiscono con diversi gradi d’intensità: tutte e due le quantità, poi, hanno una struttura di continuità tale che nell’esperienza non ci sono né vuoti spazio-temporali, né interruzioni d’intensità.

Nell’Analitica trascendentale della Critica della Ragion pura, in un capitolo intitolato “Anticipazioni delle percezioni”, Kant fornisce una concezione matematica delle percezioni qualitative rafforzando così la nuova scienza della natura ormai predominante sulla antica fisica non quantitativa della eredità aristotelica.

Inviterei i “giudici” militanti attuali della politica a tornare (anzi ad andare) a lezione dal professor Immanuel, che dopo la messa mattutina era sempre a disposizione degli studenti in Facoltà, in quel di Koenigsberg

Andiamo a considerare anche Hegel che, nella Scienza della Logica, definisce la categoria della qualità come la più “povera” delle categorie, cioè di una insufficienza costitutiva tale che supera anche quella connaturata alla categoria della quantità.

Infatti, egli ritiene, la qualità se da un lato è adatta a determinare gli aspetti delle cose che si distinguono proprio in base ad essa, dall’altro questa sua caratteristica è talmente transeunte e mutevole, come dimostrano le continue diverse qualità che assumono le cose (come ad esempio nei fenomeni di mutazione chimica), che essa risulta essere così determinata dalla finitezza da perdersi nell’infinito dei cambiamenti di qualità. Anche questo pensiero hegeliano è una buona medicina contro la malattia della militanza a-critica.

Per questo, Hegel ritiene che la categoria della qualità sia del tutto incapace – nella sua limitatezza – di darci la giusta visione della realtà caratterizzata dall’infinito mutamento dialettico. Cari militanti senza se e senza ma (sintagma stupidino di origine bertinottiana), anche Giorgio Federico Hegel può essere oggetto di una vostra attenzione.

Per completare questo modesto scritto, è utile ricordare che il pensiero moderno ha messo da parte, considerandoli dei semplici verbalismi, tipici della scolastica, e insussistenti ai fini di una maggiore comprensione, quelli che Aristotele considerava come i vari significati della categoria della qualità. Così ad esempio nel considerare quella che Aristotele indica come un accidente della qualità, la disposizionee, si può vedere come anche senza essa si ha sempre la comprensione: per cui ad esempio dire che l’oppio produce sonnolenza (qualità) non è diverso dal dire che l’oppio ha la disposizione dormitiva (accezione della qualità).

E comunque, infine, si uò affermare che il tema della qualità è filosoficamente collegato in modo stretto ai temi della libertà, intessi alla greca come libertà di fare, la eleutherìa e libertà di dire, la parresìa; e anche al tema della verità, la alètheia, intesa heideggerianamente, come non-velamento, o svelamento della verità delle cose.

Non si può infatti esprimere un giudizio sulla qualità dei politici, o di qualsiasi altro soggetto, senza tenere in considerazione i concetti e la praticabilità fattuale di libertà (di espressione) e di verità, che attiene, appunto, a giudizi sottoposti – sempre – a una critica della conoscenza, o epistemologia, non mai alla appartenenza o alla militanza politiche. Dico meglio e più esplicitamente: non posso e non devo giudicare, in positivo o in negativo, la qualità di un politico sulla base della sua vicinanza alle mie opinioni, né, altrimenti, denigrarlo o laudarlo.


A completamento del saggio, mi pare opportuno proporre qui un passo del già citato romanzo di Robert Musil…

Il romanzo presenta una singolare caratteristica, l’assenza di trama. Questa scelta radicale ha uno scopo ben preciso, quello di riportare non solo nelle tematiche, ma anche nelle forme e nello sviluppo delle vicende, la crisi che attanaglia la contemporaneità in cui vive l’autore austriaco, qualunque aspetto della vita venga esaminato. La mancanza di valori, e di vie da seguire, investe tutti gli ambienti della società, anche quelli più elevati e aristocratici, nei quali emerge evidente tutto il nulla che si cela dietro le inutili apparenze, dietro le vacue convenzioni. Alla dissolvenza sociale si affianca ovviamente quella dell’individuo, che subisce sulla propria pelle la devastazione della realtà oramai priva di qualunque significato più o meno consistente e duraturo.

Musil mette in scena con spietatezza e lucidità tutto lo sfacelo della civiltà, ma anche della cultura, in particolar modo di quella cultura imperiale asburgica un tempo motore dell’intera Europa. In questo senso, non è un caso che Ulrich, il protagonista dell’opera, ricopra il ruolo di segretario del comitato incaricato dell’organizzazione delle celebrazioni per l’anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.

(Ecco l’intero capitolo 39 della seconda parte del romanzo, tra gli altri di particolare rilevanza, poiché l’autore vi spiega anche le ragioni del titolo.)

«Ma Ulrich quella sera non venne. Dopo che il direttore Fischel se ne fu andato in gran fretta, egli s’immerse di nuovo nel problema della sua giovinezza: perché il mondo favorisce in modo così inquietante tutte le manifestazioni non intrinseche e, nel senso più alto, non autentiche? “Si fa sempre un passo avanti quando si dice una bugia, – pensò; – avrei dovuto dirgli anche questo”.

Ulrich era un uomo passionale, ma per passione non si deve qui intendere le singole passioni. Doveva esserci stato qualcosa che sempre e sempre tornava a spingerlo verso di esse, e questo forse era passione, ma anche in stato di eccitazione e di azioni eccitate il suo contegno era allo stesso tempo appassionato e indifferente. Aveva fatto all’incirca tutte le esperienze che si posson fare e sentiva che anche adesso avrebbe potuto precipitarsi a ogni momento in qualche cosa di cui magari non gli importava nulla, purché stimolasse il suo bisogno d’attività. Con poca esagerazione poteva quindi dire che nella sua vita le cose s’erano svolte come se fossero piuttosto legate l’una all’altra che a lui. Ad A era sempre seguito B, che si trattasse di battaglie oppure d’amore. E così s’era anche dovuto convincere che le qualità in tal modo acquistate, più che con lui eran connesse fra loro, anzi ciascuna di esse, se esaminava bene se stesso, non aveva più strettamente da fare con lui che con altri individui che a loro volta le possedessero.

Senza dubbio però le qualità determinano l’uomo e lo compongono anche se egli non è identico ad esse, e quindi talvolta si appare estranei a se stessi tanto in stato di riposo quanto in fase di attività. Se Ulrich avesse dovuto dare di sé una definizione si sarebbe trovato in imbarazzo, perché, come molti altri, non aveva mai studiato se stesso che in rapporto a un problema e alla sua soluzione. La coscienza di sé non aveva sofferto danno, e nemmeno era viziata e frivola; le era ignoto quel bisogno di ripassare e lubrificare il motore che è chiamato introspezione. Era un uomo forte? Non lo sapeva; forse su quel punto era fatalmente in errore. Ma certo era sempre stato un uomo che fidava nella propria forza. Anche adesso non dubitava che la differenza fra l’attivo delle proprie esperienze e qualità e il loro rimanere estranee a lui fosse soltanto una diversità d’atteggiamento, in certo senso una volizione o la scelta di vivere a un punto determinato posto fra la generalità e la personalità. In parole semplici, si può prendere di fronte alle cose che ci capitano o che noi facciamo un atteggiamento più generale o più personale.

Di una percossa si può risentire oltre al dolore, anche l’offesa, e allora diventa insopportabile; ma si può anche accettare sportivamente, come un ostacolo che non ci deve né intimidire né mandare in bestia, e allora, nove volte su dieci, non ce ne accorgeremmo neanche. In questo secondo caso il colpo ricevuto viene semplicemente incasellato in un complesso più vasto, quello cioè del combattimento, e la sua essenza è chiaramente subordinata al compito che deve svolgere.

E questo fenomeno, che un’esperienza non riceve il suo significato, anzi il suo contenuto, se non dalla posizione in una catena di azioni conseguenti, si osserva in ogni uomo che non la consideri una vicenda puramente personale bensì una sfida alla sua forza spirituale. Anch’egli allora, sentirà più debolmente le proprie azioni; ma, cosa strana, quello che nel pugilato si considera forza superiore dello spirito, quando sorge in uomini alieni dalla boxe per tendenza a una spirituale condotta di vita diventa freddezza e mancanza di sentimento.

C’è tutto un assortimento di distinzioni per applicare ed esigere secondo i casi un atteggiamento personale oppure generale. Un assassino che procede obiettivamente, è accusato di brutalità aggravata; un professore che nelle braccia della sposa continua a inseguire i suoi calcoli, è tacciato di gelida aridità; un uomo politico che per ascendere calpesta mucchi di avversari annientati vien proclamato, secondo il successo, uno scellerato o un grand’uomo; ma da soldati, carnefici e chirurghi invece si esige l’irremovibile tenacia che negli altri è condannata.

Non occorre soffermarsi più a lungo sulla morale di questi esempi per notare l’incertezza con la quale si stringe ogni volta il compromesso fra azione obiettivamente giusta e azione individualmente giusta.

Questa incertezza serviva d’ampio sfondo al problema personale di Ulrich. In altri tempi si poteva vivere da individuo con miglior coscienza che oggi. Gli uomini erano come calami di grano; Dio, il fuoco, la grandine, la pestilenza e la guerra li scuotevano forse con più violenza che adesso, ma tutti insieme, a città, a regioni, come campo; e quel tanto di movimento personale che restava in più a ogni singolo calamo era nettamente delimitato e se ne poteva assumere la responsabilità.

Oggi invece la responsabilità ha il suo punto di gravità non più nell’uomo ma nella concatenazione delle cose. Non s’è notato come le esperienze si sian rese indipendenti dall’uomo? Sono andate sul teatro, nei libri, nelle relazioni di scavi e di viaggi, nelle comunità di fede e di religione, che coltivano certe varietà d’esperienze a spese delle altre come in un esperimento sociale; e se per caso le esperienze non si trovano nel lavoro, son semplicemente sospese nell’aria; chi può dire ormai, oggigiorno, che il suo sdegno è per davvero il suo sdegno, se tanta gente gli toglie la parola di bocca e la sa più lunga di lui?

È sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può quasi immaginare che nel caso limite l’uomo non potrà più vivere nessuna esperienza privata, e il peso amico della responsabilità personale finirà per dissolversi in un sistema di formule di possibili significati. Probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo, ma è in ribasso da secoli, è giunta finalmente all’Io, perché l’idea che l’importante dell’esperienza è il viverla, e dell’azione il farla, incomincia a sembrare un’ingenuità alla maggior parte degli uomini.

Ci sono ancora persone che vivono molto personalmente; dicono “ieri siamo stati dal tale e dal tal’altro”, oppure “oggi facciamo questo e quest’altro” e ne son contenti, senza bisogno di altro significato e contenuto. Amano tutto ciò che toccano con le dita e sono tanto esclusivamente persone private quanto è possibile esserlo; appena ha da fare con loro il mondo diventa un mondo privato e brilla come un arcobaleno. Forse sono molto felici; ma quella specie di gente appare già assurda, di solito, a tutti gli altri, sebbene non si capisca ancora bene il perché. E a un tratto, davanti a queste perplessità, Ulrich dovette confessare sorridendo a se stesso, che era nonostante tutto un carattere, pur senza averne uno».

(R. Musil, L’uomo senza qualità,  trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1965)

Da queste pagine fondamentali dell’opera di Musil, emerge chiaramente un’insanabile spaccatura tra il soggetto e la realtà che lo circonda. È sorto un mondo di qualità senza uomo, da qui anche la spiegazione del titolo. L’individuo ha perduto la sua identità, dispersa e dissolta in una contemporaneità lontanissima dal passato. L’autore austriaco coglie puntualmente ed esattamente il disfacimento dell’io, la sua dissociazione dalla dimensione reale, conseguenza naturale di una crisi sociale che cancella qualunque valore e ideale, consegnando l’esistenza a un vuoto terribile e incolmabile.

Ulrich è un personaggio collocato all’inizio del Novecento, eppure sembra appartenere all’oggi. Con una sostanziale differenza. Se infatti all’epoca di Musil la crisi dell’individuo e della società era all’inizio, oggi è giunta a un agghiacciante completamento.

Come tutte le pietre miliari della letteratura mondiale, possiamo leggere L’uomo senza qualità alla maniera di un romanzo attuale. Facendo questo occorre tuttavia possedere la consapevolezza che i nuclei tematici presenti nell’opera di Musil hanno assunto, con il passare degli anni, e in particolare in questo nuovo, nostro millennio, l’incredibile, e al tempo stesso atroce, tratto dell’irreversibilità.

Bene, che cosa possiamo dire degli uomini e donne senza qualità della politica odierna? E sulla qualità della vita, circa il quale tema se ne sentono di tutti i colori? Ci facciamo ancora condizionare dall’ideologismo (non dall’ideologia, ripeto fino a stancarti, mio gentile lettore!) militante? …o riusciamo a prescinderne, per usare senza condizionamenti la nostra razionalità, la logica indefettibile e la documentazione fattuale concernente le persone citate e i fenomeni storici inconfutabili?

Infine, è evidente che un giudizio completo sulla qualità delle persone e dei politici in particolare non può prescindere da una valutazione morale, e non può fermarsi solo sulle capacità “tecniche” di fare politica, e dunque dovremo dire che uno Stalin è stato una “carogna” come persona, ma nel contempo un gigantesco stratega politico. Hitler, il massimo del male umano, ma provvisto di una capacità magica, e in parte incomprensibile, di fascinazione.

E altrettanto dobbiamo “praticare” su ciascun altro soggetto.

Circa il valore di centinaia di migliaia di imprenditori e dirigenti, e di milioni di lavoratori italiani che hanno ben meritato per qualità e impegno nel loro lavoro, non serve che faccia nomi. Personalmente ho conosciuto e conosco decine e decine di imprenditori generosi e alcune migliaia di lavoratori intelligenti e solidali, alcuni dei quali mi onoro di aver aiutato, giovani e meno giovani, e questo mi basta ed è sufficiente anche in questa sede.

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