Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La “funzione” del dolore e della paura

Dolore e paura ci fanno sentire vivi, anche se ci preoccupano. Il dolore e la paura ci avvertono di un qualcosa, che dobbiamo avere il coraggio e la pazienza di affrontare. Peraltro, secondo la distinzione classica, il coraggio o fortezza è proprio il rimedio alla paura, che è la passione contraria, sempre che non sconfini nell’imprudenza e nella temerarietà: affrontare a mani nude un uomo armato di pistola è follia. Nel dolore invece è la pazienza a costituire rimedio, pazienza che significa capacità di sopportare, cioè di sup-portare e dunque, ancora, significa coraggio. Pazienza e coraggio vs dolore e paura.

Di seguito una nota pubblicata nel 2015 nel mio L’eros come struttura ermeneutica per la comprensione del senso, ed. Cantagalli, Siena.

Dolore e sofferenza non sono sinonimi. Il dolore è la causa, a sua volta causata, e la sofferenza, che è un sopportare [dal verbo latino subfero, supporto, sopporto], è la conseguenza del dolore stesso sull’essere umano, il quale ne è consapevole, in quanto autocosciente. Tutti i viventi soffrono, anche se con un grado differente di consapevolezza, ma solo l’uomo, in condizioni normali, ne è perfettamente cosciente. Il dolore è sintomo di uno squilibrio, di una irritazione, di disturbi funzionali e di meccanismi psicosomatici e riflessivi vegetativi, di una lesione, o ferita, ed è generalmente un segnale di attenzione per un pericolo, per una patologia. È positivo come segnalazione di un qualcosa che non va, negativo se inutile.

[Pschyrembel H., Klinisches Wörtherbuch, ISBN 3-11-018171-1, de Gruyter, Walter, GmbH&Co, Berlin].

Il verbo greco πάσκω, ειν, significa “ciò che si prova nel fisico e nel morale”, e poi ”provare un’impressione, una sensazione, un sentimento”, e dunque ”soffro, sopporto, subisco”, così come nella traduzione latina patior, e italiana patire: dolore, miseria, danno, sciagura, disgrazia, calamità, sconfitta, etc..

La nozione greco-latina del patire è quindi origine dell’etimo della stessa virtù di pazienza [patientia], la quale ha come parte integrante fondamentale la fortezza, e dunque il coraggio. Il paziente è forte, e dunque è virtuoso, perché la fortezza [α̉ρητή] è la virtù per eccellenza.

Per Platone [Filebo 17, 31d, 32a; Timeo 47d; IX, 591d] il dolore è rottura dell’armonia, come un rientro nel Chaos iniziale, che è stato ordinato dal Demiurgo. Per Platone il problema è ripristinare l’armonia.

Per Aristotele [Etica Nicomachea VII, 13, 115] il dolore è conseguenza di una forzatura di ciò che è naturale. E comunque, ciò che è naturale tende alla corruzione e alla distruzione.

Per gli Stoici i dolore è una dimensione naturale da affrontare con determinazione e rassegnazione.

Sant’Agostino introduce il tema psicologico della volontà umana, che causa dolore quando dà spazio alla cupidigia e alla concupiscenza. [D. Antiseri e G. Reale, Il pensiero occidentale dalle origini a oggi, vol. I, 341-347].

Per Nietzsche il dolore è un’esperienza che favorisce la conoscenza, ponendo sotto una luce diversa e altrettanto veritativa la realtà di se stessi e del mondo.

Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è causato dalla rottura di un patto, per la quale vi deve esserci un’espiazione. Per la tradizione cristiana, siccome la rottura del patto ha causato dolore infinito a Dio, solo il dolore di un Dio ha potuto dare valenza soddisfattoria al dolore infinito di Dio stesso. Interessante è il passaggio paolino nella Lettera ai Romani [8, 19ss]: “[…] la creazione stessa infatti soffre e geme per le doglie del parto, […] essa pure attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio”.

Merita un cenno anche la dottrina del dolore in campo buddhista: per questa filosofia religiosa “[…] il dolore è realtà, suprema certezza ed esperienza umana universale; la causa del dolore è nella passione del desiderio; perciò, ci si può liberare dal dolore [e dal ciclo delle rinascite] solo con l’estinzione del desiderio; il desiderio si estingue attraverso la rinuncia [non mediante l’appagamento], e con comportamenti morali adeguati [retto discorso, retta condotta, etc., l’ottuplice sentiero]”; Neri U., La Sapienza Buddista e la risposta Hindu, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, Bologna, Anno XI, n. 21 – gennaio/giugno 2007, 226.

E dunque… abbiamo pazienza e coltiviamo la fortezza.

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