Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La Chiamata, dal I Libro di Samuele 3, 1-10

Samuele, figlio di Anna, era un ragazzo del Vicino Oriente antico e viveva presso Eli, vecchio sacerdote del Santuario di Sion dove era custodita l’Arca dell’Alleanza con il Signore Iahwe. Una notte udì una voce che lo chiamava “Samuele, Samuele“. Pensando fosse il suo maestro e ospite, si alzò e andò dal vecchio, il quale, svegliatosi, gli disse di non averlo chiamato e di tornare a dormire. Ancora una volta Samuele udì la voce che lo chiamava per nome, e alzatosi convinto fosse stato ancora Eli a chiamarlo, fu da questi invitato a tornare al sonno ristoratore. Accadde però che ancora una volta sentì la voce che lo chiamava con il suo nome “Samuele!”. Tornato dal vecchio Eli, questi comprese che Qualcuno stava certamente chiamando il suo giovane allievo e gli disse: “Se sarai di nuovo chiamato, rispondi: parla Signore, il tuo servo ti ascolta“. E allora Samuele tornò al suo giaciglio … finché fu di nuovo chiamato e rispose come gli aveva suggerito Eli.

E Samuele divenne un profeta d’Israele, testimone del cambiamento epocale di una storia tribale che divenne popolo e nazione. Samuele fu “chiamato” … come ognuno di noi.

Pensavo, appunto, stamani, correndo lungo un viottolo, un’interpoderale, nel freddo di questo gennaio limpido. Quale è stata la mia chiamata? E mi sono risposto: fin da quando, ero piccolo, vedevo mio padre partire per un paese lontano … era lontana la Germania, allora lui stava via dieci mesi, e così fu per quattordici stagioni.

E così il lavoro fu la mia vocazione, il lavoro che vedevo cercato, che vedevo agognato dalle decine di uomini che partivano ogni inizio di marzo con il pullman per i grandi boschi e le colline petrose dell’Assia, a cavar pietra.  E poi il ritorno, che era quasi inverno, e  poi qualcuno non ripartiva, e qualcuno si faceva male come Giovanni di Ariis, e qualcuno moriva, come il povero Beppino, ad appena vent’anni.

Tutta la mia vita, la scuola, il lavoro, gli studi universitari portati avanti con il lavoro, la cultura coltivata con assidua cura, i cambiamenti, la ricerca di crescere per non perdere le occasioni, per restare competitivo, e studiare ancora, ancora e sempre, guardando con attenzione il cambiamento, aiutando altri, esplorando i segnali deboli di ciò che rapidamente si avvicinava, si avvicina, rischiando di travolgerti … e quindi il timore di non farcela, di perdere l’onda che passa, sapendo di non avere coperture o protezioni, o guarentigie, o paracadute, esposto come un esploratore del nuovo, davanti le mille strade del deserto e dover sceglierne una, e poter sbagliare sempre, libero, ma come “libero di dover fare quello che devo fare”.Libers di scugnì là” (Liberi di dover andare), scriveva Leonardo Zanier, parlando anche di mio padre emigrante. Kantianamente attendo al devo perché devo. Libero di volere ciò che faccio, non di fare quello che voglio.

Il lavoro come identità di un sé dialogante con un io a volte incerto, ma che lentamente si sta convincendo della chiamata ricevuta. Ri-nato io molte volte e in molte stagioni, cosicché quando Pietro volle chiamarmi così, sentì forse una voce interiore che gli diceva “il nome lo aiuterà“, chiamato sul versante giusto della mia vita.

Grazie a Pietro e grazie a Luigia che mi guardano dall’Alto.

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