Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

“Un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome Fausto Coppi…” cantava Mario Ferretti

Grandezza e tragedia.

Mi ispira questi sentimenti l’impresa di Fausto nella tappa del Giro del ’49, era il 23 maggio, la Cuneo-Pinerolo, quando fuggì da solo per 190 km salendo i grandi Colli alpini del versante francese, tra cui il Vars e l’Izoard, e poi la Maddalena e il Monginevro, passando per il Sestriere. Me lo ricordava papà Pietro, che era un “bartaliano”, ma amava Coppi, perché era impossibile non amarlo. Mi diceva sempre che se la Guerra non avesse interrotto Giro e Tour de France per cinque anni, quei due si sarebbero divisi equamente le dieci grandi corse a tappe, lasciando a distanza siderale per vittorie i grandi successori, Anquetil, Merckx, Hinault, Indurain, Contador, Froome etc.. Ma così non andò e comunque i due, soprattutto l’uomo di Castellania sono tra i più grandi, il più grande come ciclista, Fausto. Gino, forse il più grande, come uomo. La tragedia, per Coppi, fu la presunzione dei medici di Tortona che trascurarono le notizie cliniche che arrivavano da Parigi riguardanti l’amico Raphael Geminiani, con il quale Coppi era stato in Alto Volta, l’attuale Burkina Faso, e che avrebbero potuto salvarlo con un po’ di chinino, perché la febbre era malarica. Bartali invecchiò nel ricordo del carissimo amico.

La tragedia è a volte figlia della presunzione.

Pantani è morto solo in un albergo di Cesenatico nel 2004, dopo avere rappresentato il mito e l’utopia. Il mito come vincitore sofferente, l’utopia come ipotesi di vincitore seriale di Giri e Tour, se non fosse caduto tante volte e non gli avessero cambiato le provette dell’ematocrito a Madonna di Campiglio nel 1999. Il primo Giro vinto da Ivan Gotti in quell’anno disgraziato era e resta di Marco Pantani.

Vederlo scattare e scattare sulle rampe di Oropa in quel dannato 1999, oppure l’anno prima sul Galibier, sotto la pioggia estiva di Francia, a “distruggere” Ullrich, sono immagini che nessuna amnesia può scalfire, perché la memoria della mente si è fatta ricordo del cuore. Pantani è stato ed è più di un atleta-ciclista, è stato ed è simbolo, cioè cosa-che-unisce il diverso, nel suo caso sport e vita, sentimento e ragione, eroismo e normalità, speranze e dolore, è stato ed è mito, cioè rappresentazione di una realtà aumentata e durevole, tempo ed eternità, fenomeno e noumeno, come direbbe il sapiente Immanuel da Koenigsberg… Sì, anche noùmeno, vale a dire essenza-di-un-qualcosa-che-non-passa come passa il tempo lineare, qualcosa che dura, un eterno-essente, secondo il pensiero di Emanuele Severino, che vedeva nelle cose, in tutte le cose, la loro eternità. Di Coppi altrettanto si può dire. E di più, poiché, come insegnano Russell e Whitehead si possono dare infiniti dentro gli infiniti, vale a dire che vi sono infiniti meno tali di altri, anche se ciò è semanticamente contro-intuitivo, ma è vero logicamente.

Il Grande Torino finisce nello schianto sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. Su quel trimotore Fiat G.212, operato dalle Avio Linee Italiane e con marche I-ELCE, comandato dal tenente colonnello Pierluigi Meroni, viaggiava tutta la squadra del Grande Torino, accompagnatori e giornalisti. I calciatori: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Roger Revelli Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius Schubert… e poi giornalisti come Renato Casalbore e Renato Tosatti, dirigenti della squadra come Egri Erbstein e Leslie LIevesley; trentuno persone in tutto morirono nel tragico schianto.

Ricordo qui assieme Coppi, Pantani e il Grande Torino, perché tutti e tre simboli della tragedia (possibile) dell’uomo a quest mondo, e sono diventati “mito”, collocandosi a metà strada, e forse oltre, la distanza che separa l’umano dal mondo empireo dell’immaginazione, della fantasia, e del divino.

Ma non “superumani” di un falso nietszcheanesimo d’accatto, bensì umanissimi esempi di ciò che la dimensione umana può diventare essendo nel pieno della propria essenza.

“Schegge d’infinito” come definiva le creature umane di Dio il filosofo e presbitero tedesco Friedrich Schleiermacher, echeggiando la figura dell’atman secondo i grandi sapienti dell’Oriente, ispirati dall’eterno brahman.

Gli antichi parlavano del fato, per spiegare le tragedie e il dolore, più vicino a noi si è iniziato a parlare di destino. In teologia si parla della Divina provvidenza e degli imperscrutabili disegni di Dio.

Dove collocare la nostra credenza? Ognuno può stare dove vuole con il proprio pensiero, senza obbligo alcuno.

Per me si va, sia nella città dolente dove c’è l’etterno dolore (dantesco), oppure nel giardino incantato (deandreano). Quello che conta sono le intenzioni del cuore di ognuno di noi umani, dentro i vettori causali delle circostanze.

Noi siamo responsabili solo delle decisioni di cuore e della ragione, che assumiamo da sani di mente.

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