Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Riflessione sui “revisionismi”, per un 25 aprile moralmente sano e intellettualmente onesto

ri-vedere, ri-considerare, ri-flettere, ri-prendere, ri-costruire, ri-organizzare, ri-convertire, ri-strutturare, ri-nnovare… non sono verbi negativi, perché attengono al perfettibile dell’umano e delle sue opere, come le attività economiche. Alcuni dei verbi indicati come ri-organizzare, ri-convertire, ri-strutturare, descrivono cambiamenti più o meno radicali nelle strutture produttive di un’azienda. Vi sono momenti storici nei quali occorre, è indispensabile, modificare gli assetti di una struttura organizzativa per garantirne il futuro.

I verbi che contengono il prefisso iterativo “ri” hanno a a che fare con l’infinito (e indefinito) cammino dell’uomo, del suo pensiero e delle sue attività.

Mi fermerei però sul primo verbo sopra elencato: ri-vedere. Ora, si può dire che rivedere un volto amico o una persona per la quale si prova un sentimento affettuoso, è bello; rivedere un luogo, un monumento, un paesaggio, è interessante e spesso emozionante. Anche rivedere un giudizio su una persona può essere utile, opportuno, necessario o addirittura indispensabile, come accade nella vita privata e anche sul lavoro, ad esempio quando il primo giudizio su un dipendente di nuovo inserimento, che all’inizio non aveva ben meritato, si modifica alla luce dei comportamenti successivi.

Giudicare un comportamento o una prestazione è oggetto di scienza. Le scienze psicologiche e comportamentali servono a questo. Le scienze morali invece servono a giudicare la bontà o la malvagità degli atti umani liberi.

Di contro, ri-vedere un giudizio, in base alle proprie scelte ideologiche o addirittura ideologistiche (la deformazione dell’ideologia si dice ideologismo), su fatti la cui natura e veridicità oggettive sono state acclarate con il massimo rispetto delle fonti informative sui fatti stessi, può essere molto grave, eppure accade. E non raramente, come vedremo in sintesi.

Un esempio triste e clamoroso è il revisionismo sui crimini politici o di guerra, ad esempio sulla Shoah e sui crimini del regime staliniano o cambogiano polpottista, sui genocidi che si sono realizzati con i metodi più efferati nel tempo della storia umana. Fatti e crimini che vanno studiati in quanto tali e sui quali è lecito e doveroso esprimere un giudizio morale, se pure tenendo conto del contesto storico.

Fatta salva la umana natura che oscilla tra solidarietà tra simili ed estrema violenza inter-umana (cf. Aristotele, Kant), nell’esprimere un giudizio è necessario sempre contestualizzare storicisticamente i fatti che si analizzano.

Per questo mi sento di distinguere la valenza morale delle stragi perpetrate da Gengis Khan e da Timur Lenk, dal progetto di sterminio degli Ebrei, in larga misura realizzato, dal regime hitleriano, anche se i primi due hanno ammazzato con i loro eserciti ben più di sei milioni di esseri umani.

Vediamo il profilo teorico-pratico del termine: il revisionismo è una linea di pensiero o di condotta di chi sostiene la necessità di correggere opinioni e tesi correnti o dominanti in campo ideologico, politico o storico ritenute scorrette sulla base di una revisione documentale.

Vi sono vari tipi di revisionismo, ma in particolare se ne possono registrare due principali: quello politico e quello storiografico. Il revisionismo politico ha trovato un suo grande destino in ambito marxista, esemplarmente quando si conobbero, dopo le rivelazioni di Kruscev al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica del 1956, i crimini di Stalin.

Ma fu considerato “revisionista” anche il cambiamento occorso al Partito Socialdemocratico Tedesco, il SPD, nel 1959 con Il Programma di Bad Godesberg, quando il maggiore partito della sinistra tedesca abbandonò il marxismo teorico, accogliendo come proprio nume ideologico Eduard Bernstein, teorico del gradualismo socialista e del welfare.

Anche in Italia a sinistra si registrarono alcuni “revisionismi”: quello del Partito Socialista Italiano verso la fine degli anni ’50, quando Pietro Nenni abbandonò la politica, “perdente” sotto il profilo elettorale del “Fronte popolare” nel quale il PSI era organicamente alleato al PCI, per costituire i governi di centro-sinistra con la Democrazia Cristiana di Aldo Moro, il Partito Socialdemocratico di Giuseppe Saragat (che nel 1949 si era separato dal PSI per la colleganza di questi con i comunisti di Togliatti) e con il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa.

Anche il giudizio su Mussolini e sul fascismo conobbe una dialettica in qualche modo revisionista, soprattutto con l’opera del professor Renzo De Felice che, ben lungi dal “salvare” moralmente il regime fascista, descrisse con acribia storiografica e onestà intellettuale le profonde origini culturali e politiche del fascismo stesso nell’humus autoritario e in alcune sub-culture dell’Italia liberale, nonché nella connivenza di forze conservatrici politico-economiche che temevano il “socialismo”.

Vi sono però anche revisionismi inaccettabili, come quelli di coloro che negano la Shoah o il genocidio degli Armeni perpetrato dalla Turchia nei primi decenni del XX secolo.

Altri genocidi negati fanno parte delle pagine nere del revisionismo, che non sempre rappresenta un approfondimento serio di studi e acquisizione di nuova documentazione, poiché talora è inficiato da una militanza acritica, a-priorica e priva di serie e affidabili documentazioni storiche.

Interessante la seguente definizione di un esperto di diplomazia come Sergio Romano, che scava nella definizione trovandone e spiegandone gli aspetti positivi, atti a spiegare e a far comprendere come sia saggio cambiare opinione se nuovi documenti confortano plausibilmente (scientificamente) il cambiamento.

«Vi sono Paesi in cui “revisionismo” ha conservato un significato negativo e porta cucito sul petto, anche quando passa da un contesto all’altro, un marchio d’infamia. Sono quelli il cui linguaggio politico è stato marcato da una lunga presenza comunista. In Italia ad esempio, l’aggettivo “revisionista” quando fu applicato alle opere di Renzo De Felice sul fascismo conteneva una nota di biasimo, era pronunciato a bocca storta e suggeriva implicitamente ai lettori la stessa cautela che i preti raccomandano ai loro allievi nel momento in cui debbono autorizzare la lettura di un libro interdetto.
Non credo di essere più revisionista di quanto debba essere abitualmente un qualsiasi studioso di storia. Ma se rifiutassi di fregiarmi della parola concederei un punto al gergo comunista e darei un contributo al cattivo uso che della parola si è fatto in Italia per molti anni. Ecco quindi le “confessioni di un revisionista
“.»

(Sergio Romano, dall’introduzione di Confessioni di un revisionista – Ponte alle Grazie – 1998.)

A volte il revisionismo si trasforma in un vero e proprio “negazionismo” come quello dei sopra citati esempi dell’Olocausto ebraico e degli Armeni, su cui si affatica con merito il mio caro amico professor Claudio Giachin, storico e docente.

Di seguito alcuni testi in merito.

«C’è un legame di continuità tra la politica nazista di occultamento delle prove del genocidio e le attività di alcuni presunti storici che da qualche tempo tentano di convincere il mondo che la Shoah sia la “grande impostura del ventesimo secolo”. Secondo questi autori, Auschwitz e le camere a gas naziste non sarebbero altro che un’invenzione della propaganda alleata, di matrice sionista, per estorcere riparazioni di guerra alla Germania sconfitta, allo scopo di finanziare lo stato di Israele. Solitamente ci si riferisce ad essi con l’etichetta di revisionisti (appellativo con cui essi stessi amano autodefinirsi), ma la storiografia ufficiale preferisce chiamarli negazionisti. Il motivo è semplice: mentre ogni storico che si rispetti è revisionista, nel senso che è disposto a rimettere costantemente in gioco le proprie conoscenze acquisite qualora l’evidenza documentaria lo induca a rivedere le sue posizioni, il negazionista è colui che nega l’evidenza storica stessa. Se il progresso scientifico consiste nell’avvicendarsi di paradigmi, allora ogni sostenitore di un nuovo paradigma è revisionista: Copernico era revisionista rispetto al sistema tolemaico, i sostenitori dell’innocenza di Dreyfus erano revisionisti rispetto a coloro che emisero il verdetto di colpevolezza nel 1894, e così via…».

(Valentina Pisanty)

Il revisionismo sull’Olocausto è un ambito che tende ad assumere caratteristiche scientifiche o antiscientifiche che spesso si confondono e si sovrappongono fra di loro. In genere il revisionismo scientifico tende ad analizzare le fonti e le modalità della persecuzione antiebraica tedesca, senza argomenti preconcetti. Il revisionismo antiscientifico (o parascientifico) invece parte dal presupposto che lo sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale non sia mai avvenuto (o sia avvenuto in proporzioni enormemente minori a quanto conclamato) e pertanto viene definito più propriamente negazionismo.

Principale argomento del negazionismo sull’olocausto:

  • Sull’olocausto, il negazionismo sostiene, con varie argomentazioni, che esso non sarebbe mai avvenuto, pur accettando che una persecuzione vi sia stata, ma sostanzialmente quasi “indolore” fin quando la Germania, devastata dalla guerra, non ha potuto più assicurare cibo e assistenza sanitaria agli internati nei ghetti e nei lager, che avrebbero quindi iniziato a morire in gran copia, ma sempre in un numero molto inferiore ai 4 o 6 milioni comunemente accettati dalla storiografia ufficiale.

Il “padre del negazionismo” è considerato Paul Rassinier. Il punto focale del movimento negazionista è costituito dall’Institute for Historical Review, dal periodico di tale istituto e dal congresso annuale tenuto e popolato da studiosi tra i quali il direttore dell’istituto Mark Weber, David Irving, Robert Faurisson, Ernst Zuendel, German Rudolf e David Cole, diversi dei quali oramai non fanno più parte del consorzio umano.

Concludo con un esempio di “revisionismo-seminegazionista”, “giustificazionismo” o addirittura “riduzionismo ” (termini storiografici da maneggiare sempre con grande cautela) di parte sia jugoslava sia italiana, quale vendetta per le atrocità (indubbie) commesse dagli Italiani in quelle terre, che mi addolora molto: quello che riguarda la tragedia delle foibe, gli inghiottitoi carsici nei quali, nell’immediato Secondo dopoguerra, furono gettati migliaia di italiani, rei a volte solo di essere tali, perché ivi trovarono la morte anche antifascisti invisi ai “titini”. Vi sono teorie che negano la dimensione della tragica storia, ma anche, grazieadio, testimonianze e documenti che ne parlano con cognizione di causa. A sostegno della prima teoria si annoverano, con altri, Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan, persone a me non note per attestazioni accademiche, della seconda Raul Pupo, Alessandro Campi e Giuseppe Parlato, di chiara fama scientifica e accademica, tra altri, le cui tesi personalmente condivido.

Come accade sempre, quando l’ideologismo e la militanza prendono in mano le redini della ricerca storica, il risultato non può che essere falsato.

Non trascuro, però, di annotare quanto in un seminario tenutosi all’Università di Roma “La Sapienza” nel 1997, la storica slovena Nevenka Troha presentò una relazione, nella quale identificò il tema delle foibe come uno dei “tabu della storia slovena”, mai affrontato nel periodo jugoslavo a causa dell’imposizione dell’autorità dell’epoca e dell’inaccessibilità degli archivi.

Vi è quindi un “revisionismo” buono e auspicabile, quello che permette di conoscere meglio la storia, e un “revisionismo” cattivo e inaccettabile, quello che nega, non solo documentazioni veridiche, ma anche l’evidenza di prove inconfutabili dei fatti testimoniati da miriadi di persone degne di fede, perché oneste intellettualmente e moralmente inappuntabili.

La data del 25 Aprile dovrebbe essere la cartina di tornasole per ogni sincero democratico, che non abbia nulla da nascondere, oltre alla limpida scelta di stare dalla parte di chi crede nella libertà nella democrazia, coniugandola con la giustizia sociale, che dà sostanza alla libertà, mentre questa dà senso completamente umano alla giustizia.

Duole che in diverse piazze italiane, nell’occasione della Festa della Liberazione nazionale dal nazifascismo, invece del garrire di tricolori patrii, si notasse piuttosto un ampio dispiegamento di bandiere palestinesi.

Con ciò non voglio dire che come Italiani non dobbiamo sentir nostro il desiderio legittimo di “Patria” di quello sfortunato popolo, ma che non dobbiamo dimenticare la nostra storia, i nostri sacrifici e le nostre legittime speranze, che ancora sono simbolicamente rappresentate dal Tricolore più che bicentenario di Reggio nell’Emilia.

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