Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Dal maestro Perboni al maestro Manzi, questa Italia, Patria nostra

Cuore è stato il primo (e forse unico) libro che mi sono trovato in casa da bambino delle elementari. Non sono uno che a casa da piccolo avesse migliaia di libri in librerie di genitori o nonni intellettuali. Diceva papà Pietro che c’era stata in casa, un tempo, una cassa di libri di suo nonno Pietro e di suo padre Antonio, che sparirono dopo la rotta di Caporetto nel 1917, portati via dagli Austro-Ungarici che erano dilagati per la pianura Friulana e Veneta. Del loro passaggio possiedo una cronaca autografa del parroco di allora, mons. Antonio Sbaiz.

(il maestro e pedagogista Alberto Manzi)

Poi, nessuno acquistò libri per mezzo secolo, fino al mio venire al mondo, perché i miei paterni erano impegnati nella sopravvivenza. E quelli materni, idem. Semplicemente.

Ricordo che provavo sentimenti controversi nei confronti di Cuore e dei suoi personaggi. Ricordo che la prosa del De Amicis (che seppi successivamente essere stato socialista con Turati) mi lasciava un sapore strano e contraddittorio. Da un lato mi piacevano i racconti, come Il tamburino sardo, La piccola vedetta lombarda, Sangue romagnolo, Dagli Appennini alle Ande, perché mostravano ragazzini coraggiosi come volevo essere io, dall’altro quasi non sopportavo il perbenismo trombone del papà ingegnere ferroviario e liberale monarchico di Enrico Bottini (che si firmava solennemente, evocando un’aura quasi sacrale, “tuo Padre”), né mi emozionava quest’ultimo, anzi mi era un pochino antipatico, così come il bel Ernesto Derossi, nome e cognome eufonico anzichenò. Capace di piangere perché “battuto” da Stardi come “primodellaclasse” alla fine dell’anno scolastico raccontato nel romanzo.

Anche se lo sceneggiato televisivo omonimo, diretto da Luigi Comencini, che vidi da grande, recuperò tutti a una simpatia “mediana” da patrioti d’annata. Più di tutti, ovviamente, mi era antipatico il signorino Nobis (nomen omen di aristocratico piemontese savojardo di quei tempi). Il dativo-ablativo plurale quantomeno echeggiante in quel cognome, meglio non avrebbe potuto rappresentare un rampollo di quell’alta società.

Ero incuriosito benevolmente dal Calabrese, dal Muratorino-muso-di-lepre, da Stardi e da Coretti, e ammirato di Garrone. Mi incazzavo per la situazione di Precossi, figlio di un padre manesco e ubriacone, e di Crossi (suo padre aveva fatto sei anni di galera per omicidio involontario, perché aveva inopinatamente ucciso il padrone tirandogli in testa una pialla, ma sua moglie aveva raccontato al figlio che papà era emigrato in America per lavoro), di povera famiglia, anche se non mi identificavo in loro, perché io ero povero come loro, ma ero un bel bambino, intelligente e capace di farsi rispettare, anche a botte. E perché mio padre era un grande lavoratore, che non beveva, e fumava solo cinque o sei sigarette alla settimana.

Franti non mi era antipatico, perché lo capivo nella sua lotta “contro”, che a volte veniva di fare anche a me. Ma non la feci mai. perché mio padre e mia madre erano due buonissime persone, e grandi lavoratori. Mi insegnarono la “sacralità” del lavoro.

Non lessi successivamente L’elogio di Franti (uno e due) di Umberto Eco, perché non sono mai stato un “sessantottino”, mai. Sono sempre stato fuori da quel movimento anche se ero al liceo (classico, per giunta! la scuola dei ricchi, al tempo) negli anni più ruggenti della Rivoluzione culturale dell’Occidente. Sono stato fuori dal “Movimento”, perché ero un vero proletario, al contrario di molti “comunisti” borghesi che venivano al liceo con la sciarpa rossa, ma scendevano spesso dalla Mercedes del papà medico, avvocato o notaio (cf. Pasolini!).

Io DOVEVO (e volevo) studiare e basta, se desideravo non ripercorrere le strade proletarie e subalterne dei miei vecchi.

Mi sono sempre chiesto se Cuore sia stato un libro per la conservazione o patriottico? e che pedagogia proponesse? radicalmente umbertino? risorgimentale? Carducci, Croce e Eco erano contrari e critici di Cuore, anche se qua e là l’afflato paleo-socialista di De Amicis appariva nel testo.

E il maestro Perboni (interpretato da un grande Johnny Dorelli nello sceneggiato televisivo), che alla fine del racconto si rivelò socialista, come Edmondo De Amicis, a un Enrico Bottini oramai adulto, tenente nella Grande Guerra? per me una figura bella, quasi come prequel del maestro Alberto Manzi, che lottò da eroe contro l’analfabetismo italiano dei primi decenni del Secondo dopoguerra.

Con “Non è mai troppo tardi” realizzò un progetto meraviglioso di alfabetizzazione popolare, ottenendo, in un paio di decenni risultati encomiabili tra le popolazioni contadine e montane, tra donne e uomini in età, utilizzando la neonata tv come uno strumento di fondamentale democratizzazione dell’Italia.

Servirebbero di nuovo dei maestri “Perboni” e ” Manzi” ai nostri tempi.

In qualche modo penso sommessamente di esserlo un po’ io stesso, anche perché qualche studente o studentessa preferisce chiamarmi “maestro” in vece di “professore”. Li ringrazio.

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