Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Odio la parola “felicità” (un po’ come Tiziano Terzani, anche se lui si è accorto un po’ tardi… di odiarla), a meno che non la si intenda al modo sanscrito di “fecondità” e di “vita”, e invece amo le parole “contentezza” e “gioia”, mi spiego…

A meno che non si utilizzi il termine “felicità” nel senso e significato etimologici della radice sanscrita “fe”, che significa fecondità, odio senza requie il termine stesso, perché lo trovo illusorio e pericoloso.

Ovvero, lo posso ammettere pacificamente, con il suo portato di noia, solo nei finali delle fiabe per bambini dove si trova la trita espressione “…e vissero felici e contenti“.

Ecco, appunto “contenti”, ma contenti significa altro da felici… l’accontentarsi è bello e dignitoso, caro lettore. Ac-contentarsi di quello che si ha: due pasti al giorno, un letto, un tetto, un’auto che non si fermi per strada, anche se non è l’ultimo modello “figo”, dei libri, della musica, rapporti umani (pochi) e affetti che non siano fasulli.

Lo dico e ci credo non per abbracciare una teoria morale semi-pauperista, ma perché ho provato a non avere quello che ho elencato sopra, soprattutto la parte materiale, quella della sopravvivenza. C’è stato un periodo, breve, della mia vita, in cui ho vissuto in una soffitta-sottoscala, e non lo sa nessuno delle persone che altamente mi stimano e mi rispettano e mi credono, e quando parlo o sono presente io stanno attenti a non sparare cazzate, lo apprendono qui e ora se leggono questo passaggio.

Non me ne vergogno. C’è stato un periodo di un paio d’anni che per le mie scelte di vita non avevo mezzi per abitare da solo neanche in un monolocale, che ero in un primo momento riuscito ad avere, ma avevo dovuto abbandonare perché le mie finanze erano crollate, per cui mi dovetti ac-contentare di quella soffitta-sottoscala. Mangiavo come potevo, in modo disordinato e scarso, fino a pesare settanta chili o poco più, io che per la mia statura devo pesarne almeno ottanta. Una doccia e un water c’erano nello sgabuzzino della lavatrice. Mi lavavo i panni e poi stiravo, malissimo, anche le camicie, che mi servivano per andare al lavoro.

Ebbene sì, caro amico lettore, io con tre diplomi di laurea, due di PhD e un master, era prima del tumore, e quindi fisicamente fortissimo e (a parere delle donne) gran bell’uomo, capace di fare più di cento chilometri in bici a trentacinque all’ora, bici che dovetti vendere. Con un’auto che valeva sì e no un milione di lire. Io, ero quello lì.

Sto dando spettacolo?

Mi accontentavo anche se non ero contento. Poi le cose sono cambiate e sono diventato (senza poter però comprarmi mai una casa) un signore provvisto di denari da poter essere considerato benestante. Con il mio lavoro diuturno, la mia fatica, lo studio applicato al concreto dei lavori, al punto, oggi, da essere nelle condizioni di rifiutare altri incarichi di lavoro, che pure sono bellissimi e adatti a me.

Ero però contento perché anche nel periodo peggiore riuscivo ad aiutare qualcuno, a far incontrare bisogno di lavoro e offerta di lavoro. La mia ossessione era il lavoro, fin da quando vedevo mio papà portare in Germania con due torpedoni cento operai della Bassa Friulana in cava di pietra nell’Assia profonda.

Non mi aiutava nessuno, o quasi… A un certo punto ho tirato fuori la testa dal guado, non sto a dire come (con fatica e sofferenza grandi), e sono ripartito, contento di essere ancora vivo.

Tiziano Terzani si è accorto che la felicità è un’illusione quando ha capito, visitando la Cina e la Cambogia post khmer rossi che il comunismo non costruisce l’homo novus e non dà la felicità. Se mi permettete, io l’avevo capito fin da ragazzo osservando come si comportava mio padre, che mi mostrava come la fatica si potesse coniugare all’onore di vivere del proprio, senza illusioni e senza affidare alla “società” ogni responsabilità del suo “dover-andare” in emigrazione, accusando di ciò sempre gli altri. E meno male che, per una vena varicosa scopertagli dal medico del Servizio Emigrazione di Verona, non lo mandarono a Marcinelle, in base agli accordi tra governi Italiano e Belga.

E allora, se tutto ciò sta in piedi, la gioia può trovarsi anche in mezzo al dolore, come quando nella malattia e nella sofferenza si verifica un miglioramento, che dà gioia. Si dà il sole nella pioggia (Battiato).

Come quando la dottoressa tale dei tali (che Dio la benedica) mi ha informato che la chemio faceva sfracelli del tumore cattivo che mi aveva catturato il sangue. E poi quando si vide che l’infusione delle mie cellule staminali mi stava difendendo (finora lo ha fatto) da un ritorno del tumore.

Gioia nel dolore, gioia nella sofferenza, si danno nella vita, tra alti e bassi, e ti fanno accontentare di come sei, di quello che hai, senza pretendere di possedere l’illusoria e stupidissima felicità.

E se giro con un’auto di quindici anni, con mezzo milione di chilometri di strada fatta, del valore usato di ottocento euro, chissenefrega! Non son di meno come uomo di chi possiede un garage di supercar, che stanno a lui stesso come i giocattoli a un bambino (cf. Eric Bernstein).

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