Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Per i pensatori classici la “volontà” umana è una delle due facoltà che muovono l’agire libero dell’uomo stesso, assieme con l'”intelletto”; per Lutero e Spinoza è “sottoposta” a un determinismo radicale, mentre per Arthur Schopenhauer essa è lo stesso “essere-del-mondo-e-dell’uomo”, come una sorta di “metafisica” anti-metafisica; altre posizioni nel testo, fino ai cluster delle psicologie cliniche che trattano del libero arbitrio (libertà/ volontà) e dei suoi limiti

La volontà c’entra con tutta la vita dell’uomo, in qualsiasi modo la si intenda.

La volontà è la facoltà propria di chi è intelligente, dicevano con semplicità, anche se con espressioni diverse, gli Scolastici, Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Giovanni Duns Scoto, Bonaventura da Bagnoregio e altri.

Nella Tradizione classica platonico-aristotelica la volontà è intesa come facoltà dell’anima ben distinta dall’intelletto, con il quale opera in un continuo riferirsi reciproco, dove l’intelletto illumina le decisioni che la volontà assume, mentre la volontà attua ciò che l’intelletto ritiene plausibile, utile, opportuno, necessario.

Si noti il climax concettuale crescente che illustra gli aspetti qualitativi della decisione volontaria, a partire dalla sua plausibilità, vale a dire non-irrazionalità, o possibilità di realizzazione. Il prosieguo attesta come la decisione volontaria possa costituire una scelta da attuarsi progressivamente, fino all’acquisizione mentale della consapevolezza della sua necessità, vale a dire inevitabilità, alla luce dell’intelletto agente.

Va considerata a questo punto anche la processione continua (e dunque non discreta, in termini logici) degli atti mentali che portano alla decisione di agire. Utilizzerò qui, more meo solito, un lessico coerente con il pensiero classico, ma che può essere tranquillamente sostituito con il lessico in uso nelle psicologie contemporanee:

a) riflessione sull’oggetto, b) focalizzazione, c) valutazione dei pro e dei contro, d) deliberazione, e) azione.

In un lasso di tempo variabile il soggetto libero diventa agente e – libertate exercita – “vuole” fare qualcosa e la compie.

In generale, l’agire umano prevede un soggetto agente e un oggetto agito, mediante delle cause efficienti, formali e finali, cosicché ogni atto è costituito da una fase di progettazione, da una fase di programmazione e infine da una fase di effettuazione, cui seguono effetti. Tutto ciò – si intende – accade nel macro mondo.

In generale, il senso comune percepisce che un qualcosa di agìto viene, appunto, agìto, da un soggetto agente che produce un effetto, nella modalità hoc propter hoc, a dire ciò a causa di ciò, ma non tutti sono sempre stati d’accordo con questa linearità. David Hume, ad esempio, valutava la possibilità che l’hoc si desse semplicemente post hoc, a dire ciò dopo ciò, nel senso di un semplice venire-dopo, senza un preciso nesso causale, che è quello invocato, ad esempio, dal diritto penale per stabilire le responsabilità del reato.

Per inciso, faccio notare che – etimologicamente/ filologicamente – in latino si danno due verbi che denotano l’agire umano libero: àgere, appunto, e fàcere, i quali significano, beninteso, l’italiano “fare”, ma possiedono un senso intrinseco differente, perché “fàcere” significa fare-qualsivoglia-cosa (anche un crimine) mentre “àgere” vuol dire agire-per-il-bene.

La meccanica quantistica in qualche modo ha sposato la dottrina humeana con il principio di indeterminazione (Heisenberg), in base al quale, nel campo delle microparticelle sub atomiche non si può prevedere il loro comportamento, che non ubbidisce alla legge di causa/ effetto registrabile nel mondo macro. Si potrebbe dire che la metatesi della “u” che si realizza nella modifica tra “causalità” e “casualità” è la mostrazione linguistica del principio di indeterminazione.

LE “AVVERSATIVE MATTEANE”

Andiamo ora a cercare e trovare punti, coerenti con il tema, nella grande letteratura e del grande pensiero filosofico-religioso, come nel Vangelo secondo Matteo, dove, al cap. 5, a partire dl versetto 17 appare il valore dell’intenzionalità morale presente nei detti di Gesù, subito dopo l’espressione delle otto Beatitudini (o Discorso della montagna). In questo luogo scritturistico inizia una sezione importantissima dell’intero discorso gesuano con il quale il Maestro nazareno opera un confronto stringente, inclusivo e non alternativo, tra l’antica Legge (“la Legge e i Profeti” secondo una tipica distinzione giudaica per indicare le componenti fondamentali della Scrittura) e la novità che Egli stesso è venuto a portare.

Anche se le parole di Gesù si pongono formalmente in “antitesi” tra la Legge mosaica ed il suo
insegnamento, dal punto di vista del loro senso profondo, le parole stesse vanno intese come una integrazione delle dottrine antiche, in modo da essere più capaci di dialogare con i tempi e la cultura del periodo in cui insegnava Gesù, e soprattutto con i tempi successivi, che ci riguardano financo direttamente.

Lo si capisce da questa espressione riferita a Gesù: egli “non è venuto ad abolire la Legge, ma a dare pieno compimento” ad essa.
Infatti, ogni aspetto della Legge qui richiamato è introdotto dall’espressione: “Avete inteso che fu detto…”, seguita poi da: “ma io vi dico…”. Vi sono cinque affermazioni “avversative” che riguardano altrettanti precetti della Legge. Gesù non intende invalidare la Legge dei Padri, ma spiegarla meglio, iniziando a toglierla dal formalismo del rispetto dei precetti che, come sappiamo, nella Tradizione, erano centinaia a proibire e centinaia ad ordinare, e portarla alle ragioni delle scelta morale soggettiva (quelle che Blaise Pascal avrebbe chiamato milleseicento anni dopo “ragioni del cuore”). Il contesto socio-giuridico degli Antichi non era molto interessato alla mozione psico-morale dell’agire, ma piuttosto al rispetto della norma, cui si dava la massima importanza, al fine di mantenere ordine nei rapporti familiari e in quelli politico-sociali.

La diversità fondamentale tra la Parola di Gesù e la Legge antica sta comunque, prima di tutto, in un
atteggiamento di fondo che esprime il modo di stare di fronte alla Parola di Dio: per la Legge antica una serie di precetti da osservare; per la Parola del Maestro una questione di amore fino a dare la vita, di essere quel sale e quella luce che danno significato e valore pieno alla vita, anche se non ci si mette in primo piano, piuttosto operando nell’umiltà del nascondimento.

La differenza è quella che distingue il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità.

Gesù parte proprio da qui. Sotto il profilo letterario-formale le antitesi sono collocate tra i vv.17-20, sull’osservanza della Legge, e il v. 48, che indica la mèta verso la quale il cristiano è in cammino. Egli desidera sottolineare la precisa volontà di Dio, lo “spirito” del comandamento stesso.

Per questo sarebbe preferibile la traduzione: … ebbene io vi dico, poiché il “ma” è più antitetico, per cui l’avverbio “ebbene” chiarirebbe meglio un insegnamento che va al di là della lettera, poiché l’obbedienza a Dio non si basa su atteggiamenti esteriori, ma parte dal cuore e tocca tutta l’esistenza dell’uomo.

IL DETERMINISMO IN LUTERO, SPINOZA, ETC.

Frate Martin Lutero, sulle tracce dell’Agostino “predeterministico”, dialogò con Erasmo da Rotterdam, che era un sostenitore forte del libero arbitrio sostenendo che il libero arbitrio stesso era stato molto “danneggiato” dal peccato originale, e purtuttavia senza un minimo di libertà da parte dell’uomo la giustizia e la misericordia divina diventano prive di significato. Anche Lutero, anche se manifesta costantemente il suo grande pessimismo nei confronti della capacità morale dell’uomo, ammette che l’uomo non-può-non possedere e mantenere uno spazio di libertà per meritarsi la misericordia divina.

Certamente, per Lutero vale il trittico “sola Gratia, sola Fides, sola Scriptura“, paolinamente coerente, ma non può valere alcunché l’agire umano secondo il principio di bene o di male – senza grazia, fede e scrittura – pur essendo il credente cristiano l’unico sacerdote di sé stesso.

Erasmo supporta la propria differente posizione proponendo un esempio: quello di un padre e del suo figliolo che vuole cogliere un frutto: il padre alza nelle sue braccia il figlio che ancora non sa camminare, che cade e che fa degli sforzi disordinati; gli mostra un frutto posato davanti a lui; il bambino vuole correre a prenderlo, ma la sua debolezza è tale che cadrebbe se il padre non lo sostenesse e guidasse. È quindi solo grazie alla conduzione del padre (la Grazia di Dio) che il bambino arriva al frutto che sempre suo padre gli offre; ma il bambino non sarebbe riuscito ad alzarsi se il padre non l’avesse sostenuto, non avrebbe visto il frutto se il padre non glielo avesse mostrato, non sarebbe potuto avanzare senza la guida del padre, non avrebbe potuto prendere il frutto se il padre non glielo avesse concesso. Cosa potrà arrogarsi il bambino come sua autonoma azione? Anche se non avrebbe potuto compiere nulla con le sue forze senza la Grazia, ha purtuttavia fatto qualcosa.

Jean Cauvin (Giovanni Calvino) mostra una modalità volontarista che si appoggia in modo radicale al determinismo provvidenziale, in base alla prescienza divina, che conosce in anticipo tutto ciò che è da sapere. L’uomo tuttavia può ricevere alcuni “segni” del proprio destino ultraterreno in base al successo o meno ottenuto nella propria vita politica ed economica. Eccoci che siamo alle viste del weberiano “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo“. Se mi è permesso, come “obbligatoriamente” (e fortunatamente essendo io cattolico) mi dichiaro poco o punto seguace di un’idea del genere!

Nel mondo cattolico del XVI secolo, contra reformatores, un Luis de Molina sostiene l’importanza fondamentale della buona volontà dell’uomo, in questo modo:

  • la prescienza di Dio e la libera volontà umana sono compatibili, poiché Dio può ben prevedere nella sua onnipotenza la futura adesione dell’uomo alla grazia da lui elargita;
  • questo piano di salvezza si attua per una valenza positiva attribuita alla volontà umana, in quanto neppure il peccato originale ha spento l’aspirazione dell’uomo alla salvezza.

Di contro, troviamo Cornelius Janssen (Giansenio) “ferocemente agostiniano”, che ritiene l’uomo essere corrotto dalla concupiscenza, per cui senza la grazia è destinato a peccare e a compiere il male; questa corruzione viene trasmessa ereditariamente. Il punto centrale del sistema di Agostino risiedeva per i giansenisti nella differenza essenziale tra il governo divino della grazia prima e dopo la caduta di Adamo. All’atto della creazione Dio avrebbe dotato l’uomo di piena libertà e della «grazia sufficiente», ma questi l’aveva persa con il peccato originale. Allora Dio avrebbe deciso di donare, attraverso la morte e resurrezione di Cristo, una «grazia efficace» agli uomini da lui predestinati, resi giusti dalla fede e dalle opere.

IL PENSIERO MODERNO E CONTEMPORANEO

Con Renè Descartes siamo a un razionalismo responsabilizzante, che impone all’uomo una ricerca costante della verità e del bene con l’esercizio del dubbio metodico, a partire dalla stessa fondazione ontologica dell’essere-uomo “penso (dubito), dunque sono“. La res cogitans, vale a dire l’anima umana, è per Cartesio libera, mentre il mondo, la res extensa, è obbligata da una meccanica necessaria (che non-cessa).

Il grande “successore” di Descartes, Spinoza, cerca di conciliare il dualismo platonico-cartesiano con una sintesi decisiva, quella che denomina Desu sive Natura, cioè Dio-Natura, che sarebbero lo stesso ente, da cui l’accusa a Spinoza di essere il primo degli ateisti della modernità, fomite spirituale di ogni successivo sviluppo dell’agnosticismo e dell’ateismo. Per Spinoza tutto avviene secondo necessità. La libera volontà dell’uomo dunque non è altro che la capacità di accettare la legge universale ineluttabile che domina l’universo. La libertà non sta nell’arbitrio, ma nell’assenza di costrizioni che consente ad esempio a una pianta di svilupparsi secondo le sue leggi: «Tale è questa libertà umana, che tutti si vantano di possedere, che in effetti consiste soltanto in questo: che gli uomini sono coscienti delle loro passioni e appetiti e invece non conoscono le cause che li determinano».

Dopo Descartes e Spinoza, Leibniz osservò che «quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non ci si domanda se l’uomo possa far ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza». Pur accettando l’idea della libertà come semplice autonomia dell’uomo, accettazione di una legge che egli stesso riconosce come tale, Leibniz voleva nel contempo mantenere la concezione cristiana della libertà individuale e della conseguente responsabilità. Per questo scopo egli concepiva la libertà fondata metafisicamente sulla “monade”: nel senso che ogni individualità, pur essendo un'”isola” completamente separata dalle altre, compirebbe “liberamente” atti che si incastrano come pezzi di un mosaico negli atti corrispondenti delle altre monadi, in un tutto che è l'”armonia prestabilita” da Dio. Il libero arbitrio non è indifferenza per Leibniz, ma «determinazione secondo quanto la ragione considera il meglio».

Dalla fine del XVII secolo nella comunità scientifica si affermò sempre più la posizione positivista accettando una situazione universale improntata al determinismo, analogamente ai processi fisico-chimici che si venivano scoprendo, cui facevano seguito le applicazioni tecnico-pratiche, come nel caso, prima dell’energia del vapore, e in seguito, dalla metà del XIX secolo dell’energia elettrica.

In ambito filosofico, David Hume, nel suo Trattato sulla Natura umana postulò l’esistenza di un meccanismo regolare delle umane passioni, che funzionerebbero analogamente a quanto prevedono le leggi del moto, dell’ottica, dell’idrostatica e di qualsiasi altra branca della “filosofia naturale”. Hume era convinto che le passioni dominassero a tal punto l’uomo da impedirgli di comprender qualsiasi verità razionale che avesse a che fare con una sorta, purchessia, di libero arbitrio, essendo sempre in qualche modo “vittima” delle dimensioni emotive e sentimentali.

Lo sviluppo della biologia e dei suoi strumenti, come il microscopio, suggerì al ricercatore di concepire sé stesso come un sistema fisico complesso composto da particelle, come le molecole, che subiscono, come ogni altro sistema chimico-fisico dell’universo reazioni oggettive, e rispondono quasi alle leggi stesse della fisica e della chimica rivolte alla natura extra umana. Hume, dunque, coerentemente ritiene che sia lecito chiedersi se tali processi fossero, più che l’effetto (delle azioni umane) la loro stessa causa, rovesciando in questo modo la logica causativa di effetti, in una logica meramente temporale di atti e fatti che si susseguono, indipendentemente da quale sia il soggetto che apparentemente agisce per primo.

Tali posizioni furono ulteriormente rafforzate man mano che si andava scoprendo che anche il cervello umano opera tramite impulsi bio-elettrici e reazioni elettrochimiche, che agiscono dentro campi e lettrici e magnetici.

Immanuel Kant propose una visione duplice, essendo egli anche, non solo un filosofo, ma anche un esperto fisico e matematico: a) l’uomo, appartenendo al mondo empirico e sensibile, è naturalisticamente condizionato, mentre, b) dall’altro punto di vista, l’uomo non può non essere libero nel suo agire morale, che si attua nella sua autocoscienza. Libertà e necessità, in Kant trovano una sorta di conciliazione, sia pure non poco faticosa.

LA VISIONE DI SCHOPENHAUER

Ed eccoci al pensatore che più di altri si dedicò allo studio del processo volontario nell’uomo. Il filosofo tedesco si convinse che l’uomo è sottoposto a una volontà a lui esterna, cieca e imperscrutabile, che indebolisce la volontà fino al suo (quasi) annullamento. Egli sosteneva che si può avere solo uno scopo operativo stabilito a priori: «Si può fare ciò che si vuole, ma in ogni momento della vita si può volere solo una cosa precisa e assolutamente nient’altro che quella». Vedremo meglio più in là che cosa in realtà voleva significare il truce Tedesco.

Prima di riprendere il suo pensiero (approfondimento gentilmente richiestomi dall’amico Pierluigi, che con me condivide molte riflessioni filosofico-morali, e politiche, di questi tempi difficili), desidero proporre qualche considerazione concernente il mondo delle particelle sub-atomiche, che uscirono dal binario della meccanica classica moderna galileian-newtoniana.

Il principio di indeterminazione di Heisenberg postulò il movimento delle particelle in termini stocastici di probabilità, che aprì agli studi sul sistema fisico un nuovo enorme campo di ricerca come con la meccanica quantistica, peraltro difficilmente conciliabile (ciò pare finora agli esperti dei due campi) con l’altro caposaldo della fisica recenziore, quello della relatività einsteniana et alii.

Anche questo indeterminismo venne utilizzato, a partire dal XX secolo, come argomento contro la possibilità del libero arbitrio. Se infatti il determinismo aveva finito per negare la libertà umana, i sostenitori dell’indeterminismo adesso attribuivano al caso la genesi delle nostre azioni, giungendo così ugualmente a negare che la volontà umana fosse libera, in quanto, essendo soggetta a parametri irrazionali, risulterebbe incontrollabile.

A questo punto introdurrei un tema di ricerca personale che ho più volte avuto modo di proporre durante seminari e conferenze: il diagramma dell’… inesistenza del caso nella dimensione macro, per cui rinvio allo specifico disegno topologico.

L’argomento standard contro l’esistenza del libero arbitrio ebbe modo così di basarsi su due differenti opzioni, cioè sulle seguenti concezioni:

  • l’interpretazione deterministica della natura, secondo la quale sono solo le leggi fisiche a dettare i comportamenti umani;
  • l’interpretazione indeterministica della natura, per cui ogni evento è prodotto dal caso, e le scelte individuali sarebbero il risultato di questi processi casuali.

Per via di una tale impostazione filosofica veniva a porsi il problema, di natura non solo etico-morale ma anche giuridica civile e penale, se l’uomo fosse ancora da considerarsi eticamente responsabile delle sue azioni.

Contro questo modo riduzionistico di considerare l’essere umano, tuttavia, ha preso posizione il Filosofo della scienza Karl Popper attaccando il cosiddetto determinismo genetico, il neodarwinismo e la sociobiologia largamente diffusi in questi ultimi decenni, per affermare l’autonomia della mente e la sua azione causale nei confronti del cervello e delle sue componenti genetiche. Popper si considera dualista, ma non alla maniera di Descartes, sostenendo che tra i fenomeni mentali e quelli fisici permane una forte dose di incertezza che garantisce l’esistenza del libero arbitrio.

Tornando a Schopenhauer, si può notare come e quanto egli riprendesse il pensiero di Platone e di Kant, per la loro capacità di vedere le cose da due lati, nella loro duplicità, il mondo fenomenico (Kant) o delle realtà materiali (Platone), e il mondo noumenico (Kant), o delle idee (Platone). Per ambedue questi pensatori, la realtà più importante è quella dei noumeni-idee.

Schopenhauer cambia “nome” ad ambedue le visioni-del-mondo: per lui il noumeno-idea è la VOLONTA’, mentre le cose dell’esperienza sono i fenomeni/ realtà materiali. Leggiamolo:

L’intima essenza delle cose è estranea al principio di ragione. Essa è la cosa in sé, e questa non è altro che volontà; la quale è perché vuole e vuole perché è. La volontà è in ogni essere la realtà assoluta.
(Parerga e paralipomena, Pensieri diversi, 65)

La Volontà è uno stimolo irrazionale che conduce al disordine e che è presente in ogni essere vivente, compresi animali e piante; soltanto l’uomo però è in grado di rendersene conto, in quanto dotato di una ragione capace di comprenderne la presenza e le sue conseguenti manifestazioni. La Volontà dunque non si presenta come un semplice impulso tipico del carattere umano, ma come un vero e proprio ente a sé che, a detta del nostro pensatore, regge da sempre il mondo e sempre lo reggerà.
A differenza di quanto credono gli uomini, che in ogni cosa vedono e “vogliono vedere” un fine, il mondo si rivela come il risultato di una energia irrazionale e totale che non ha alcuno scopo, pur essendo un mondo disposto con ordine nelle sue leggi. La realtà esiste, ma è come se si trovasse nascosta dietro a un velo di interpretazioni e spiegazioni illusorie, che comunque noi percepiamo subito con i nostri sensi nella nostra quotidianità. Quindi, pur essendo reali, queste interpretazioni illusorie sono l’esito delle sensazioni soggettive della mente di ciascun individuo. E ancora:

Per come è fatta la natura del nostro intelletto, i concetti dovrebbero nascere in seguito all’astrazione delle intuizioni, per questo le intuizioni dovrebbero esistere dentro di noi prima dei concetti stessi. Contrariamente a ciò, con l’educazione artificiale, attraverso l’insegnamento e lo studio, la mente viene ingombrata da una quantità di concetti prima ancora che vi sia un’ampia conoscenza del mondo dell’intuizione, creando così menti deformate e molto sciocche.
(Parerga e paralipomena, Pensieri diversi, 372)

L’uomo entra in contatto con la Volontà nell’intimo della propria mente, la quale è parte del corpo; ed è proprio il corpo l’unica cosa che può essere davvero conosciuta dall’uomo nella sua interezza e immediatezza. Il corpo è il mezzo usato dalla Volontà per estrinsecarsi, proprio perché ogni corpo percepisce e si identifica con la volontà, e con la volontà di vivere, che è uno stimolo irrazionale ed emozionale presente in tutti gli uomini. Dove c’è un corpo c’è sempre una volontà; corpo e volontà dunque coincidono. E, secondo Schopenhauer, è da questo rapporto inscindibile che si origina il dolore esistenziale.
Vediamo perché.
Caratteristica necessaria della Volontà è l’assolutezza, l’infinità che spinge l’uomo a desiderare in maniera incessante e continua; il corpo, invece, non può che essere limitato e, conseguentemente, non può soddisfare questo desiderio infinito. Per tale motivo l’essenza della vita è la sofferenza, alla quale si può sfuggire soltanto per momenti fugaci, ossia quando, appagando nell’immediato la Volontà, si prova piacere.
Questa visione pessimistica costituisce la base del sistema filosofico di Schopenhauer. Egli ritiene che…

Non esiste una persona felice eppure, per tutta la vita, si aspira ad una presunta felicità, che di rado si raggiunge e, se la si raggiunge, è solo per esserne delusi: la regola è che alla fine ognuno giunge al porto avendo fatto naufragio. Ma allora è indifferente essere stati felici o infelici, in una vita fatta solo di presente e che in un attimo ha fine.
(Parerga e paralipomena, Pensieri diversi, 144)

Affinché il mondo, oppure l’uomo, raggiunga la suprema e vera felicità, sarebbe prima di tutto necessario fermare il tempo.
(L’arte di invecchiare, 104)

Un ruolo primario è assunto dalla nostra soggettività.

Non è ciò che le cose sono oggettivamente e realmente a renderci felici o infelici, ma piuttosto ciò che esse rappresentano per noi, secondo il nostro punto di vista.
(Aforismi sulla saggezza della vita)

Famosa la sua visione della vita che, come un pendolo, oscilla tra il dolore e la noia; noia che è sempre in agguato e porta a tormentare l’uomo, non appena il piacere sia scomparso e con esso la volontà urgente di soddisfare altri desideri. Quindi, secondo Schopenhauer, quello che si dovrebbe fare è ridurre al minimo i desideri, così da poter raggiungere una serena condizione mentale e una maggiore predisposizione verso la benevolenza universale.

Per evitare una grande infelicità, la via più sicura consiste nel ridurre il più possibile le proprie aspirazioni e le proprie pretese, in rapporto ai mezzi propri di qualunque genere.
(Aforismi sulla saggezza della vita)

Il filosofo fa un appunto anche sul ruolo giocato dalla fantasia.

È necessario tenere sotto controllo la fantasia in tutto ciò che riguarda la nostra felicità e infelicità, ciò significa che non dobbiamo costruire castelli in aria: questi infatti sono troppo costosi, perché subito dopo possono essere demoliti con un solo sospiro.
(Aforismi sulla saggezza della vita)

La concezione pessimistica di Schopenhauer, mettendo all’origine della vita e del mondo una forza irrazionale che governa ogni cosa e che spinge l’uomo in una continua, quanto vana, ricerca dell’appagamento dei desideri, non può fare altro che intendere l’esistenza come privazione e bisogno, e quindi preoccupazione e dolore.
Un filosofo, in quanto tale, poiché è “condannato alla lucidità”, ha maggiore consapevolezza di questa condizione e quindi è destinato, in maniera inevitabile, ad essere tra gli uomini più infelici. E’ da preferirsi, dunque, un “cammino” etico e ascetico che miri ad annullare o attenuare l’effetto della volontà. Soltanto esercitando la noluntas (non-volontà) si può giungere ad uno stato di quiete in cui ogni possibilità è indifferente e ogni sofferenza è privata del suo fondamento. La noluntas è dunque l’esperienza del nulla come ultimo fondamento del tutto, accettato con totale serenità poiché è l’unico atto concesso liberamente all’uomo.
Schopenhauer insiste nel sostenere che la maggior parte dei piaceri generalmente desiderati è del tutto superflua, oltre che “pesante e perturbatrice”, per usare le sue testuali parole; affermando che una qualità fondamentale per la felicità sia la saggezza, in quanto in grado di farci capire che solo quello che siamo, solo la nostra individualità sono importanti e non ciò che abbiamo e ciò che rappresentiamo.

È una preoccupazione molto più grande per gli uomini quella di procurarsi molte ricchezze piuttosto che quella di avere un’educazione spirituale, quando invece è assolutamente certo che ciò che si è contribuisce molto di più alla nostra felicità che non ciò che si ha.
(Aforismi sulla saggezza della vita)

IL MANUALE MEDICO DIAGNOSTICO E STATISTICO DEI DISTURBI MENTALI. CENNI

E, da ultimo, non possiamo esimerci quantomeno dal citare il Manuale diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali per la Medicina generale (DSM-IV-TR MG, Masson editore, 2010), che propone le sindromi, “spettri” o cluster, inquadrati in modo algoritmico, di carattere psicotico o psicopatico che impediscono di affermare che certe azioni dell’uomo (tutte, comprese quelle disumane, cioè male, o malvagie, secondo il criterio lessicale dell’etica classica) possono essere compiute in piena consapevolezza e libertà decisionale, e dunque possono (anzi debbono influenzare lo stesso diritto penale, così come impostato fin dalla Stele di Hammurabi e in seguito dal Diritto Romano sistematizzato da Giustiniano e della modernità).

Abbiamo dunque i tratti di personalità psicotici, che conducono a vite strutturalmente disordinate, e soprattutto fanno vivere male gli altri. Tra i tratti più specificamente dannosi e perfino pericolosi, voglio citare qui, tra diversi altri, il narcisismo manipolatorio, esplicito (o OVERT, cf. Bruzzone 2023), e quello ancora più pericoloso e subdolo, perché implicito (o COVERT, cf. Bruzzone 2023),

…e quelli psicopatici, che sono vere malattie con loro proprie nosologie e nosografie, che descrivono attività criminose fino all’omicidio singolo e seriale, sia che sia organizzato sia che non lo sia, e prevedono, oltre alle procedure giuridico-penali e sanzionatorie, anche interventi terapeutico-farmacologici.

Mi fermo qui perché il discorso ci porterebbe troppo lontano, dovendo io, per ragioni epistemologiche, rimanere su “letterature di seconda mano”, non essendo né psichiatra, né neurologo, né psicologo clinico, anche se, come filosofo razionale, dialogo e interpello tutti questi saperi, interessandomi e utilizzando, se del caso, anche i loro specifici e ricchissimi patrimoni lessicali.

In ogni caso, caro lettore, ti voglio regalare questo ricordo, a propositi di volontà, che è forse meno noto (ai liceali) del “volli, sempre volli, fortissimamente volli” di alfieriana memoria, oppure dello “studio matto e disperatissimo” (di cui si son viste alcune conseguenze alla colonna vertebrale) del Conte Giacomo da Recanati.

Si tratta dell’indomabile volontà dell’uomo, mostrata da Reinhold Messner, quando salì l’Everest senza bombole di ossigeno nel 1980.

E’ solo un esempio.

Post correlati

0 Comments

Leave a Reply

XHTML: You can use these tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>