Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il “dirittismo” è una “malattia psico-morale” vera e propria

Caro lettore, perdonami la scelta di questo orrendo neologismo, di cui non sono l’autore, ma forse uno dei primi utilizzatori: il “dirittismo”.

Come tutti gli “ismi” pare essere qualcosa di sgradevole, di negativo, ed effettivamente lo è, come tutte le esagerazioni o deformazioni. Si tratta della de-formazione di “diritti”, i quali, concettualmente e storicamente di solito vengono collegati ai “doveri”.

Storicamente, i “doveri” hanno sempre avuto la primazia sui diritti, fin dalle filosofie antiche, dall’etica aristotelica e stoica, da Seneca a Tommaso d’Aquino fino Immanuel Kant e a… Giuseppe Mazzini.

Con l’avvento del parlamentarismo e delle democrazie moderne di stampo illuminista, i diritti sono entrati a pieno titolo nel lessico principale della politica.

Sotto il profilo dottrinale i diritti si suddividono in fondamentali, legati alla vita umana e alla sua salvaguardia integrale, sociali e civili. I diritti fondamentali e sociali sono stati curati per primi, con l’habeas corpus giuridico, il diritto alla difesa in giudizio, con la contrattualistica del lavoro e poi con le tutele sociali sanitarie e pensionistiche. Buoni ultimi, dunque, i diritti civili, come il diritto al voto e al suffragio universale.

Ad esempio, in Italia, se gli uomini hanno avuto il diritto di votare tutti, senza distinzione di classe o di censo attorno al 1910, le donne hanno potuto votare tutte solo dal 1946.

Il divorzio e l’interruzione di gravidanza sono stati “diritti civili” (definizione molto imperfetta soprattutto in relazione al secondo diritto citato) di più recente acquisizione, assieme alla parità formale di trattamento di uomini e donne sul lavoro. “Formale”, perché non si è ancora realizzata, soprattutto per quanto attiene ai trattamenti economici.

Un esempio per tutti: nel 1970 è stata emanata la Legge 300 “Statuto dei diritti dei lavoratori”, che equilibrò i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, che fino ad allora erano stati molto squilibrati a favore degli ultimi. Ricordo con piacere l’occasione che ebbi a una Direzione nazionale del Sindacato di cui facevo parte, di aver incontrato colui che redasse lo Statuto dei Lavoratori, il professor Gino Giugni, il più insigne giuslavorista del tempo, socialista riformista e uomo gentile. Mi spiegò, stando in piedi al caffè, come lo Statuto fu votato dal Centrosinistra di allora con i comunisti che si astennero, perché “non potevano” votare per il Governo cui si opponevano, anche se nel Governo i socialisti di Nenni e i socialdemocratici di Saragat avevano un ruolo importantissimo. Infatti, non a caso era stato incaricato lui di redigere quella importantissima Legge.

Bene.

Negli ultimi decenni, invece, sono stati proposti al dibattito cultural-politico nuove tipologie di diritti, ed è qui che nasce quella che finisce con il diventare “dirittismo”. E siamo ai nostri giorni.

Se parliamo di ambiti civili troviamo, nell’ordine:

a) unioni civili tra persone dello stesso sesso (che qualcuno si ostina a chiamare “matrimoni”, ignorando del tutto il latinismo giuridico che costituisce la semantica del termine: mater-munus, cioè ufficio-della madre, che, fino a prova biologica contraria, non può essere un maschio), diritto ottenuto;

b) adozioni per coppie omosessuali, diritto non ottenuto, a mio parere giustamente sotto il profilo etico-pedagogico;

c) maternità surrogata, come b), e speriamo così resti;

d) dizione genitore 1 e genitore 2, invece che madre e padre, sui moduli anagrafici (recentemente confermata dall’Alta corte), che a me sembra una sesquipedale stupidaggine (scuola elementare di Viggiù: “Paolo, ieri è venuta a prenderti quella signora, è mamma tua, vero? Ma quella di oggi chi è, la zia? No… è papà), care nere toghe autorevolissime, etc..

Sotto altri aspetti ora alcuni nulla facenti si esercitano a litigare nervosamente con la lingua italiana, proponendo di femminilizzare tutti i termini che storicamente sono nati (e funzionano bene) al maschile. Un esempio di questa idiozia, per tutti: è noto che nella politica e nel sindacato il termine-ruolo di “segretario” è riferita al capo politico dell’organizzazione (si pensi alla figura di Stalin nel Pcus, o anche più minutamente alla mia come segretario regionale di un sindacato), che comandava, mentre il termine di “segretaria” significa e rappresenta un ruolo subalterno e di supporto. Infatti, la premier italiana testé eletta preferisce – giustamente – farsi chiamare “Il” Presidente del Consiglio”, non “La (Presidente del Consiglio)” e men che meno “Presidentessa”. D’altra parte il deverbale “presidente” è il participio presente del verbo “presiedere”, e quindi…

Di queste teorie balzane vi sono anche militanti ben individuabili. Due su tutte: Murgia Michela, scrittrice di cui non ho mai letto un rigo (e non mi manca, preferisco passare il mio tempo rileggendo mille volte Dickens o Gogol o Manzoni) e Boldrini Laura, nota politica. Dietro a costoro e alle loro risibili teorie c’è un piccolo stuolo di uomini e donne dei media e diversi politici di sinistra, specialmente quelli/ e più snob e radical chic. I politically correct, che sono anche paladini dell’orrore culturale e morale della cancel culture. Vorrei che venissero in un qualsiasi paese friulano a spiegare che loro butterebbero giù i monumenti ai Caduti di tutte le guerre, per vedere la reazione del popolo che loro si illudono di rappresentare. Vada per i giornalisti/ e, ma i politici della sinistra, così facendo, perdono un’altra occasione di riprendere un percorso politico e culturale che gli appartiene, ma quelli/ e attuali non lo sanno. Un nobile percorso che ha avuto esempi gloriosi, come quello che segue.

La sigla F.I.O.M. è l’acronimo della più antica federazione sindacale di categoria e significa Federazione Impiegati Operai Metallurgici, anche se qualche suo militante non se lo ricorda neppure. Ebbene, gli straordinari operai, impiegati e tecnici che fondarono nell’ultima decade del XIX secolo questo sindacato avevano in testa, oltre che i loro diritti che allora erano tutti da conquistare, anche i doveri che avevano imparato a rispettare.

Potrei esemplificare ad libitum, ma mi fermo qui, suggerendo solo di riprendere la lettura di alcuni classici anche abbastanza recenti, che dovrebbero essere proposti addirittura in famiglia e certamente a scuola. Utile una lettura mazziniana:

«Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE. Bisogna convincere gli uomini ch’essi, figli tutti d’un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d’una sola Legge – che ognuno d’essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori – che il combattere l’ingiustizia e l’errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa – dovere di tutta la vita
(Giuseppe Mazzini, Dei Doveri dell’Uomo, 1860)

Dopo il grande Italiano, sulle sue tracce troviamo politici come il Presidente americano Woodrow T. Wilson, il premier britannico David Lloyd George, e anche diversi leader post coloniali come Gandhi, David Ben Gurion, Golda Meir, Nehru e Sun Yat Sen.

Suggerirei a Stefano Bonaccini che mi auguro sia eletto segretario del PD di riprendere questa letteratura etico-politica.

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