Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

“…tutto bene?” Due tipi di risposte a una domanda, che può essere retorica oppure concreta, veritiera, umanissima

Chi mi conosce sa quanto mi infastidisca questa italianissima domanda retorica, cui, se non vuoi farla lunga, rispondi in modo generico, tipo “abbastanza”, oppure “potrebbe andare meglio”, e finisce lì, in un lampo, che permette a chi domanda di mettersi il cuore in pace e al rispondente di essere stato educato.

Se non fosse perché le energie sono limitate e non devono essere sprecate, sono sempre tentato di intrattenere l’incauto “inquisitore” con una disamina dettagliata di come effettivamente sto, il che richiederebbe almeno una decina di minuti, se non si vuole essere troppo generici.

Non si può e non si deve fare.

Aggiungo. La domanda “tutto bene?”, essendo retorica, prevede una risposta affermativa, anche se le cose non stanno così… bene. E quindi la domanda stessa può far prevedere di rispondere il falso.

Per ovviare a questo grave problema, che è plausibile nelle quotidiane relazioni, ho trovato un modo semplice, sintetico e anche spiritoso di rispondere alla domanda “tutto bene?”, in questo modo, rispondendo: “prevalentemente”, con un avverbio di modo che significa qualcosa di generico, ma tendente al positivo.

Se sono di buon umore e il mio interlocutore ha tempo, trovo il modo di fargli io una domanda, proprio sul “prevalentemente”, chiedendogli di “matematizzarlo”, cioè di fare un’operazione alla Kurt Goedel, che spiegava come non tutto fosse matematizzabile, a partire dall’asserzione appena riportata.

Gli/ le chiedo dunque: “prova a dirmi quanto vale l’avverbio prevalentemente su una scala da 1 a 100″, un po’ come si fa con la scala antalgica che funziona da 1 a 10: dolore 3, dolore 6, e così via, rispondendo al medico che ti ha in cura.

Ebbene, caro lettore, il mio stupore al variare delle risposte, che vanno dal 51 su 100 all’80 su 100, mi ha indotto a fare una piccola analisi socio-statistica, suddividendo in categorie i “rispondenti”. Dopo un primo periodo di sperimentazione mi sono accorto che una categoria accademico-professionale di persone mi rispondeva sempre allo stesso modo, gli ingegneri, che quasi tutti mi dicevano con celerità (e continuano a dirmi): 51 su 100.

Tutti gli altri, qualsiasi fosse la scolarità superiore o accademica o anche da scuola dell’obbligo, mi rispondevano (e mi rispondono) con numeri che vanno dal 60-65 al 75-80, scegliendo un range che parte da quella che nelle istituzioni pubbliche si definisce “maggioranza qualificata”, il 66%, a tre quarti di 100 e oltre. Per gli ingegneri, invece, “prevalentemente” vale la maggioranza numerica semplice, cioè 51 su 100.

In rarissimi casi, qualcuno mi ha risposto 40 su 100, non sapendo poi dar ragione della scelta: probabilmente persone con scarsa conoscenza della lingua italiana.

Una domanda mi è sorta: perché gli ingegneri, tutti, indefettibilmente, ritengono che l’avverbio di cui qui tratto corrisponda a un 51 su 100? Penso che ciò dipenda dalla loro forma mentis, che raramente è orientata a divagare in modo narrativo e filosofico sulla varietà delle cose del mondo, che invece loro preferiscono misurare sempre e solamente con gli strumenti della matematica.

Per essere preciso, nella mia ricerca, però, ho riscontrato solo tre o quattro eccezioni tra gli ingegneri: due di loro mi hanno detto 65 su 100. Alla mia domanda circa quale scuola superiore avessero frequentato, la loro risposta è stata: il liceo classico. Gli altri due erano periti industriali.

Alia verba memorari utile non est.

Invece, in questi giorni mi è capitato un fatto che mi ha fatto rivalutare la banalissima domanda “tutto bene?”

Stavo disteso su una panchina per riposarmi dopo una corsa in bici e per riprendermi da notevoli dolenzie alle vertebre dorsali. Nel silenzio meridiano più alto, ferragostano, un’auto che passa ogni dieci minuti, sento proprio un’auto rallentare, mi giro verso la strada, e un gentile signore, giovane, si affaccia al finestrino e mi chiede “tutto bene?”. Gli rispondo con un sorriso: “Grazie, sì, tutto bene, mi sto riposando, stavo guardando il cielo“. Con un sorriso l’uomo si congeda e se ne va.

E un altro. Stamane un amico e collega, durante il nostro tradizionale incontro di inizio settimana in una grande azienda, nel quale non solo conversiamo sui fatti aziendali, ma anche più in generale sulle vicende politiche e sulle nostre rispettive vite, lui nel suo ruolo di Amministratore delegato, io di Presidente dell’Organismo di vigilanza, durante il dialogo mi chiede quale sia la peggior cosa accaduta in politica in questi giorni, vigilia di improvvide elezioni nazionali.

Gli rispondo: “Tra diverse altre scemenze, questa: stamattina hanno detto nei vari tg che i 5Stelle, avendo deciso di non candidare nessuno dopo il secondo mandato (decisione in sé stimabile), hanno però deciso, al fine di salvaguardare il cospicuo reddito dei molti che senza reddito rimarranno, perché non saranno rieletti, e non hanno un lavoro, di candidare i parenti più stretti di costoro, cioè fratelli, sorelle, mariti o mogli e perfino cugini di primo grado, mi pare.”

E lui: “La cosa non appare neanche come scandalo, nascendo da un partito che si è lanciato nell’agone sostenendo che “uno vale uno”, che cioè ogni persona umana fosse intercambiabile con qualsiasi altra, così confondendo i principii primi di un’antropologia filosofica di base, che distingua fra struttura di persona (l’uno vale uno) e struttura di personalità (ognuno è irriducibilmente unico) e che era conosciuta, come mi racconti tu, anche da tua nonna Catine, con la terza elementare. Vedi, secondo loro, tu e io, nei nostri ruoli potremmo essere sostituiti dal primo che passa per strada, qui sotto in via …, a ….”

Perché mi trovavo nella sede di …, una multinazionale che solo in Italia dà lavoro a poco meno di tremila persone e in Europa a oltre diecimila.

E dunque, per Conte e c. uno vale uno. Ridere non basta, è richiesta pietà per chi la pensa in questo modo e poi umana pazienza.

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