Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Villa Sulis e la grammatica dei volti

villa SulisTrovarsi con Gianni Colledani, culto umanista e cantore dei toponimi e delle terre alte, della Pedemontana, è bello. E con altri amici venuti per il libro. Villa Sulis si staglia sulla Costa avita, avamposto dei “castellani” e corpo di guardia dei “beltramini”, quelli di Spilimbergo che uccisero il Patriarca Bertrando un pomeriggio del 1350. Si parla di nomi e di lingue antiche, rimaste a dire il rispetto dei luoghi, dei sentieri, delle ancòne, delle pietre dove si riposavano i viandanti, delle antiche pievi.

Tardo pomeriggio d’inverno, silenzio e luce soffusa che cala rapida dalla montagna. Sembra incredibile, di questi tempi, riempir quasi mezza sala dal tetto di frassino, nella villa salvata da mani rapaci che avevan già pronti i bulldozer per spianare e “valorizzare”. Che cosa?

E mentre riposo ascoltando il collega, che come me si spende nel nostro gramelot friulo-italiano, gradito dagli astanti, osservo i volti, e ricordo, socchiudo gli occhi discretamente, e mi viene alla mente l’innumerabile schiera delle persone incontrate e, più o men conosciute, nella mia vita.

Ricordo le impressioni, i giudizi miei rapidissimi, la simpatia immediata o il suo contrario, le correzioni di rotta e di giudizio, rare però, ché quasi sempre, fin da giovanissimo “ci prendevo”, e ci prendevo anche gusto a guardare i volti, e a immaginare storie, mestieri, affetti, dolori, aspettative, parole, silenzi. E poi la scoperta del positivismo antropologico, con i nessi tra caratteri somatici e psicologici, e anche tutti limiti della dottrina. Ma.

Ma, caro lettor mio, a me pare ancora di sbagliar poco se mi affido allo sguardo che penetra la grammatica dei volti, e li analizza senza analisi, cogliendoli in un unico atto conoscente, induttivo, intuitivo e legge nel volto femmineo di una donna matura la bambina che è ancora, e mi sovvien l’evangelista, testimone del Rabbi nazareno:

In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.” (Matteo 18, 3). E allora?

Oppure il volto ingrugnito di chi mi disnuisce in faccia, anche se non in grado di contestar secondo logica quanto vado dicendo, ad esempio che il matrimonio (mater munus) è l’ufficio della madre, così come il patrimonio (pater munus) è l’ufficio del padre, per cui una coppia omosessuale non può etimologicamente, semanticamente, ontologicamente dirsi “matrimonio”, ma “unione” e, a fronte del cupo arrovellarsi del volto grammaticato nell’ira, gli propongo una similitudine “sarebbe come se io è lei ci mettessimo d’accordo di chiamare sedia questo tavolo, per un anno, e poi mai più“. E l’ira si fa più funesta, e il viso avvampa. Eccome se c’è la grammatica dei volti!

E guardo, volto per volto, persona per persona, la prima fila e la seconda e la terza. Una schiera espressiva dell’uman genere, che non avevo mai incontrato salvo il valoroso amico di cui sopra.

E poi, tornando, considero come l’evento si è già posto nell’eterno fluire dell’essere ed è diventato eterno, come  eterno è ogni atto, ogni parola, ogni pensiero che sorge dalla mente, ogni sogno notturno, ogni desiderio, ogni deliberazione, ogni sguardo, ogni benedizione.

Benedetta sia la vita che mi accoglie ogni giorno e mi presenta l’infinita grammatica dei volti e del destino.

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