Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

L’elogio della Mitezza

La mitezza per alcuni è più virtuosa dell’umiltà. Per me sono necessariamente collegate. Mitezza e umiltà sono effetti di una consapevolezza, di una coscienza del limite, che ogni essere umano dovrebbe avere presente. Abbiamo tutti il nostro limite, anche se non lo conosciamo.

Il senso del limite è uno stato della coscienza razionale che rende sano e  salubre il ragionamento.

La mitezza non è fiacca debolezza, anche se oggi va più forte la millanteria da Miles gloriosus  plautiano. Il bluff pare rendere di più della mitezza. Sembra che essere miti sia sinonimo di essere deboli. Bisogna digrignare i denti per essere vincenti. Oggi. Ma non è vero. “Beati i miti perché possiederanno la terra” (Mt 5, 5)

Norberto Bobbio ha scritto L’elogio della mitezza (Il Saggiatore tascabili, Milano 2010). Egli distingue la mitezza dall’umiltà, dalla mansuetudine e dalla modestia. La colloca in alto, al di sopra. Io penso invece che la mitezza sia una specie di pazienza, e che abbia a che fare con l’umiltà come coscienza del limite, e se è una specie di pazienza vuol dire che ha a che fare anche con la fortezza, con l’aretè dei Greci, cioè con il coraggio. Per Platone e Aristotele è virtù eccellente.

La mitezza è dunque una forma di coraggio, che è il contrario della temerarietà. Il mite non agisce senza pensare, è prudente, è capace di attendere aspettando con attenzione.

Il mite ascolta lo spirito che soffia, la ruah, la “voce di silenzio sottile” (1 Re 19, 12) dello Spirito.

Il mite lo si nota per come incede,/ per il tono della voce,/ per come traversa l’oscuro,/ forte di una luce/ che non si sa bene da dove venga./ Il mite non è nei cieli/ ma quaggiù tra noi:/ è uno di noi./ Ci deve pur essere un motivo/ per cui riceve in eredità/ non il cielo ma la terra“.

Invece nell’arrogante si nota l’ingombro, la pesantezza, l’incapacità ad accorgersi degli altri e dunque a correggersi, a volte l’odore.

Nell’arrogante e nel vanaglorioso si nota -non il limite- ma la maschera della sua morte, il silenzio della sua afasia, il senso dell’apparenza senza essenza e senza bontà.

L’arrogante è, oltre che vanaglorioso, superbo, per cui ritiene gli sia concesso tutto, al di sopra di tutti.

All’arrogante, cioè al non-mite, non interessa il bene, ma solo il suo proprio io, mentre il Bene è addirittura il fondamento dell’Essere.

Se ciò è vero l’arrogante, cioè il non-mite, scompare nell’inevidenza e nell’inconsistenza del nulla.

 

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