Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La sentenza di re Salomone

Un giorno andarono dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui.
Una delle due disse: “Ascoltami, signore! Io e questa donna abitiamo nella stessa casa; io ho partorito mentre essa sola era in casa.
Tre giorni dopo il mio parto, anche questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c’è nessun estraneo in casa fuori di noi due.
Il figlio di questa donna è morto durante la notte, perché essa gli si era coricata sopra.
Essa si è alzata nel cuore della notte, ha preso il mio figlio dal mio fianco – la tua schiava dormiva – e se lo è messo in seno e sul mio seno ha messo il figlio morto.
Al mattino mi sono alzata per allattare mio figlio, ma ecco, era morto. L’ho osservato bene; ecco, non era il figlio che avevo partorito io”.
L’altra donna disse: “Non è vero! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto”. E quella, al contrario, diceva: “Non è vero! Quello morto è tuo figlio, il mio è quello vivo”. Discutevano così alla presenza del re. Egli disse: “Costei dice: Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto e quella dice: Non è vero! Tuo figlio è quello morto e il mio è quello vivo”.
Allora il re ordinò: “Prendetemi una spada!”. Portarono una spada alla presenza del re.
Quindi il re aggiunse: “Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”.
La madre del bimbo vivo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, e disse: “Signore, date a lei il bambino vivo; non uccidetelo affatto!”. L’altra disse: “Non sia né mio né tuo; dividetelo in due!”.
Presa la parola, il re disse: “Date alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua madre”.
Tutti gli Israeliti seppero della sentenza pronunziata dal re e concepirono rispetto per il re, perché avevano constatato che la saggezza di Dio era in lui per render giustizia“.

(1 RE 3,16-28, Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 1980, p. 616)

Nel Vicino Oriente Antico la prima virtù dei re (la cui origine era data dal costituirsi quali capi di grandi tribù) era la giustizia. Il re (il termine re, rex, deriva dal latino rego, is, reggere: il re era un reggitore, non un dominus onnipotente e prepotente, anche se spesso lo diventava) amministrava direttamente la giustizia, su sua iniziativa, ma anche quando veniva invocato da qualcuno del popolo. Questo è il caso tramandatoci dallo scrittore biblico del Primo Libro dei Re.

Salomone viene interpellato da due donne, che vengono definite prostitute. Al tempo, le donne sposate erano destinate a rimanere vedove molto presto: le guerre, le malattie senza rimedio e la strutturale fragilità degli uomini portava via i loro mariti lasciandole quasi sempre senza mezzi di sostentamento. E allora, se non interveniva un membro maschio della famiglia acquisita, solitamente un cognato, erano destinate alla strada.

Non sappiamo dunque se le due “donne di malaffare” avessero scelto il mestiere liberamente o per necessità. In ogni caso la tragedia della morte di uno dei bimbi le fa cercare il giudizio del re Salomone, noto nella nazione ebraica e presso tutti i popoli come sapiente, giusto e saggio. Re Salomone mostra in questo modo tutta la sua sapienza e capacità di penetrare la verità dell’uomo, fin nel suo più intimo sacrario della coscienza: egli infatti cerca di cogliere le intenzioni del cuore, oltre le parole che escono di bocca, e che possono essere una falsificazione retorica o un inganno.

Il suo giudizio, come ci narra la storia, è entrato nelle espressioni correnti come il “giudizio per antonomasia” (salomonico).

Nota sociologico-giuridica

Nell’antico Israele e anche presso i popoli viciniori, per assicurare la retta applicazione del “diritto di famiglia”, un membro del clan veniva eletto “go’el”, cioè “vendicatore del sangue” (= redentore). Il “goelato” era una delle istituzioni familiari più sacre, esigenza per un popolo nomade, perché diveniva garanzia dell’unità familiare. Il go’el era un membro della tribù che aveva il carisma dell’unità; era di solito il parente più prossimo, il cui impegno era molteplice: dare una discendenza alla vedova, comprare le sue proprietà o rinunziare al suo diritto in favore del seguente familiare, riscattare a qualsiasi prezzo un familiare schiavo, ma soprattutto vendicare il sangue sparso di qualsiasi membro del clan. Il go’el era l’autentico liberatore e salvatore nell’ambito del gruppo. Potremmo dire che -teologicamente- la stessa figura di Cristo rappresenta il più grande dei go’el .

 

Perché tutta questa premessa, caro lettore? Per l’episodio orrendo di Cittadella, sintomo ed effetto di una situazione paurosamente scollegata tra i vari attori e oscenamente priva di una ragionevole regia possibilmente unitaria. Sintomo ed effetto di una crisi della struttura sociale, che più si specializza e meno riesce a com-prendere la complessità delle cose umane. Più si organizza e meno pensa, rappresentando un portato del più grave elemento critico che stiamo vivendo, più grave della stessa crisi economica, la crisi del pensiero pensante, causato dall’assenza di una visione filosofica integrata, della vita.

I soggetti sono tre o quattro: il bambino, i genitori, lo stato e i parenti.

Il bambino è vittima innocente, vive  con la madre, a lei si affeziona, anche per difendersi dal trauma psicologico della separazione, ma c’è qualcosa che non va, pare. Il padre ottiene di essere nominato dal Tribunale di minori genitore affidatario prevalente. E agisce chiedendo l’intervento dello “stato” (giudici, assistenti sociali, psicologi (?), polizia). Lo stato interviene dopo alcuni tentativi non andati a buon fine… e interviene dando spettacolo. Qualcuno filma e il tutto va insopportabilmente sulla rete.

Ha vinto il diritto richiesto da uno dei genitori e proclamato dal preposto, e il decreto è stato attuato. Nel modo peggiore, nel modo più inadeguato e violento. Vi sono addirittura denunce verso due parenti per resistenza a pubblico ufficiale.

In casi del genere c’è molto altro da fare, prima. Verificare le ragioni profonde del caso, riflettere e dialogare ad libitum con i genitori, usando non solo gli strumenti analitici e clinici, ma anche quelli relazionali (qualità del flusso logico delle persone coinvolte, capacità di dare adeguato senso morale alle loro proprie azioni, capacità conseguente di consiglio e scelta del bene maggiore, cioè la qualità di vita del bambino, e del conseguente male minore, cioè la soddisfazione per poteresene occupare direttamente, etc.), per giungere a una decisione che sia condivisa, anche se pur dolorosamente, e solo allora provare a parlare con il bambino, cui va dato tutto il tempo necessario per comprendere, non solo le spiegazioni degli adulti, ma anche le ragioni del suo cuore.

E, se del caso, non impuntarsi su un “diritto”, ma rispettare fino in fondo le ragioni di chi ha più diritti, il bambino.

 

 

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