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Libero arbitrio, Neuroscienze cognitive e Atti umani

Mi interessa qui riportare una breve nota di Francesca Cavallaro

Dipartimento di Filosofia – Università degli studi di Pisa

sul tema Neuroscienze Cognitive e Libero Arbitrio: modelli teorici e metodi sperimentali

Anche un tema filosofico classico come quello del libero arbitrio è divenuto, ormai da tempo, discusso oggetto della ricerca neuroscientifica. Grazie allo sviluppo delle tecniche di brain mapping e brain imaging, la speranza di riuscire un giorno a spiegare il funzionamento dei processi  mentali, si è sempre più saldata alla possibilità di “guardare dentro” la testa, che pensa, percepisce, decide. Da qui il moltiplicarsi di modelli neurali per le più disparate funzioni cognitive.

Il maggiore contributo delle neuroscienze cognitive al problema del libero arbitrio è riconducibile allo studio sui movimenti volontari nell’uomo del neurobiologo americano Benjamin Libet (B. Libet et al., 1983, Electroencephalography and clinical Neurophysiology, 56; B. Libet, 1985, Behavioural and Brain Sciences, 8). Studio su cui è ancora in corso un acceso dibattito.

Dopo aver individuato e preso in considerazione, attraverso registrazioni elettroencefalografiche, alcune costanti neurofisiologiche dei movimenti volontari autoiniziati (si tratta principalmente della differenza di potenziale detta Readiness Potential), Libet ha confrontato i dati EEG, relativi ai movimenti, con i resoconti introspettivi dei soggetti che avevano eseguito il movimento ed ha riscontrato che il tempo in cui i soggetti percepivano coscientemente l’intenzione di agire non coincideva affatto con il tempo di apparizione delle costanti neurofisiologiche. Mentre l’attività neurale segnalata dalla tecnica EEG aveva inizio circa 500 msec prima dell’effettivo inizio del movimento, la consapevolezza dell’intenzione di agire era segnalata dai soggetti solo 350-400 msec dopo l’inizio neurale inconscio. Una volta riscontrato questo ritardo, Libet ha concluso che al libero arbitrio non potesse essere più attribuito il ruolo di  promotore delle nostre azioni, bensì quello di semplice supervisore dell’azione.

Le conclusioni libettiane sono state spesso acriticamente accolte come punto di partenza per ipotesi di ampia portata nell’ambito della filosofia della mente, ipotesi soprattutto intese a spiegare non solo il ruolo della volontà nel processo intenzionale, ma anche fenomeni e aspetti  più generali della coscienza (Th. Bittner, 1996, Philosophical Studies, 81; D. C. Dennett and M. Kinsbourne, 1992, Behavioural and Brain Sciences, 15; M. Velmans, 1991, Behavioural and Brain Sciences, 14).

Tuttavia, attraverso un’analisi epistemologica degli esperimenti che Libet ha condotto, sono evidenti rilevanti problemi metodologici che rendono inattendibile l’impianto sperimentale stesso, ancor prima delle sue conclusioni.

Partendo da un esame dei limiti intrinseci alla tecnica elettroencefalografica ed al metodo dei protocolli verbali, sono evidenziabili, infatti, carenze interpretative e possibili artefatti, relativi ai dati raccolti da Libet, che mettono in luce problemi diffusi nella costruzione, nel controllo e nella falsificazione di modelli neuroscientifici di capacità cognitive “alte”.

Le principali obiezioni relative alla registrazione EEG del Readiness Potential (RP) e all’identificazione di questo con l’inizio inconscio dell’azione volontaria sono:

            un uso esclusivo della tecnica EEG nello studio del RP;

            un uso inadeguato della tecnica EEG, che impedisce un’accurata analisi delle differenti           componenti del RP;

l’esistenza di probabili artefatti nelle registrazioni EEG.

Circa l’impiego di resoconti introspettivi dei soggetti e il tentativo di effettuare un’operazione di timing in modo da individuare un preciso momento di consapevolezza dell’intenzione di agire, le obiezioni possono essere così sintetizzate:

            una mancata considerazione del problema della divisione dell’attenzione del soggetto   ed il conseguente formarsi di uno shift temporale, ineliminabile, relativamente           all’oggetto dell’attenzione del soggetto stesso;

            la concreta possibilità che le risposte dei soggetti possano essere influenzate da           condizionamenti dello sperimentatore;

            la possibilità che il numero elevato di prove richiesto ai soggetti abbia trasformato il     movimento volontario in un automatismo.

Si esaminano, inoltre, altri modelli funzionali del Readiness Potential (L. Deecke et al., 1998, Current Progress in Functional Brain Mapping Sciences and Applications; M. P. Deiber et al.,1999, Journal of Neurophysiology; P. Haggard et al., 2002, Nature Neuroscience; J. Miller, J. A. Trevena, 2002, Consciousness and Cognition; J. R. Pedersen et al., 1998, Neuroimage; etc.) discutendone la coerenza con i dati libettiani, le previsioni empiriche che ne discendono e possibili esperimenti cruciali che consentano di scegliere tra modelli alternativi.

Quale ulteriore argomento contro le conclusioni libettiane, infine, viene fatta menzione anche della attuale ricerca neuroscientifica relativa ai correlati neurali della decisione (J. I. Gold and M. N. Shadlen, 2003, The Journal of Neuroscience, 23; M. L. Platt, 2002, Current Opinion in Neurobiology, 12; etc.).

 Aggiungo alla riflessione della Cavallaro alcune considerazioni: leggo sulla stampa locale di questi giorni che i legali di un uxoricida stanno chiedendo a un noto neuropsichiatra di applicare il  paradigma (di cui sopra), qui denominato “lie-detection” o “memory-detection”, in base al quale sarebbe in qualche modo plausibile ipotizzare che l’origine di certi comportamenti violenti sia genetica. Si ha notizia che tale metodologia abbia già fatto ottenere degli “sconti di pena” ad altri autori di omicidi, anche efferati. Non si tratta infatti in questo caso di diagnosi di tipo psicologico o psichiatrico atte a definire una condizione oggettiva di incapacità di intendere e di volere: si tratta di un processo che si propone di esaminare la “macchina biologica umana” al punto da poter stabilire se, quanto e come la macchina stessa sia deterministicamente condizionata.

Nulla avendo da dire sull’utilità del progresso scientifico, al contrario, segnalo solamente il rischio che, se non vigilata, la strada di una ricerca che sottolinei prevalentemente – se non, Dio non voglia, esclusivamente – gli aspetti biologistici dell’umano possa proporre un progressivo indebolimento del senso e del significato reali di “libero arbitrio”, e dunque della stessa libertà delle azioni umane, con pregiudizio radicale della stessa condizione di possibilità di un’Etica fondata su basi solide.

Se l’uomo è un animale autocosciente e quindi non determinato propriamente solo dalla sua natura di grande primate, non gli può essere tolto proprio ciò che lo contraddistingue per essenza.

La libertà è proprio ciò che ci differenzia irriducibilmente dagli altri animali.

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