Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Identità e Solitudine

 

 

Giovanni Duns Scoto nelle lezioni oxfordiane sostenne che l’uomo, come persona, ratio vivens, è l’ultima identità dell’essere, ultima nel senso di estrema, eccelsa sotto il profilo del terreno e dell’umano, e che solitudine è “essere solo e per una sola volta” a questo mondo, specie in punto di morte, quando Dio solo, che è un Qualcuno, sta con il morente, solo con solo.

I parenti cercano di consolarlo, se capisce ancora qualcosa, se è presente un poco alla coscienza, o almeno di tenergli la mano, con il linguaggio antico e immortale del corpo, che riempie le distanze del linguaggio, non avendo bisogno della mediazione dei simboli e dei semantemi. Una mano è messaggio senza mediazione, il suo calore è linguaggio senza traduzione o interpretazione.

A me è capitato negli ultimi giorni suoi di vita, con mio padre, che aveva perso la coscienza, ma non del tutto, e quel frammento che gli era rimasto serviva a riconoscermi da remote lontananze. Mi pareva perfino che gli comparisse in volto l’ombra indefinita di un sorriso, quasi a dirmi “Stai tranquillo, me ne sto andando, ma me la caverò …”. E poi il buio e chissà, dopo.

E con mia madre che mi aspettò, una lontana domenica di maggio, aspettò che tornassi, ricordo, da Gaeta, dove mi trovavo per lavoro, e mi riconobbe emergendo dal torpore degli ultimi momenti, e stette con me più di un’ora, prima di andare via. Fece in tempo a sussurrarmi una raccomandazione, che conservo come un tema privatissimo e assoluto, incomunicabile ad alcuno, perché riguarda solo il rapporto che io ho con me stesso, e che lei conosceva bene, non per un sapere dedotto, ma come per un’intuizione atemporale, forse una precomprensione previa ad ogni riflessione.

L’uomo è assoluta identità, e in quanto tale è solitudine, ma è anche relazione. E il rapporto fra identità e relazione si gioca in ogni momento all’interno dell’uomo stesso, fra l’io e il sé, ma più profondamente ancora di come sembra proporre il dottor Freud. Non si tratta solo di azzardarsi ad esplorare le talora melmose profondità dell’inconscio, ma di vedersi in faccia, allo specchio, come “narcisi” coraggiosi, che osano guardarsi guardare, torvi, e indefinitamente incerti al da farsi. Muti.

E’ unicità filogenetica e solitudine incomunicabile. Viene l’uomo-persona dal nulla, e sta nel mistero, nel senso di un qualcosa che, all’inizio nascosto, si di-svela lentamente: la vita è mistero, nel senso che deve essere scoperta come in una filigrana nascosta, da mostrare lentamente alla luce, per vedere il trasparire del senso di un qualcosa. Essa mostra segnali deboli di senso, prima oscuri, poi sempre più chiari ed evidenti, come in una trasparenza epistemica, metafisica. Il mistero non è sdilinquimento teologico, né pressappochismo cognitivo, il mistero non si approccia con l’ideologia né con le dichiarazioni d’intenti, buone per tutte le stagioni, soprattutto se politicamente corrette. Esso sta da tutt’altra parte, con buona pace degli incliti e dei paracliti della confusion teoretica.

Anche questo venire dal nulla è in perfetta solitudine. A nessuno viene chiesto se desideri venire al mondo. Nessuno ha la libertà di acconsentire o viceversa, e codesto paradosso rappresenta la radicale im-possibilità di una libertà non condizionata, ad esempio, in questo caso, al possesso della ragione stessa, nella sua integralità, cioè la ragione dell’essere umano adulto.

Ma oramai, l’adultità ha già portato l’uomo dalla condizionatezza radicale e dal limite estremo dell’inesistenza, ad una certa incondizionatezza e ad altri e consapevoli limiti, quelli dell’essere venuto al mondo.

La struttura di personalità dell’umano, alimentata dal patrimonio genetico, dall’ambiente vitale e dall’educazione è già emersa rendendolo evidentemente e certamente unico, irripetibile e “solo” nella sua identità insopprimibile.

Egli è solo e identico a se stesso, ed è chiamato a dialogare con se stesso, dalla sua riflessione cosciente e dai principi che egli sente profondamente insiti nella interiorità stessa. “(…) noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”, non voler andare fuori, rientra in te stesso, (ché) nell’interiorità la verità è di casa, così Agostino di Ippona nelle Confessiones, così la nostra intuizione dialogante.

Identità è il dialogo tra un io e un sé che si compone come nel respiro e nella ritmica cardiaca.

Identità non è sovrapponibilità di contorni e di immagini, ma è l’uscita da un io per conoscere, e un rientro nel sé per consolidare l’appropriazione conoscente dell’altro conosciuto.

Il guardarsi dell’uomo è l’esatta specularità del “vedersi visto” di Dio, è il contorno che circonda il determinato, in attesa che appaia anche l’inevidente, l’incondizionato.

Quindi, non illudiamoci né illudiamo nessuno circa la possibilità di esistere solamente nello scambio tra un io e un tu che sia altro da te. Esistiamo certamente anche per ciò, sed primo et per se (ma primariamente e di per sé) perché dialoghiamo al nostro interno, soli.

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