Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il potere della parola

Da quando l’uomo ha l’uso della parola, si è creato un sistema informativo complesso, che può anche essere elemento di disinformazione gravissima. Un esempio: tutti o quasi ritengono che il maggior fattore di inquinamento di mari e oceani sia lo sversamento di idrocarburi da parte delle petroliere, di navi in avaria o naufragate. Niente di più falso! Lo sversamento di idrocarburi costituisce solo il 2% delle sostanze inquinanti, mentre il 98% è costituito dai fumi di combustione delle grandi navi da crociera e delle decine di migliaia di carghi che solcano le acque marine. Il confronto con le emissioni dei mezzi di terra, auto e camion, non regge, perché questo è infinitamente minore, ragion per cui molta parte delle cause dell’effetto serra è da attribuirsi ai mezzi marini. E’ solo un esempio di come la parola “giornalistica”, magari non sufficientemente documentata, può fare danni inenarrabili e politicamente pericolosi, oltre che eticamente infondati. Basti pensare all’informazione politica e all’uso che dell’argomento fa correntemente.

Il ruolo formativo della parola è fuori discussione. La parola “forma” le persone, nel senso che serve a tutto il processo di crescita culturale e addestramento al lavoro dell’uomo: la parola è lo strumento principale che si usa nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università. I testi e le lezioni sono fatti di parole, che possono essere adeguate ed efficaci o anche no. Vi sono infatti molti testi scolastici e universitari non redatti con principi didattici corretti ed efficaci, ma spesso o troppo difficili e astrusi (consultare per credere alcuni testi attuali di storia dell’arte per i licei, che neanche Sgarbi…), o costruiti in funzione dei loro redattori ed editori. Se entriamo nel tema dell’insegnamento, la maggior parte dei professionisti che vi si dedicano, maestri e professori di tutti i livelli, raramente possiedono una formazione didattica, per cui erogano sempre i saperi disciplinari a modo loro, e spesso con metodiche improvvisate e inefficaci. Certo è che lo status sociale degli insegnanti, a eccezione degli ordinari accademici, in questi ultimi decenni si è molto ridotto in termini di prestigio, ma questa non è una ragione o spiegazione sufficiente della mediocrità di molta parte dell’insegnamento.

La parola ha anche una efficacia performativa, cioè di cambiamento. Le parole sono pietre, nel senso che hanno un peso, valgono come un’esperienza vitale nei rapporti tra le persone. Per questo la parola va rispettata nella sua essenza etimologica, nella sua potenza semantica, nella sua efficacia espressiva. Come un apprezzamento nei confronti di una persona costituisce elemento di rinforzo e motivazione positivi, così l’insulto gratuito è inammissibile, violento e meritevole di ogni censura. Non si può insultare ingiustamente un uomo o una donna e poi fare finta di niente, così come non si può dire a un lavoratore “non capisci mai un cazzo” e poi sperare che il suo senso di appartenenza all’azienda rimanga positivamente inalterato. La parola cambia la vita, cambia le vite delle persone.

La parola può essere stonata e cacofonica fino allo iato, cioè fino alla sgradevolezza insopportabile. Bisogna avere cura delle parole, della loro armonizzazione, della correttezza del discorso, nell’uso dei verbi e della consecutio temporum. Non è banale curarsi dell’uso del congiuntivo nelle frasi esortative ed ipotetiche, nella sua connessione con il condizionale, invece di risolvere tutto con banalissime verbalizzazioni all’imperfetto. Manca tempo per coniugare bene i verbi? No, è solo pigrizia. Se si deve dire “se avessi saputo che non ci saresti stato non sarei venuto“, questa espressione non può essere scambiata con un banale “se sapevo che non c’eri non venivo“. Con quest’ultima versione della frase si guadagna un nanosecondo, a chi? alla bruttezza espressiva!

La parola usata malamente genera il il fraintendimento. Se non c’è la pazienza dell’espressione il nostro interlocutore spesso non comprende, non capisce quello che vogliamo dire. La fretta ci porta a semplificare i concetti, saltando passaggi logici fondamentali per consentire un normale sviluppo del dialogo e della conversazione. Avere cura dei termini che si usano non ha nulla a che vedere con la pedanteria, ma è semplicemente rispetto per la storia lunghissima del linguaggio e delle parole, che vengono da lontano, da altre lingue come, nel nostro caso, dal sanscrito, dall’indoeuropeo, dal greco e dal latino, e di queste conservano tracce profondissime nelle radici etimologiche e nella semantica.

La parola usata incautamente genera l’incomprensione, e quindi rovina i rapporti umani, proprio perché la parola ha un suo pondus naturale, cioè un peso significante ineluttabile, ineliminabile, inesauribile. Guai sottovalutare il potere della parola, pensando che “verba volant e scripta manent“, cioè le parole si volatilizzano e gli scritti rimangono. I nostri padri ritenevano la parola data più forte di un contratto scritto, cosicché siamo noi oggi responsabili incauti di una banalizzazione del valore della parola. In realtà, la parola, una volta proferita, diventa immortale, perché nessuno (neppure Dio) può annullarla, e quindi opera nel tempo e nella psiche umana per sempre, il sempre della vita umana e della storia. Bisogna fare attenzione a quello che si dice, perché quello che si dice, dice molto, se non tutto, di noi, nel bene e nel male.

La sottovalutazione del potere della parola è pericolosissima, perché è come se sottovalutassimo la nostra stessa umanità: noi siamo animales loquentes, homines loquentes, siamo del parlanti, e questo parlare, il linguaggio, ci differenzia da tutti gli altri animali. Sottovalutare la parola è come sottovalutare la nostra stessa umanità. Assurdo e pericoloso, oltre che molto stupido.

Con la parola si innesca il procedimento della persuasione. La parola è preziosa, poiché con essa possiamo persuadere senza manipolare, possiamo consigliare, consolare, rinforzare una persona in stato di disagio, possiamo aiutare e farci aiutare quando abbiamo bisogno noi di essere aiutati.

L’arte della parola è classicamente la retorica, che non va intesa come lo sproloquio politico-giornalistico attuale, ma come arte del ben dire, con grazia ed efficacia quello che dobbiamo dire, sia un ragionamento, sia un discorso, sia una lezione, sia una riflessione teorica o un consiglio pratico.

La parola connessa alle altre può generare un gap interpretativo: bisogna stare molto attenti a come si imbastiscono i discorsi, tenendo conto innanzitutto del contesto, cioè delle persone presenti, e anche degli obiettivi che ci si prefigge, sempre nel rispetto degli altri, e ricordandoci sempre dei nostri limiti umani ed espressivi.

La non condivisione delle accezioni terminologiche causa conflitti e dialoghi confusivi: è molto importante mettersi d’accordo sull’accezione che si dà alle parole, ai termini, altrimenti la confusione delle accezioni crea danni a volte irreparabili. “Io pensavo che tu volessi dire questo…” “Ma no, io intendevo quest’altro…” e così via, dando inizio al circolo vizioso e all’ammalamento della comunicazione (cf., tra altri testi, Pragmatica della comunicazione umana, Paul Watzlavick, Astrolabio, Roma 1980).

Il retaggio culturale ha a che fare con l’uso della parola. Ogni territorio, regione, nazione ha un suo rapporto con le parole; le lingue del mondo, che rappresentano i vari mondi esistenziali, sono migliaia. Non tenerne conto pensando che la propria lingua, e quindi le parole che si usano siano universali per senso e significato, è un grave errore, foriero di conflitti e, come la storia racconta, anche di guerre sanguinose.

L’esperienza della parola è l’esperienza stessa della vita umana, dal pensiero allo scritto, rappresentando la manifestazione più alta degli esseri umani. Occorre fare un viaggio nel tempo della parola per coglierne tutta la sua ricchezza, quando è capace di spiegare ciò che è complicato e di interpretare ciò che è complesso, a volte inestricabile, quasi indicibile. Infatti in parte la parola non riesce a rappresentare tutta la realtà in quanto tale. Kant direbbe che la parola racconta il “fenomeno”, cioè ciò-che-appare, non mai il “noumeno”, vale a dire ciò-che-è-in-sé-e-per-sé. La realtà sfugge sempre nella sua verità intrinseca, e si manifesta solo in parte.

Per questo la verità è la più elevata manifestazione del bene stesso, nella differenza irriducibile di ciascuno, che è esplicitata nella parola…

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