Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

1968/2018… senti l’estate che torna

Cinquant’anni fa, in pieno ’68 Le Orme di Tagliapietra e Pagliuca nel ’68 cantavano così:

“Su spegni quel fuoco ti prego/ L’inverno è un ricordo lontano/ Stasera non sento più freddo/ Stammi vicina dammi la mano/ Stasera ti vedo diversa/ I tuoi occhi hanno un altro colore/ In strada c’è aria di festa/ Ora la gente, pensa all’amore

Senti l’estate che torna/ Senti con tutti suoi sogni/ Senti l’estate che torna/ Tra noi

Il vento del nord se ne è andato/ E lascia nell’aria un sapore/ Di cose lasciate al passato/ Senza rimpianto/ Senza dolore

Senti l’estate che torna/ Senti con tutti suoi sogni/ Senti l’estate che torna/ Tra noi.”

Era un pop non ancora progressive, prima della fine dei ’60, quando speranze e illusioni erano quasi tutt’uno per i ragazzi del tempo. Liceali, aspiranti periti, geometri o ragionieri, o già giovani operai che fossero. Albe radiose sembravano prepararsi per quella generazione, così piena di promesse per quei tempi, così pieni di ansia di cambiamento, così piena di gioia.

Il ’68, mitizzato, lodato e vituperato, tradito, illusore e portatore di sogni. Controverso. Le Orme erano un gruppo musicale capace di rappresentare bene quella temperie, così come i Pooh erano già la bandiera musicale del sentimento amoroso nazional-popolare, e i Nomadi di quello politico e sociale.

Non si sapeva bene dove si stava andando a parare, salvo che era chiara una  cosa: non si accettava più il diktat dell’obbedienza a scatola chiusa, acritica, del “fai come ti dico io, perché te lo dico io“. Era la lotta contro ogni tipo di autoritarismo, in famiglia (la figura del padre), in fabbrica (la figura del padrone), in chiesa (la figura del prete), a scuola (la figura del professore). Quattro “p” per dire potere.

Era la lotta contro quattro figure che rappresentavano l’autorità costituita nei vari settori della vita umana, autorità spesso quasi assoluta, e fomite di reazioni forti, di ribellione e di malcontento. In questo senso il ’68 è stato salutare, perché negli anni successivi qualcosa è avvenuto: per quanto riguarda il padre il nuovo Diritto di famiglia ha sancito la parità tra i generi dei genitori; circa la fabbrica lo Statuto dei diritti dei lavoratori ha riequilibrato i “poteri” tra datore di lavoro e lavoratori; per quanto concerne la chiesa è stato il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo a mettere al centro, oltre alla gerarchia (immarcescibile), i fedeli, cioè il “popolo di Dio” (cf. Lumen Gentium 1); infine, per ciò che attiene la scuola, beh qui non saprei, perché quello che è successo dopo non è molto lusinghiero. Infatti, forse è da qui che dovremmo partire per criticare utilmente il ’68.

Se gli aspetti politici, giuridici, sociali e del costume apportati dal ’68 sono stati di gran lunga positivi, il suo profilo filosofico merita, a mio parere, una critica radicale. Infatti, se è stata giusta e sacrosanta la critica dura e vincente all’autoritarismo, sbagliata, improvvida e intellettualmente debole è stata la critica alle dimensioni concettuali della conoscenza e su ciò, per non creare equivoci, mi spiego meglio. Certamente non è in questione il discorso della ricerca scientifica, che è andata e va utilmente avanti, ma il discorso sulla logica argomentativa, tipica del pensiero riflettente. Anche a causa delle riforme scolastiche, che hanno disgraziatamente semplificato oltremodo i corsi curricolari, anche universitari, è andato in crisi nientemeno che il pensiero, che si è progressivamente disabituato al concerto cognitivo costituito dalle due fasi, quella intuitiva, induttiva, eidetica e quella deduttiva, sillogistica, argomentativa.

Oggi si è diventati tutti troppo sbrigativi, non avendo più la pazienza discorsiva della ricerca umile e paziente di ogni “verità locale” (Zampieri) che plausibilmente si ponga davanti all’intelletto raziocinante.

E dunque si assiste a prese di posizione socio-politiche spesso insensate, proposte sul web senza ratio e senza rispetto per i saperi, urlata sui media e nei talk show dal primo che passa di lì, orecchiata da politici ignoranti e altrettanto arroganti, accettata per stanchezza (se non per altro) da un pubblico estenuato.

Ecco perché la canzone delle Orme, il cui testo apprezziamo più sopra è come un auspicio: che ritorni l’estate del ’68, cioè la sua parte migliore, a scaldare i nostri cuori e a illuminare le nostre menti.

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