Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Karl Jaspers vs. Martin Heidegger, in excelsis philosophia perennis!

« Da sempre – scrive Jaspers- i filosofi tra loro contemporanei si incontrano in alta montagna, sopra un vasto altopiano roccioso. Da lassù lo sguardo spazia sulle montagne nevose e ancora più in basso sulle valli abitate dagli uomini e sull’orizzonte lontano e in ogni dove sotto il cielo. Là, il sole e le stelle sono più lucenti che in qualsiasi altra parte. E l’aria è talmente pura che dissolve ogni opacità, talmente fredda che non lascia levarsi alcun fumo, talmente limpida che uno slancio del pensiero si diffonde in spazi immensi. […] Oggi sembra che su questo altopiano non ci sia nessuno da incontrare. Ho avuto l’impressione […] di incontrarne uno soltanto e – tranne lui – nessun altro. Quest’uomo però è stato un mio cavalleresco avversario: le potenze che noi servivamo, infatti, erano irriducibili tra loro. Presto apparve evidente che noi non potevamo affatto parlare uno con l’altro. E così la gioia si trasformò in dolore, un dolore particolarmente inconsolabile, come se si fosse perduta una possibilità che sembrava prossima, a portata di mano. Così è andata tra me e Heidegger. Per questo trovo insopportabili, senza alcuna eccezione, tutte le critiche che egli ha subito: lassù, infatti, su quell’altopiano, non avrebbero trovato posto. Per questo vado alla ricerca della critica che diventa reale nella sostanza del pensiero stesso, alla ricerca della lotta che rompe l’assenza di comunicazione dell’inconciliabile, della solidarietà che lassù – trattandosi di filosofia – è ancora possibile anche tra chi è più estraneo. Una critica e una lotta intese in questo senso sono forse possibili, eppure vorrei, per così dire, tentare di catturarne l’ombra »
(K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger. Monaco, Zurigo, Piper, 1978, pp. 263-4. Cit. in Volpi Guida a Heidegger, p.45)

 

Per me pure il pensiero umano si libra altissimo sopra le cose del mondo, anche se i biologisti pensano che sia una mera produzione bio-elettrica dell’encefalo. Lo sia pure, ma ciononostante è capace di accedere a concetti meravigliosi, quello di Bello, di Bene, di Verità, … di Dio, e poi di proporre riflessioni logiche, e racconti di emozioni, di struggimenti dell’anima, è capace di condividere spazi con altri pensieri, o di discutere dialogando, è capace di proiettarsi in avanti e indietro, accettando il cambiamento e anche generandolo. Altissime sono le sue prerogative, come Jaspers dice con afflato poetico nella metafora della montagna.

Ho voluto riportare questo testo perché i due pensatori si stagliano nella storia filosofica del ‘900 in modo particolare e solenne. La ricerca sul senso e sui significati della vita umana e delle cose è il focus perenne della filosofia, che fa premio su qualsiasi differenza teoretica, come provo a mostrare in seguito citando un paio di estratti di brani miei sui due filosofi, pubblicati su Sacra Doctrina nel 2016.

 

(Jaspers)

“(…) La scienza e ogni ermeneutica per Jaspers falliscono sempre, quando pretendono di conquistare la conoscenza del tutto, senza una “metafisica del tutto”, l’unica conoscenza che può inglobare un sapere che non si chieda costantemente quali sono i suoi limiti, lo stato delle cose, il che-cosa-per-chi.[1]

Jaspers ritiene che la conoscenza delle cose e del mondo debba essere freilassen, “libera di esprimersi” nel percorso della ricerca individuale e quotidiana. Non vi è dunque altra via della conoscenza, e specialmente dei fatti che fanno la storia dell’uomo che l’ermeneutica, come approccio -nel contempo umile e altrettanto pieno- della speranza di una possibilità di comprensione. L’Uno che tiene insieme il Tutto, però, in un certo modo è indivisibile, perché i nessi e le relazioni della sua complessità ne impediscono la completa ed esauriente disamina e spiegazione. Anzi, al contrario, ove fosse plausibile e possibile una totale spiegazione della totalità e della sua complessità, ciò sarebbe un impoverimento della conoscenza.

Una parte della possibilità di conoscenza appartiene in qualche modo a una specie di dimensione praeter-razionale, vale a dire non completamente accessibile alle facoltà cognitive. Infatti tutto appartiene all’infinito, a una dimensione mai completamente accessibile all’uomo, rimanendo sovrabbondante e al di là di una soglia impenetrabile che altri -ma non Jaspers- chiamano talvolta mistero. Potremmo dire: la complessità di questa totalità in qualche modo corrisponde concettualmente al termine inconscio,[2] in quanto luogo e modo della realtà stessa dell’esistere soggettivo, ma che si dà solo al di fuori del flusso cosciente e conoscibile della realtà della veglia. E i “nessi” che tengono unita la complessità come “Totalità” sono il luogo ove risiede la densità inaudita del limite della comprensione umana.

L’ermeneutica, per Jaspers, è la via della comprensione fiduciosa, e perciò stesso l’atteggiamento capace di accettazione del limite intrinseco alla stessa condizione umana e alla sua possibilità di intelligenza delle cose e del mondo. La grenz Situazion è lo stato umano reale, in tutta la sua crudezza e ineluttabilità:

 

«L’angustia della situazione reale dipende dalla resistenza che essa oppone, e come tale essa limita la libertà ed è legata a possibilità limitate»[3]

 

In Jaspers troviamo una consapevolezza del limite, anche se senza cedimenti a un anelito teso verso l’insopprimibile esigenza dell’uomo di conoscere sempre più il senso del suo stesso vivere e del suo comprendere la vita e le cose del mondo. In questo senso e modo Jaspers si pone quasi come un ulisside eterno o redivivo. Il carattere apofatico della ragione, il suo essere quasi una dimensione praeter-razionale del pensiero logico-argomentativo, somiglia quasi al mare oceano che la accoglie indefinatamente disponibile, anche se presago di pericoli non del tutto visibili all’orizzonte, ma ben presenti al cuore dell’uomo.

Con Jaspers si manifesta in modo originale l’inquietudine del nostro tempo: in lui la dialettica platonica[4] si fonde all’anelito incerto ed infinito dei tempi, tempi nei quali si registra il tramonto di ogni apodittica certezza, e il dramma di un futuro in cui la speranza è intrisa di foschi presagi, che però non la annichiliscono mai. Con Platone Jaspers ha in comune la consapevolezza che la ricerca della verità resta per l’uomo un’impresa in-finita, accompagnando l’umana esistenza senza mai giungere a una meta, che non sia anche una ulteriore stazione di partenza, un’ulteriore prospettiva della ricerca: una sorta di inquietudine della “navigazione” accompagna il pensiero di Jaspers, consapevole della complessità nella quale l’essere si pone, non tanto come manifestazione o di-svelamento di tipo heideggeriano, ma come itinerario diuturno e faticoso e, in fondo, platonicamente dialettico.”

 

[1] Cf. Ibidem , PH III, [Philosophie], cit., in particolare da 676 a 727.

[2] Che Jaspers mutua dalle teorie freudiane, avendole frequentate con intensità.

[3]Jaspers K., ‘Situazione limite’, [Philosophie], cit., 687.

[4] Jaspers K, I Grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, 326: “Platone è il fondatore di ciò che soltanto da lui in poi porta il nome di filosofia nel senso pieno. Intendere Platone non significa commisurarlo a un concetto precedente di filosofia, ma farne misura di valutazione di ciò che è venuto dopo di lui e di se stessi, sia che lo si segua, sia che si facia qualcosa di completamente diverso”.

 

(Heidegger)

(…) Come il Da-sein è dinamico, e l’interpretazione è sempre rivolta in-avanti-a-sé-essendo-già-in [nell’avvenire], così il linguaggio dell’espressione poetica e artistica è un “linguaggio ontologico”, perché esprime l’uomo nella sua totalità esistenziale e ontica [cioè relativa al suo “essere ente”].[1]

La filosofia, come la poesia, è un pensiero poetante mentre è pensiero pensante. La verità si manifesta attraverso il linguaggio e tutte le sue figure, a partire dalla metafora, che dà respiro al pensiero, come ossigeno spirituale, e in tutte le stratificazioni polisemiche della parola. Ogni parola interpella la totalità, ogni parola rinvia ad altro, come l’io al tu, simboleggiando[2] indefinitamente lo scivolamento dei significati e dei sensi nei contesti infiniti, e negli ambiti di ricezione del messaggio. Metalinguaggio e linguaggio si intersecano e si aiutano, esigendo un rigore distintivo nella scelta dei termini, ma lasciando nel contempo una grande libertà all’ermeneuta, all’interprete, al lettore-ascoltatore. Occorre distinguere per unire, occorre separare per collegare. Il rapporto esistente fra pensiero e linguaggio si raccorda per Heidegger in una sorta di ontologia ermeneutica.

La poesia [Dichtung] è l’essenza di tutte le arti,[3] poiché creare, escogitare, inventare è un insieme di significati del verbo tedesco dichten:

 

«La verità, come illuminazione e nascondimento dell’ente, accade in quanto gedichtet, poetata».[4]

«L’opera d’arte linguistica, la poesia in senso stretto, ha una posizione peculiare nell’insieme delle arti».[5]

 

Il linguaggio rende manifesta la stessa struttura della mondità [cioè dell’essere del mondo]. La precomprensione dell’essere stesso, per Heidegger si concreta di fatto nel linguaggio,

 

«Dove non c’è linguaggio non c’è nessun aprimento dell’ente […]. Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accadere alla parola e all’apparire».[6]

 

Il linguaggio è essenzialmente poesia, e dunque è sempre indefinitamente e inesauribilmente simbolico. Anche se non ogni parlare è creazione, perché la comunicazione si limita ad un agire dentro una feritoia già aperta dal linguaggio. L’uomo, inoltre, è Gesprach [dialogo], poiché se l’uomo dispone del linguaggio a sua volta quest’ultimo dispone dell’uomo, perché l’uomo “vi nasce dentro”. L’uomo è così un messaggero, un “Hermes” del linguaggio.

L’apertura alla verità è sempre di carattere linguistico:

 

«La presenza [l’essere delle cose] è, come presenza, un presentarsi di volta in volta all’essere dell’uomo, in quanto è un appello [Geheiss] che di volta in volta chiama l’uomo. L’essere dell’uomo è, come tale, ascoltante, perché è sottoposto all’appello che lo chiama, alla presenza. Questo sempre identico, questa coappartenenza [Zusammengehören] di chiamata e ascolto, sarà dunque l’essere?».[7]

 

L’ermeneutica è anche un pensiero dell’essere. Se l’evento [Ereignis] dell’essere, sostiene Heidegger, si dà nell’unità di appello e risposta, allora sarà nel linguaggio inteso assolutamente [e non come strumento della comunicazione] che si dovrà intendere il darsi dell’essere stesso. Heidegger giunge ad un’ermeneutica ontologica o ad una ontologia ermeneutica. Le cose sono da comprendere nelle parole o nella Parola, in ragione della quale ad essa bisogna riferirsi. In quest’ambito il filosofo tedesco propone il termine Geviert [quadrato], per tentare la rappresentazione delle quattro dimensioni dell’essere, le due appartenenti alla mondità, e le due della divinità: la terra e i mortali, il cielo e i divini. Sintesi delle dimensioni dell’apertura del Sein, il Geviert. E, in questo contesto, è la parola che be-dingt, rende cosa la cosa [Ding].[8] Le cose, i fatti, ogni evento [Ereignis] appaiono dunque attraverso la parola, trascendendo ciò che si intende correntemente, e dunque risalendo a ritroso per le rive del significato originario, dell’etimo, fino al fonema fondante.

Il pensiero è ermeneutica pura, perché è in ascolto del linguaggio. E lo è, almeno a partire dal significato che diede a questo termine Schleiermacher. L’interpretazione, in questo senso, altro non è che risalire dal segno al significato. È l’ermeneutica che permette in qualche modo di superare, quello che dice principium reddendae rationis, e di collegare gli spazi vuoti che si aprono fra l’essere e il nulla, o fra l’ente e il ni-ente, posti ai limiti della percezione e delle possibilità di conoscenza.[9] Specialmente quando questa conoscenza approccia il linguaggio, sia come detto sia come scritto. Heidegger chiama questo tipo di interpretazione Er-örterung, cioè il luogo-dove-la-Parola-risuona.[10]

 

«Che cos’altro è leggere se non raccogliere:[11] raccogliersi nel raccoglimento in ciò che, in quel che è detto, rimane non-detto?».[12]

 

Perché il totalmente esplicitato è chiuso nel Grund, nel fondamento, e non tra più spazi per dire altro da quello che si può dire. Accanto alla parola, per Heidegger così simbolicamente infinita, bisogna che trovi spazio il silenzio e l’ascolto del silenzio. I silenzi sono il luogo più profondo che risponde al parlare e allo scrivere dell’uomo.[13] Solo il pensiero ermeneutico può soddisfare l’esigenza di conoscenza dell’alterità che muoveva la metafisica classica stessa, sul cui versante talora essa stessa rimaneva muta. Leggiamo ancora qualche passaggio.

 

«Che il linguaggio diventi solo a questo punto oggetto del nostro esame deve far capire come il fenomeno linguaggio abbia le sue radici nella costituzione esistenziale dell’esserci».[14]

«Il discorso è articolazione ‘significante’ della struttura comprensibile dell’essere nel mondo».[15]

 

Per Heidegger occorre por fine a “una certa metafisica” che separa, per apprendere una metafisica nella quale l’essere e l’ente siano ricompresi nella realtà dell’esser-ci [Da-sein], di cui il linguaggio e l’applicazione ermeneutica dell’esegesi, siano i mentori principali. Ma su questo punto il pensiero heideggeriano resta in qualche modo ambiguo, irrisolto, aporetico. Heidegger non imbocca la via dell’analogia di stampo tommasiano, preferendo affidarsi a un modo espressivo che evoca il primo manifestarsi dell’essere, cioè la poesia, così permanendo al di qua della divisione tra soggetto e oggetto, origine del pensiero greco classico. Il senso che in ogni caso si annuncia non è disponibile, così come la verità non è più adaequatio intellectus et rei, bensì di-svelamento [α̉λήθεια], apparizione.

Per Heidegger, se non si può dare una definizione oggettiva del tempo, e quindi della distanza insuperabile costituita dalla diacronia delle storie umane, e tra i vari autori e lettori, si può però ritenere il linguaggio come sorta di orizzonte che accomuna ed entro il quale si opera e opera l’essere: ma il linguaggio e l’interpretazione non si possono trattare in qualsiasi modo, perché costituiscono aperture o almeno interstizi tra i quali passa la nostra esperienza, la nostra esistenza, e passiamo noi come enti-che-sono-lì, gettati nel mondo. Essere e linguaggio appartengono alla stessa verità [α̉λήθεια], alla medesima ontologia, poiché nel linguaggio troviamo libertà, pur se vincolati alle regole dell’etimologia, della sintassi e della grammatica, ma una libertà che trova i suoi confini nell’essere rivelabile per mezzo del linguaggio. Non è possibile l’arbitrio in questo campo, essendo questa libertà una dimensione comunque bisognosa di un’illuminazione, quella dell’essere che dobbiamo custodire con cura.

[1] Heidegger afferma che la verità dell’essere è, in greco, a-lètheia, cioè non-obliamento o disvelamento manifestato tramite il linguaggio umano:

«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora» [Sein und Zeit, Essere e Tempo, 157].

La questione dell’essere [Seinfrage] come linguaggio [sapere ontologico] differenzia la questione dell’essere come esistere [sapere ontico o esistentivo], che va considerato nel tempo. Ancora Heidegger:

«Ciò che determina ambedue, essere e tempo [Sein und Zeit, cit., 198], in ciò che è loro proprio, cioè nella loro coappartenenza, noi lo chiamiamo Das Ereignis [l’Evento]”.

Vale a dire che è-in-ciò-che-accade che avviene la conoscenza della verità. E in ambito etico: «Se in conformità al significato fondamentale della Parola ethos, il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno [terreno] dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere […] è già in sé l’etica originaria” [Sein und Zeit, cit., 203]. Il filosofo tedesco vuol dire che l’uomo è valore-in-sé, non valore derivato, come vogliono altre prospettive. Infatti, secondo lui Genesi [1, 27] conferma ciò con più forza, presentando l’uomo come immagine del divino.

Dunque, l’uomo deve porsi davanti all’essere rispettando e coltivando il linguaggio, rifuggendo la sciatteria e l’approssimazione, il pressapochismo e l’illazione, ponendosi in una situazione di ascesi [gr. àskesis, che vuol dire letteralmente “esercizio”], di raccoglimento-che-lascia-essere [Gelassenheit], ma avendo presente il rischio di un ottundimento che oggi può essere causato dalle tecnoscienze e dalla sottovalutazione della crisi cognitiva ed etica in atto.

 

[2] Sùmbolon, simbolo è ciò che unisce, ed è il contrario del diàbolos, che è ciò-che-divide, il separatore, l’avversario.

[3] Cf. Massarenti A., Il pensiero di Martin Heidegger. Opere scelte di grandi filosofi; testi a cura di G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Ed. Laterza&Figli Spa, Roma – Bari 1971, 175.

[4] Cf. Heidegger M., Unterweges zur Sprachen, Pfüllingen, 1959, trad. it. di Chiodi P., 1971, a cura di Massarenti A., Il pensiero di Martin Heidegger. Opere scelte di grandi filosofi, ed. Il Sole 24 Ore Spa, Milano 2006, 56.

[5] Ibidem, 57.

[6] Ibidem.

[7] Cf. Heidegger M., Zur Seinfrage, pubblicato dapprima con il titolo Uber “Die Linie”, nel vol. Freundschaftliche Begenungen, in onore di E. Jünger, Frankfurt 1955, e poi, separatamente, ivi, 1956, trad. it. Chiodi P., 1971, a cura di Massarenti A., Il pensiero di Martin Heidegger. Opere scelte di grandi filosofi, 58.

[8] Cf. Heidegger M., Unterweges zur Sprachen, cit., 96.

[9] Sia essa di tipo analitico, o sintetico, o dialettico, o analogico.

[10] Cf. Heidegger M., Unterweges zur Sprachen, cit., 37; serve anche confrontare il termine Er-örterung, qui utilizzato dall’autore, con Erklärung, spiegazione, e Erläuterung, delucidazione, utilizzati altrove.

[11] Anche qui gioca l’etimo tedesco, il quale è analogo a quello latino, dove legere significa anche raccogliere.

[12] Cf. Ibidem, Unterweges zur Sprachen, cit., 48: è un passo di una lettera del 1950 a E. Staiger, riprodotta in E. Staiger, Die Kunst der Interpretation, Zürich 1955.

[13] Cf. Ibidem, 186.

[14] Cf. Heidegger M., Sein und Zeit, cit., 199.260.

[15] Ibidem, Sein und Zeit, cit., 200.261.

 

Uno parla (Jaspers) dell’apertura all’infinito, l’altro (Heidegger) dell’inquietudine umana per lo scoprimento della verità dell’essere, come un avere-cura di sé e degli altri nell’esercizio della vita, anch’esso infinito.

 

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