Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

forse un mattino andando

in un’aria di vetro/ arida rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore di ubriaco.//  Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto/ alberi case colli per l’inganno consueto./ Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Montale canta il vuoto che si para innanzi al cammino dell’uomo, quasi liberandosi di un peso, accettando il nulla che circonda l’essere e lo costituisce, ogni giorno che passa, ogni vento che spira, ogni raggio di luna.

Capita anche a me di andare molte volte di mattina in un’aria di vetro, quando l’inverno scricchiola fuori come un tempo, quando avevamo freddo nelle case, non come ora che siamo riparati. Sentire il canto del gallo al confine della grande campagna silenziosa, anche ora, solitariamente dopo la lunga corsa di cento e più chilometri di stamane, che bello è, come da remote lontananze, come dalla mia infanzia, quando si andava in fondo al cortile e poi in fondo all’orto, fino al canale d’acque limpide ragnetti d’acqua galleggianti e il madràc dietro il cespo di rose, che mia madre teneva così bene. Ma era già primavera e un rigoglio di verde e un azzurro tra gli alberi, e mio padre che zappava, sorpreso di vedermi arrivare di corsa, trafelato: “Ma corri sempre, Renato” (e avrei sempre corso, nella vita), e mi passava la manona forte sui riccioli scuri che avevo allora, genetica di Bea, sul più chiaro, però.

E canta ancora il poeta…

Spesso il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia,/ era l’incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato.// Bene non seppi, fuori del prodigio/ che schiude la divina Indifferenza:/ era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Il mal di vivere certo si vede, è diffuso, pervade corti e contrade, paesi e città, esiste, ma è privo di essenza, è privo di senso, è privo. E’ una privazione, un limite nel limite umano.

E anch’io canto questo pomeriggio sabatino, proemio della dies dominica, io canto a quei tempi lontani quando ero bambino e sono ancora, come nel tempo aoristo della lingua geniale: sono e per sempre sono, fin dalla fondazione del mondo, per volontà dell’Eterno…

Grazie ti rendo/ Per il mio nome rigenerante;// Grazie Ti rendo per il gelso/ Del mio cortile antico, per la vite/ E l’ulivo contorti come il mio pensiero,/ E similmente d/a Te consacrati;// Grazie Ti rendo per il mio dolore/ E la Tua lontananza;// Grazie per il silenzio e la parola/ Rara, che mi rivolgi tramite qualcuno;// Grazie per le onde e la musica del mare/ tracimanti.

(4a di copertina da In Transitu Meo, Chiandetti, Reana del Rojale-Ud, 2004)

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