Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Nibali

IMG-20160526-WA0002Quando la schiena ingobbita dà tutta la sua forza per la progressione, esulto in silenzio. Dentro di me e pensando all’epos degli antichi racconti di mio padre. Era il suo ciclismo, quello di Gino e Fausto -li chiamava per nome come fossero vecchi amici-, di Magni, Bobet e Stan Ockers, di Robic e Charly Gaul, ma lui andava indietro con la memoria adolescente fino a Bottecchia da Colle Umberto, bersagliere come lui, ai fratelli Pellissier, e poi a Girardengo, e Alfredo Binda, e Guerra, per farsi memore infine, di Anquetil, Van Looy, Gimondi e Merckx. Dei più grandi gli sfuggiva solo Hinault, ma ormai Pietro era diventato vecchio.

Gli sarebbero piaciuti tra gli ultimi Marco Pantani e Alberto Contador.

Avesse visto Nibali in questi giorni di fine Giro avrebbe detto che è della loro pasta, che gli ricorda Bartali per la progressione in salita e Gimondi per la tostaggine.

La fatica e l’acido lattico induriscono la gamba, ma la testa ordina di proseguire. Come ieri sul Col de la Bonette e l’altrieri sulla Cima Coppi a 2744 metri sul mare, in mezzo alle nuvole lunari, e al deserto bianco, mentre l’olandese calcolava male una curva e si fermava dolente sul muro di neve. Restava solo il piccolo colombiano Esteban, sorriso di piccolo indio, ma Nibali volava nel dolore, oltre le nuvole, anzi sfuggendone il terribile inganno fin giù a rompicollo nella valle altissima, anch’essa e poi a salir di nuovo verso un traguardo che cambiava il colore della corsa.

E come certe albe si accendono di rosa, allora si accendeva un lontano acerbo tramonto, di rosa. Così squillante, così antico, il colore di chi sa soffrire più degli altri ed è accompagnato oltre le crode dagli spiriti benevoli della montagna.

Ricordo ancora, quando Pietro mi spiegava che il Giro e il Tour diventavano veri quando la carovana raggiungeva le “Grandi Montagne”, fossero i miracolosi Monti Pallidi, la Marmolada, le Tre Cime, il Pordoi, il Fedaia, il Rolle e il Sella, oppure le grandi masse di granito scuro delle Graie o delle Alpi Francesi, il Galibier e l’Iseran, oppure gli assolati colli pirenaici, l’Aubisque, il Tourmalet e il Portet d’Aspet, ancora e per sempre memore della giovane vita di Fabio Casartelli, oppure il Mont Ventoux, salito dal Petrarca pellegrino di Valchiusa e del Sorga, testimone del dolore di Tom Simpson, ovvero -a primavera- prima delle “Grandi Montagne”, le durissime pietre di Roubaix, e allora la bicicletta diventava il cavallo-grifone Ippogrifo, immagine leggendaria, quando il ricordo di antichi racconti narrava di fughe indomabili come quella di Coppi da Castellania, che se ne andò per duecento chilometri da Cuneo a Pinerolo nel 1949, solcando i colli della Maddalena, del Vars, l’Izoard, il Monginevro e il Sestriere, e Mario Ferretti cantava: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome Fausto Coppi“.

Così mi pareva di sentire cantar ieri quando il ragazzo di Sicilia si inerpicava deciso verso la vittoria, che era alata come Nike di Samotracia, per legare i giorni della fatica immane al ricordo, mio e di chi mi ha fatto capire che vi sono cose elementari, come una corsa ciclistica, uno sguardo, uno stare bene per poco, che è tutto, un paesaggio delle rogge fluttuanti della mia terra, piuttosto che una grande festa di gloria mondana dove ci si deve atteggiare fingendo di essere contenti.

E mentre ripongo nel cassetto dei sogni l’impresa dell’uomo-atleta ascolto ancora una volta, dalle volte dorate di San Marco le sacre melodie di Gabrieli, che mi dicono come si possa tangere il divino, se si smette di dubitare a fil di ragione, e ci si affida all’onda miracolosa della musica, alle voci umane di soprani, tenori e sopranisti, alle trombe rinascimentali, agli spazi immensi che volgono oltre l’orizzonte dell’infinito mare… sapendo che la terra, dovesse implodere avrebbe il raggio di una nocciolina, secondo Schwarchild, e il sole di tre chilometri.

E allora che cos’è grande a questo mondo, se non la gioia per la fatica e il sacrificio, se non l’amore in/per ognuno di noi, più grande di tutte le galassie, perché coincide con Dio stesso.

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