Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La coscienza è campo aperto

medicina e filosofia…oramai da tempo tra filosofia e neuroscienze, con i corollari delle scienze psicologiche e psichiatriche. Un campo aperto.

La coscienza, lasciando qui da parte la sua accezione morale, come luogo delle scelte eticamente rilevanti, gli atti volontari responsabili, oggetto della filosofia classica, è un tema su cui esiste una sterminata letteratura. Di positivo vi è che i vari saperi finalmente si parlano, dialogano, senza la pretesa di avere una sorta di egemonia sull’oggetto studiato.

Vi sono sempre più neuro-scienziati che ritengono utile dover avere uno sguardo filosofico, e altrettanto fanno i filosofi, che non disdegnano più di avere informazioni sull’hardware umano. Fino a pochi decenni fa vi era una separatezza sussiegosa tra i due ambiti, cosicché oggi sta opportunamente accadendo qualcosa di analogo a quando i filosofi naturali accettarono che il metodo della ricerca sulla natura e sul mondo fosse quello delle scienze sperimentali, da Bacone e Galileo in poi, e non la metafisica classica, peraltro indispensabile per altri fini conoscitivi.

Stanislas Dehaene è autore di un volume molto interessante sul tema, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, (Ed. R. Cortina, Milano 2014).

Il ricercatore, sviluppando insieme con il suo maestro Jean-Pierre Changeaux il progetto “Global Neuronal Workspace Theory”, spiega che le tecniche di “Neuroimaging” (o visualizzazione dell’attività del cervello) riescono ad anticiparci di qualche brevissimo tempo ciò che sta per accadere a livello cosciente, mostrando l’attività elettrochimica delle aree cerebrali preposte. In altre parole, le diverse colorazioni delle aree attivate in qualche modo visibili alla elettroencefalografia, dicono che i lobi prefrontali della corteccia stanno per manifestare un’idea, un ragionamento, un apprezzamento, un’emozione.

E’ come se le cose che accadono siano quasi un micro-ricordo di fatti che le precedono, impercettibilmente, alla coscienza cosciente.

Il neuro-scienziato precisa che alla coscienza giunge solo una minima parte di ciò che avviene a livello fisico-biologico: altrimenti, il software non recepisce tutta la produzione dell’hardware, che risulta così potenzialmente sovrabbondante.

Pensare induttivamente attiva parti diverse dei lobi di quando si ragiona deduttivamente, così come accade se si prega o se si calcola, se si scrive un racconto, o una relazione tecno-scientifica, se si è fiduciosi o perplessi o demotivati e stanchi.

Che cosa può implicare ciò filosoficamente? Innanzitutto un quesito: se le cose accadono prima a livello non-cosciente e successivamente si manifestano alla coscienza, come si pone il tema della libertà in un contesto siffatto? Ovvero, ci può essere una reciproca interferenza-interdipendenza quasi di sincronizzazione tra i due momenti e luoghi, che avviene in tempi e modalità tali da non mettere in questione il libero arbitrio, e quindi anche la nozione morale classica di coscienza?

Un secondo quesito: come può l’uomo avere chiarezza assoluta dei meccanismi mentali, nel momento in cui per studiare se stesso usa se stesso? Infatti lo studio di sé è diverso dallo studio del mondo della natura, e ciò anche per l’idealismo più spinto di un Fichte o di uno Schelling, per i quali nell’Io assoluto si ricomprende il mondo.

Siccome i due ricercatori e anche altri loro illustri colleghi come il neurofisiologo Gerald Edelman non riescono a spiegare questo oscuro e difficilissimo ambito, non ci resta che socraticamente dichiararci ancora tecnicamente ignoranti e continuare a studiare umilmente la meraviglia della complessità, declinata nell’animale uomo, nel cosmo sconfinato, e nella nostra anima inquieta.

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