Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

bimba, 3 aprile 1999…

white horsesNemmeno quattrenne allora, la mia Bea, e così scrivevo per lei:

Aveva scelto un altro mare/ dove crescevano i cavalli rosa,/ aveva scelto un’altra collina/ dove nascevano le acacie bianche,/ aveva scelto il deserto giallo/ dove crescevano le dune al vento,/ aveva scelto una bimba bella/ con gli occhi scuri d’un bel sorriso.”

E intanto chiedeva di ascoltare i Beatles, Mozart e i Litfiba! Nasceva lì, in lei piccolissima, la sua natura musicante.

Ora veleggia oltre i diciannove, la ragazza … e sogna quel che deve sognare nel suo tempo, e non scrivo più così. Osservo, standomene per quanto mi è possibile, discosto. E non mi è facilissimo.

La sua crescita è un bene morale, non un mero “oggetto” di una pur avanzatissima e rispettosa “pedagogia”, e per “morale” non intendo qui una scelta tra un bene e un male puramente teorici, un oggetto sottoposto alla nostra/ mia analisi etica, ma un di più, una sorta di realizzazione della “sua” particolare essenza umana. E’ chiaro che tutto ciò non può prescindere da una “vita buona”, ma deve procedere secondo la paidèia dell’essere personale, della struttura psico-morale, dell’inesauribile unicità , dell’irriducibilità esistenziale sua propria a ogni modellazione teoretica esterna.

Leggo in K. Jaspers, I grandi filosofi, Milano 1973,  572:  E’ evidente il richiamo alla celeberrima conclusione della seconda Critica, all’evocazione del cielo stellato e della legge morale, ove questa “innalza invece infinitamente il mio valore, come proprio di un’intelligenza, attraverso la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile, almeno per quanto si può arguire dalla determinazione secondo fini che questa legge conferisce alla mia esistenza, determinazione che non si restringe alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito” (I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., 181, a cura di Bongiovanni A., Dialeghesthai, 17).

E’ solo così che si può intravedere, se pur confusamente, non tanto un disegno “trascendente”, quanto un sentiero intenzionato e intenzionale, una sorta di “progetto” dove però le cose non sono “gettate” troppo avanti, ma permangono sotto il secondo sguardo del breve-medio (periodo), pena la disillusione e anche la delusione, uno scioglimento delle buone intenzioni.

Giova, allora, per me stare dove sono, e andare sempre per la mia strada, non facendole mai mancare la possibilità dell’appello, della chiamata, della presenza, se necessita, ingombrandola come ombra, mai.

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