Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il “brand”

Citroen anni quaranta…oggi tutti i prodotti rappresentano un brand sul mercato. Eataly, la Ferrari (primo al mondo, alleluja!), il prosciutto di San Daniele e il Franciacorta, lo Champagne e il cognac, Paris Hilton, la Ferrero di Alba, il Bayern di Monaco, Vuitton e Renzi, mon cher lecteur! L’Italia stessa, tutta, è un brand. Magari non come la presentano talvolta i giornali inglesi, ma come è intesa dalla maggior parte dei cittadini di tutto il mondo: una terra meravigliosa. Un brand, cioè qualcosa che-ha-mercato, scriverebbe Heidegger. Qualcosa che si può vendere: prodotti, aziende, partiti, persone, tutto può essere “brand“.

Una certa ira mi sorge irrefrenabile, quando scopro che anche i parlamentari Antonio Razzi e Scilipoti, o la fidanzata del centravanti dell’Inter Icardi sono un “brand”. E il “grande fratello” televisivo. Razzi e Scilipoti o De Gregorio (tutti e tre inguardabili oltre che inascoltabili), eletti con Di Pietro e poi suoi traditori (pensa che contrappasso, caro lettore!). Di Pietro, altro brand ora in disuso. Dunque, brand significa qualsiasi cosa che possa conquistarsi uno spazio mediatico, tale da creare in qualsivoglia modo occasioni di lucro o di business: qualsiasi valore estetico, etico o politico abbia in sé. Anzi, lì non esiste l’aristotelico e sartriano “in sé” (en-soi), ma solo il “per sé” (pour-soi), cioè un qualcosa che vale se qualcuno gli dà valore, senza considerare il valore intrinseco della cosa, che a quel qualcuno non interessa o non gli conviene considerare.

A meno che non siamo cinico-scettici e relativisti talebani, per cui non ammettiamo che si possa dare un “giudizio di valore” alla “cosa” in qualche modo oggettivo.

E quindi, il brand potrebbe non avere alcun valore, ma essere un brand vendibile, perché ha acquirenti. Che schifo. Ma forse l’ingenuo sono io.

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