Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Le lenticchie di Pecol

(Racconto di Natale, dedicato ai critici ufficiali della Repubblica friulana delle Lettere,  insigni esegeti equanimi, ermeneuti allegoristi neo-alessandrini, hortus conclusus apriorico, a beneficio dell’arte e della poesia di alcuni…, con tanto di excusatio non petita per la dimenticanza di altri…, fortassis, perhaps, cui sa mai, quien sabe, chissà, etc..)

Nonno Marco gli aveva promesso ancora una volta che avrebbe letto per loro un racconto della Storia Sacra, una sera o l’altra, mentre lo interpellavano correndo qua e là. Era solito farlo, con i suoi nipoti, che si aspettavano storie magiche di paesi e popoli pittoreschi e lontani. Li aveva abituati così fin dalle elementari, quando gli narrava di terre e fiumi immensi, di pianure senza confini e di orizzonti persi oltre le dune dei deserti e delle grandi montagne innevate. Nomi pieni di musica, Ande, Himalaia, Karakorùm, Jenisèi, Zambesi, Kilimanjaro, Ruwenzori, Alma Ata, Bukhara, Tamanrasset, Iguazù, Samarcanda,… E i piccoli non vedevano l’ora che il nonno gli proponesse di sedersi accanto al fuoco caldo della stufa, specialmente d’inverno o nelle serate d’autunno che già preannunziavano la stagione delle lunghe notti.

Caterina e Giovanni erano stati tutto il giorno di sabato con i loro amichetti in attesa della neve, che intanto era caduta abbondante sui picchi più alti verso nord e verso est. Il Frascola e il Caserine erano ormai innevati fino al limitare dei boschi alti.

La valle e il paese dove abitavano non erano lontani dalla pianura, ma dopo le prime svolte della strada che saliva da sotto cominciavano subito ad apparire lontanissimi, con le luci perse sui pendii scuri e tra gli alberi.

Il tempo era cambiato negli ultimi giorni: le lunghe giornate d’ottobre, ancora calde nel pieno del giorno, quando il sole indorava le foglie del bosco ceduo, avevano lasciato il passo alle prime nebbie novembrine, che davano brividi alla mattina e sul fare della sera. La nebbia, ovvero morbide nuvole biancastre, scendeva dai pendii lentamente fino a coprire le case più discoste del paese e a nascondere il campanile. Le notti poi erano chiare quando c’era la luna alta che spuntava oltre Pecol, al limitare di un giogo lontano e selvaggio. Era un paesino minuscolo quello dove abitavano i Doghis, soprannome dei Miorin della Valle. Vivevano nel paese da generazioni, e neppure il nonno sapeva dire da dove venissero. Ogni tanto lui immaginava, raccontando le storie ai nipoti, che gli avi fossero giunti dalle terre lontane dell’est, dove fa freddo e di sera si mangiano zuppe bollenti per scaldarsi, e nelle mattine d’inverno si trovavano le tracce dei lupi che erano passati vicino all’izba. Più recentemente, pare nel secolo scorso, prima di metà ‘800, diceva il nonno, forse gli avi avevano costruito botti per il vino, da cui il soprannome familiare di Doghis, che sono le assi ricurve utilizzate per modellare botti e tini.

Il freddo che si preannunziava ogni giorno di più suggeriva che anche a Pecol era bene cominciare a cucinare quelle minestre dai sapori forti, con i legumi, i fagioli e le lenticchie, messi via da mesi, che l’orto di famiglia, al limitare del bosco, produceva doviziosamente ogni anno. Fagioli e lenticchie erano stati stivati nel granaio in piccoli sacchi di iuta e la mamma era già andata a vedere se erano a posto. La mamma di Giovanni e Caterina era una donna sui quarant’anni o poco più, forte e capace. Lavorava giù in pianura, in un bel paese medievale, che raggiungeva ogni mattina in auto. Il papà era un caporeparto e lavorava nella zona industriale della città che stava i piedi delle Prealpi. Il nonno era rimasto vedovo, caso raro siccome di solito gli uomini muoiono prima delle mogli, e la memoria di nonna Maria aleggiava dalle foto e per tutta la casa. Ogni giorno lui andava a trovarla nel piccolo cimitero che si trovava sotto lo spigolo del monte, oltre un piccolo bosco di faggi e carpini. Lì le parlava sottovoce, sapendo che lei lo ascoltava, come aveva fatto sempre durante la vita. Maria sapeva di avere sposato un uomo vero, che meritava fiducia e rispetto, e poi lei era fatta all’antica, e si comportava come sua madre e sua nonna, con il marito. Oggi invece non si provano più questi sentimenti, come se fossero diventati inutili. Erano stati giovani insieme in emigrazione a Lille, nel nord della Francia, dove erano nati i tre figli: Alberto, che viveva lì ed era il padre di Caterina e Giovanni, Laura che si era sposata a Milano dove aveva studiato all’università, e Matteo che faceva il pubblicitario a Bologna. Nonno Marco viveva ormai per i due nipoti che vedeva crescere e ai quali gli piaceva dare notizie e raccontare storie.

La sera seguente dunque li chiamò vicino alla grande stufa di pietra che aveva costruito con il figlio. I piccoli gli si accucciarono vicino, chiedendogli che cosa avrebbe letto, ma lui volle fare il misterioso. Ciò piacque a Caterina e Giovanni e lui cominciò lentamente a leggere, con parole e frasi ben scandite…

 <Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito.

Disse a Giacobbe: “Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito”.

Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: “Vendimi subito la tua primogenitura”.

Rispose Esaù: “Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?”. Giacobbe allora disse: “Giuramelo subito”.

Questi lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe.

Giacobbe diede ad Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò.

A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura.>[1]

 I bambini erano come incantati dal racconto e chiesero: “Nonno, che cosa è la primogenitura?” Il nonno rispose che era un diritto antico secondo il quale il primo dei figli avrebbe ereditato tutti i beni del padre e così avrebbe mantenuto intatto il patrimonio familiare. Ma, intervenne Caterina: “Non è giusto, perché questa casa non deve essere solo mia, perché sono più grande di Giovanni”. “Infatti, rispose il nonno sorridendo, questa casa, quando io sarò già morto da tanti anni oramai e anche voi sarete grandi, sarà vostra parimenti”. “Ma non dire così nonno,” esclamarono all’unisono i due bambini, mentre la madre, che aveva ascoltato dalla cucina, entrò sorridendo per chiamare tutti a cena. Il nonno si alzò guardando per un attimo la foto nella quale erano ritratti lui e la moglie, ancora giovani, prima di partire per la Francia. Poi si affacciò un momento sulla porta, ma una folata di vento più freddo lo fece rientrare sfregandosi le mani. “Sta venendo l’inverno”, borbottò tra sé e sé. Pensò, ma non disse nulla: “Chissà se sarà il mio ultimo”.

Le giornate si erano fatte oramai molto corte nel piccolo paesino di mezza montagna dal nome antichissimo. Il vento cominciava scendere sempre più presto dagli acrocori alti del monte Pala e intirizziva il gatto, che chiedeva di entrare in casa sfregando le zampette contro la porta.

Un profumo forte si diffondeva dalla cucina. Per cena c’era il coniglio con la polenta e le lenticchie.

Nonno Marco, che aveva fatto solo la quinta elementare, ma aveva letto molto, spiegò a sua nipote incuriosita che la lens culinaris, cioè la lenticchia, è una leguminosa dai semi biconvessi, come una lente, micro e macrosperma, cioè dai semi piccoli e dai semi grossi, ed è coltivata dall’Asia al bacino Mediterraneo. Continuò dicendo che la lenticchia contiene proteine per il trenta per cento, vitamine del gruppo B, ferro e fosforo, e che la pianta intera è un ottimo foraggio.

La bimba incantata non fiatava. Intanto la cena era stata servita dalla mamma, ché papà non era ancora tornato dal lavoro e l’ora s’era fatta tarda. “Mangiate bambini, mangiate con il nonno, ché io aspetto papà… non tarderà molto”.

Infatti l’uomo arrivò dopo una mezz’ora e cenò con la moglie, con cui aveva preso a parlare piano. Nel frattempo nonno Marco e i due nipoti si erano portati vicino alla stufa grande e continuavano a discorrere come tra grandi.

“…come sia potuta entrare nel racconto biblico non si sa, diceva il nonno, perché le Storie Sacre sono state scritte da quasi mille anni prima che venisse Gesù Cristo, e le hanno scritte in tanti”. Poi spiegò che tutte quelle storie erano state riviste e riscritte tante volte, e i racconti e le poesie che si trovavano nella Bibbia venivano dalle tradizioni di tutti i popoli che abitavano le terre rivolte al Mare Mediterraneo orientale, la Siria, la Turchia, la Palestina, l’Egitto. Giovanni e Caterina ascoltavano assorti.

L’ora si era fatta tarda e il nonno li invitò ad andare a letto. Ubbidirono malvolentieri, perché sarebbero rimasti lì ad ascoltare ancora per tanto tempo i racconti di nonno Marco, che sapeva interessarli sempre con un linguaggio semplice, e raccontava storie di tempi lontani in cui gli uomini facevano molta fatica a vivere, e si accontentavano di poco. Si addormentarono presto nel silenzio della casa di pietra, che sorgeva al limitare di una bella radura confinante con i boschi scuri e misteriosi, da cui Giovanni e Caterina immaginavano potessero venire anche spiriti paurosi e arcani. Ma le coperte tenevano un buon calore che favoriva un sonno profondo.

 All’aeroporto De Gaulle di Roissy Caterina era arrivata prima di suo fratello Giovanni, o John come ormai lo chiamava da quando lui, finita l’università in Italia, era emigrato negli States per un dottorato in biologia, con possibilità di essere accettato forse al Mit di Boston. Caterina invece era andata a lavorare in un comune della pianura, come la mamma, ma lei aveva studiato ed era riuscita a vincere un concorso da capoufficio. Non si vedevano con Giovanni da più di un anno, ed era andata a prenderlo a Parigi, perché fin da bambini si erano messi in testa che avrebbero visitato insieme quella città, della quale gli aveva tanto parlato il nonno. Nonno Marco era stato a Parigi in treno una o due volte per andare a fare dei documenti che gli servivano per continuare e lavorare a Lilla, dove il consolato italiano non poteva bastare. Egli aveva raccontato le mirabilie di quella grande città, dei tram e dei vaporetti che andavano su e giù per la Seine, dei boulevard multicolori e dei teatri. La Ville Lumiere, la chiamava, en français, e poi Notre Dame, le Pantheon, Montmartre, le Sacre Coeur, Les Invalides, la Madeleine, Place de la Bastille, Place de la Concorde, le Louvre, le Trocadèro, les Champs Elisèes, la Tour Eiffel… Avevano sognato fin da bambini di andarci.

Giovanni arrivò, bello e più maturo di come lo ricordava la sorella: un filo di barba scura gli incorniciava il volto. Caterina era orgogliosa di vederlo così. Si raccontarono con ansia le loro cose, durante il breve viaggio verso la città, dove avevano prenotato. In Rue de Rennes, all’Hotel des Arenes.

 In Italia, nella valle il tempo era trascorso. Nonno Marco era morto oramai da quasi vent’anni. Anche mamma e papà erano un po’ invecchiati, ma ancora lucidi e sani. Li aspettavano con ansia, perché i viaggi in aereo li avevano sempre preoccupati. Giovanni sarebbe arrivato dall’America e Caterina era andata a prenderlo a Parigi.

Arrivarono un sabato pomeriggio di novembre. Scesero dall’auto di Caterina e si guardarono in giro. La neve aveva fatto la sua comparsa sulle alte cime che circondavano la valle, come quella volta. Entrarono in casa e un profumo di cibo li avvolse. Ma… erano le lenticchie, le lenticchie con il coniglio. Una caraffa di vino rosso, pane fatto in casa. E la mamma, ancora dritta e vigorosa. E papà, incanutito ma con l’occhio vispo di sempre.

Oh, le lenticchie, disse Giovanni, come quando c’era il nonno”. Papà annuì e guardò la foto dei genitori, Marco e Maria, ancora giovani, quando era ancora prima di partire per la Francia. Sua moglie Teresa si soffermò un momento sulla soglia, per lasciare un po’ di silenzio.

Le lenticchie erano state preparate come un tempo, cotte a lungo e poi aromatizzate con alcune erbe del bosco che la mamma conosceva.

E poi il racconto delle Storie Sacre, quello di Esaù e Giacobbe, ricordava Giovanni. Quella storia di una primogenitura venduta per un piatto di lenticchie, un piatto di minestra rossa, che in ebraico si diceva Edom.

Il tempo era passato, erano cresciuti, avevano litigato con i genitori e scelto le scuole da fare. Avevano avuto, Caterina e Giovanni, i loro primi amori, giù in città, che non raccontavano sempre alla mamma.

Papà veniva sempre a sapere dopo, ma non protestava. Andavano così le cose, nel piccolo paesino delle Prealpi, da sempre, e non sarebbero mai cambiate, come non cambiavano le stagioni e i cibi adatti alle stagioni che passavano, messi via nel granaio e in cantina, i salami, i legumi, la pitina, le patate, il vino, perfino due o tre oche cotte e messe sotto grasso. Quello era il mondo che avevano conosciuto da piccoli e ora lo ritrovavano quasi intatto, anche se loro due avevano intrapreso altre strade, metropolitane e cosmopolitiche.

Che cosa farete, adesso”, chiese papà Alberto. Giovanni non rispose, assorto com’era a guardare le vecchie foto che aveva tirato fuori da una scatola. Caterina rispose che sarebbe rimasta con loro, che non aveva programmi, perché le piaceva continuare a vivere al paese, dove c’era ancora una fontanella in piazza per bere l’acqua fresca.

Vedremo”, dissero all’unisono padre e figlia. Le cena si era prolungata molto, e fuori faceva freddo, come in quelle lontane stagioni quando il nonno raccontava e raccontava finché a loro due, piccoli, non veniva un gran sonno e poi andavano a letto a sognare.

Che cosa conta nella vita, dunque, più di un piatto di lenticchie mangiato con chi ti vuole bene?, si chiedeva in silenzio Giovanni. E nel frattempo Alberto aveva dato la buona notte. Mamma Teresa invece aveva approfittato per stirare un po’, le donne non smettono mai di lavorare. Caterina leggeva una rivista di viaggi.

Il gatto sfregava le zampine alla porta per farsi aprire.

Giovanni si alzò e, mentre faceva entrare il gatto, gettò lo sguardo fuori, nel cortile. La serata era buia ma cristallina, e le stelle illuminavano la volta di quel cielo conosciuto. Fu un istante: gli sembrò di vedere nel buio un volto sorridente.

Stando sulla porta si girò verso la foto dei nonni.

Gli era parso che nonno Marco fosse tornato a salutarlo.


[1] Genesi 25, 29 – 34, Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 1980 , p. 79.

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