Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La bambazza

La lingua italiana è infinitamente ricca di suoni, varianti, sinonimi, suggestioni di campi semantici contigui, sfumature, polisemie, etc..

Ma talvolta, come accade per tutte le lingue, risulta insufficiente ad esprimere oggetti, azioni o situazioni talmente particolari e nuove, cosicchè qualcuno ha il coraggio di incominciare ad utilizzare un nuovo termine, che può o meno entrare nell’uso comune. La storia della nostra letteratura è piena di esempi, a partire dai padri nobili, Dante, Petrarca e Boccaccio, passando per l’Ariosto e fino a don Lisander da Milano. Per tacere di imaginifici come Gabriele D’Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino, Borges, H. P. Lovecraft, Guido Ceronetti, Giorgio Manganelli e il Camilleri del participio passato “basito”. Gli antichi autori greci e latini coltivavano addirittura uno stile, un vanto, con l’utilizzo di innumerevoli polisemie e varianti. La Bibbia è un pozzo senza fondo di queste figure linguistiche, ma anche i testi del Classici e dei Padri della Chiesa, così come li ritroviamo negli antichi codici. Origene, ad esempio, è una miniera di varianti e polisemie.

Nelle lingue agglutinanti come quelle semitiche o ugro-finniche questa possibilità è continua, poichè il lavorio di mutazione morfologica prevede anche la modifica radicale dei termini nella frase e nel suo contesto, mediante incorporazioni di “sillabe” o radici, e loro ristrutturazioni, ma nelle lingue flessive composte da lemmi rigorosamente distinti, come l’italiano, bisogna inventare letteralmente nuovi termini, o coniando un vero e proprio neologismo, o usando pezzi di parole esistenti, radicali, suffissi e altro e lavorando con delle soluzioni crasiche o sintetiche.

L’estate scorsa sono stato colto dall’esigenza di inventare un nuovo termine, osservando mia figlia, allora quasi dodicenne, che cresceva a vista d’occhio, come dice l’Evangelo “in sapienza, statura e (speriamo) grazia”. Vista da dietro l’osservazione spontanea che mi veniva ogni giorno di più era “E’ oramai una ragazza”; guardandola in viso l’espressione restava quella di una bambina: l’occhio curioso e aperto, privo di quel trepido e scostante sfuggimento tipico delle adolescenti, che si sentono oramai quasi piene del loro femminile totale.

Ho considerato, perciò, il termine classico di “ragazzina”, che è un diminutivo-vezzeggiativo, e anche il desueto, ma più ampio “fanciulla”, che oggi si può comunque usare attribuendolo, con un sottofondo di ironia, a femmine di quasi tutte le età, dai dodici ai trent’anni almeno e oltre.

Non ero soddisfatto.

Ecco che allora, forte della mia inestinguibile sete di dare nomi al mondo e alle cose, ho pensato al termine “bambazza”, che mi risolveva d’incanto tutte le contraddizioni insite nella descrizione di un essere umano di genere femminile giunto ad un punto nel quale ogni termine in uso si manifestava inadeguato.

Perchè “bambazza”? Innanzitutto perchè ha un suono forte, grezzo, le zeta ti stropicciano l’udito, dando la sensazione di un qualcosa di forte, anche se incompiuto, di essere in itinere, e poi perchè è composto, con il taglio rispettivamente del suffisso e del prefisso, dalla crasi di “bambina” e di “ragazza”.

Mi sembra suoni anche simpaticamente cameratesco e comunicativo.

La bambazza è qualcuna che sta esplodendo, come il suono della parola, è una folgore energetica, una rapinosa e spiazzante creatura. è presenza che ha il giusto ingombro della potenza d’essere del tutto dispiegata.

La devi giustamente considerare per come è mentre sta già cambiando, la devi ascoltare mentre volge a suo favore tutte le varie situazioni che si creano, anche quando ha torto marcio, ma trova sempre il modo di passare dalla parte della ragione. Sta imparando a difendersi in questo mondo irto di insidie, appoggiandosi alle tue frasi come ci si appoggia all’avversario nello judo.

Così diversa e così memoria vivente di come mi ricordo di essere stato anch’io, se pure in modo più cauto e timido.

Inventare (che poi è un “trovare”) parole è lecito, quasi doveroso, per sopravvivere al decadimento linguistico promosso dai media e dalla quotidianità contemporanea, dalla fretta e dal pressapochismo nelle relazioni tra umani, è un punto morale, di valenza etica, al punto che mi è sorta, come da precordi profondissimi, una terzina di endecasillabi lontanamente dantesca, su di lei:

Dimmi come si può chiamar mia figlia,/ se non Beatrice e tanto mi somiglia / nei tratti e nei pensieri che spariglia“.

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