Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate

Mi permetto di mettere giù questo saggetto divulgativo pensando ai miei lettori più giovani, che poco o nulla sanno di questi ultimi sessanta/ settanta anni di storia patria.

Non sarà un testo scientifico, perché non ne ha la pretesa, né io sono precisamente uno storico: la mia prospettiva sarà dunque politologica e sociologico-antropologica, su uno sfondo etico-filosofico.

Per poterne parlare con lo stile annunziato, riporto di seguito – integralmente – il titolo del pezzo. Ne commenterò solo una parte.

C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate.

C’è infatti un filo nero e rosso che collega in qualche modo un po’ tutte le vicende che ho elencato, come se una mente malvagia avesse armato tante mani altrettanto malvagie.

Vi sono episodi, come la morte di Mattei e la strage di Ustica che non hanno ancora trovato, a quasi sessant’anni e a oltre quaranta – rispettivamente – alcuna conclusione chiarificatrice ufficiale, anche se si sa che l’aereo Itavia, con ottantuno passeggeri a bordo, decollato da Bologna e diretto a Palermo, fu abbattuto quasi certamente da un missile Exocet dell’aeronautica militare francese, e probabilmente da un Mirage 2000, che stava inseguendo dei MykoianMig 25 libici, forniti dall’Unione Sovietica, uno dei quali fu trovato abbattuto sulla Sila; mentre il piccolo jet sul quale viaggiava Mattei, che era inviso alle cosiddette “Sette sorelle” del petrolio, Shell, Total e Bp in testa (Olanda, Francia e Gran Bretagna), per il suo legittimo attivismo con i Paesi arabi del Vicino oriente al fine di dar valore alle attività delle società energetiche italiane Agip e Eni, cadde per un guasto a qualche decina di minuti dal decollo.

Che dire dell’immensa letteratura che si è sviluppata attorno al “caso Moro”, dei tre processi, delle testimonianze, delle connivenze, dei silenzi, del commando assassino di via Fani (da chi era veramente composto, Morucci? Solo da lei e dai suoi compagni più o meno in seguito resipiscenti?)?

Perché si è impedito che il PSI di Bettino Craxi, Signorile e Martelli continuasse a provare la strada della trattativa con le BR? Anche recentemente l’on. Claudio Signorile, che nel 1978 era vicesegretario del Partito Socialista, in quota “sinistra lombardiana”, ha spiegato in una intervista che tramite il suo conoscente (amico? non so se, e fino a che punto…) Franco Piperno, docente di fisica in Calabria e uno dei capi di Potere Operaio, avrebbe potuto avere contatti con il gruppo (posso dire “riformista” o “gradualista” o “moderato” delle Brigate Rosse?) di Valerio Morucci e della sua fidanzata di sempre Adriana Faranda, per trovare una via d’uscita per il Presidente Moro? E chi è stato il più severamente inflessibile? Andreotti, Cossiga (mi vien da dire con un po’ di rabbia, poverino), Berlinguer, Ugo La Malfa? Che voleva un’immediato ripristino della pena di morte per i brigatisti per “Stato di guerra”, misura che non si sarebbe potuto costituzionalmente assumere, come ebbe a spiegargli Cossiga, che era un valente giurista. D’accordo con La Malfa si dichiararono, allora, il combattente della Resistenza Azionista Leo Valiani, e anche il Presidente Pertini non pareva contrario. D’altra parte il compagno Sandro aveva, per parte sua, accettato la sua condanna a morte, poi evitata con una rocambolesca fuga da Regina Coeli, una cum Saragat, auspice il compagno Giuliano Vassalli e un medico connivente con il partigianato romano, e aveva in qualche modo partecipato alla decisione del CLN Alta Italia per la fucilazione immediata del Duce, una volta arrestato. Dongo e Giulino di Mezzegra furono decisioni, certamente del compagno Luigi Longo, ma anche sue. Anche sugli esecutori materiali c’è stato contrasto tra l’ipotesi che sia stato il “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio o altri, forse anche inglesi (o giù di lì).

Et de hoc argumento, satis.

Quanto dava fastidio Aldo Moro ad Americani e Sovietici? Quanto la sua strategia (di lungo periodo) di completamento del coinvolgimento della parte produttiva italiana e delle sue storiche rappresentanze, collideva con quelle menti e quelle mani malvagie che ho citato supra?

In tema suggerisco al mio solerte lettore di cercare sul web (you tube) l’ampio servizio curato dal giornalista Andrea Purgatori e l’intervista a Francesco Cossiga, che tanta parte ebbe nella vicenda.

E sull'”album di famiglia” delle Brigate Rosse? Per quanto tempo la sinistra storica (il PCI) e quella extraparlamentare scrissero e dissero che le BR non erano di sinistra, ma esaltati killer fascisti? Fu la meravigliosa compagna Rossana Rossanda che scrisse chiaro e tondo che le Brigate Rosse appartenevano alla grande famiglia della sinistra storica. Si ascolti qualche video intervista del co-fondatore (con Renato Curcio e la moglie di questi Margherita “Mara” Cagol) Alberto Franceschini, figlio e nipote di partigiani emiliani, in gioventù iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, per capire che-cosa-erano le BR, peraltro mossesi – in modi anche molto diversi (si pensi al cosiddetto “movimentismo” assassino del professor Giovanni Senzani) – per quasi trent’anni, dal breve rapimento del dirigente Siemens ing. Amerio (il volantino di rivendicazione diceva “rapirne uno per educarne 100”, maoisticamente), che è del 1974, se non ricordo male, alla crudelissima uccisione del professore Marco Biagi, economista e giurista del lavoro dinnanzi all’uscio di casa. Intellettuale socialista e cristiano, uomo buono, come Moro.

Anche il professor D’Antona subì la stessa sorte, ed era un uomo del Partito Democratico di Sinistra. Così, senza – grazieadio – morirne, ebbe sorte analoga il famosissimo giurista professore Gino Giugni, che ebbi modo di conoscere personalmente (a Roma, bevendo un caffè con Giorgio Benvenuto, in una pausa di un convegno nazionale della Uil, quando ero segretario regionale di questo sindacato e componente della Direzione nazionale), “padre” dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, almeno due decenni prima. Le BR erano di una sinistra radicale (cf. il pezzo precedente su questo blog) che non accettava gradualismo, moderazione, condivisione, ricerca dell’accordo tra le parti sociali, e pretendeva di rappresentare le classi “subalterne” con la violenza e senza avere ricevuto alcun mandato. Per presunzione, superbia, orgoglio spirituale? Sì, un sì grande come una casa. Infatti, nonostante siano riuscite, con altre formazioni similari a terrorizzare l’Italia per trent’anni, alla fine sono finite.

Potrei approfondire il tema per conoscenze dirette di varia natura di questo tema, ma preferisco fermarmi qui. Ritengo opportuno solo dire che ai tempi di quando anche dalla mie parti questo movimento si stava radicando a partire da gruppi di “autonomi” (che erano la sinistra della sinistra extraparlamentare), essendo io quello che sono ancora, un socialista moderato cristiano, venivo accuratamente evitato da qualche mio amico che stava prendendo una brutta strada. Anche su queste tristi italianissime vicende consiglio di cercare qualche video, dove gli ex brigatisti si raccontano, o con lo stile freddo e “politico” di un Mario Moretti, oppure con la commozione sincera di Franco Bonisoli. “Uomini” delle brigate Rosse, come ebbe a chiamarli il grande papa Paolo VI. Uomini, come te e come me, come gli altri eversori e come le loro vittime.

Antropologicamente (lo dice la parola stessa!), uomini, fatti come il dottor Karl Marx non ha mai capito (o non ha voluto capire): commistione inestricabile di bene di male, laddove il male non è mai banale, cara Hannah Arendt!

E delle “cose di destra”? quella eversiva dei Nar e di altre formazioni, come Ordine nuovo. Come hanno potuto nascondersi dietro terrificanti stragi, riuscendo a non farsi “beccare” per anni? …magari per poi ricomparire a distanza di tempo, tipi come Massimo Carminati, amico di Fioravanti, e anche dei banditi della Magliana, e anche di cooperatori “regolari” come Buzzi.

Che cosa può pensare un teologo come me delle segrete/ secretate vicende vaticane, dalla morte strana di papa Luciani, all’attentato a Giovanni Paolo II, al rapimento di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, del comportamento di mons. Marcinkus e dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?

Che cosa pensare del ruolo e dei rapporti di Enrico De Pedis “Renatino”, il leader dei banditi del Testaccio della Banda della Magliana con esponenti e prelati vaticani? Forse che Emanuela fu rapita per farsi restituire denari prestati allo IOR (Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano) dalla mafia tramite i banditi romaneschi? Come fa il “recuperato alla ragione” Antonio Mancini, sempre di quel conglomerato di criminali, a sapere tutte le cose che dice nelle interviste che ognuno di noi può trovare sul web? Io lo trovo sincero, ma resto sconcertato.

Come è stato possibile che quattro contadini o postini ultra sessantenni “sderenati” (termine friulano per dire senza arte né parte), intendo i Pacciani, i Lotti, i Vanni, i Faggi e le loro amiche compiacenti (peraltro oramai tutti deceduti), abbiano ucciso in un paio di decenni otto coppie di giovani che si erano appartati nei dintorni di Firenze, senza che gli inquirenti riuscissero a fondare delle prove inconfutabili per le quali le verità processuali potessero finalmente coincidere con le verità fattuali? In che misura e senso c’entrano le famiglie del medico Vannucci da Perugia e del farmacista fiorentino? Personalmente ritengo che i sopra citati c’entrino in parte, e certamente meno di qualche personaggio di ben altra collocazione sociale.

Continuo con le domande…

E se dovessimo interessarci delle connessioni fra mafia e politica, che cosa ne uscirebbe? Forse non solo le ipotesi infondate di un Ingroia (che strana fine professionale e politica per un magistrato che sembrava sulla cresta dell’onda, ma altrettanto è accaduto a Di Pietro: chi troppo vuole e ciò che segue...).

Ma le vicende che hanno portato alle crudelissime morti di Falcone e Borsellino dicono di coperture e indicibili rapporti… Chi ha raccattato con gesto furtivo la famosa agenda rossa del dottore Paolo? Per farne che? Per portarla a chi? Come mai l’uomo di Castelvetrano ha potuto latitare per tre decenni, rimanendo quasi sempre nella sua grande Trinacria?

Chi ha chiuso uno, due, tre, quattro, decine di occhi, in modo da permettere che per mezzo secolo mafia, camorra e n’drangheta imperassero su un terzo dell’Italia e ne invadessero anche la restante parte? Come faceva un Salvo Lima a stare seduto vicino al “divo Giulio” al Congresso della Democrazia Cristiana e poi in “patria”, laggiù nella più bella terra del mondo, accompagnarsi ai “dazieri” fratelli/ cugini Salvo e compagnia sparante?

Chi, chi, chi? Perché? E la domanda filosofica per eccellenza resta ancora senza risposte soddisfacenti.

La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Le quattro anatre

Guccini cantava “cinque anatre volano a Sud…”, io invece, in una mattinata marzolina ero nella grande piazza della città. Una della più grandi d’Italia, la seconda del Nordest dopo il Prato della Valle di Padova, a Udine: Piazza I Maggio, sovrastata dal leggendario Castello, che è una collina (residuo della morena glaciale di migliaia di anni fa) da cui si tramanda che il re unno Attila ammirò l’incendio di Aquileia. Leggende. Tutt’intorno ampie strade e palazzi, luoghi di convivio e per manifestazioni e passeggio di signore, di uomini e cani.

cinque anatre stanno…

Sullo sfondo stanno il nobile Liceo ginnasio della mia gioventù, la Basilica dedicata alla Madonna delle Grazie, che fece un’antica grazia e poi tante altre, custodita dai Servi di Maria, tra i quali qualche anno fa meditava e insegnava il Padre David da Coderno di Sedegliano. Poeta, predicatore. Così mistico ma a volte scostante, e perfino un po’ antipatico. Furlano, a tre e sessanta, come c’a si dîs.

A un tratto lo starnazzare improvviso di un uccello mi fa girare lo sguardo. Un’anatra selvatica marroncina, una femmina, svolazza per sfuggire all’assalto di tre coloratissimi maschi che, si vede, la “desiderano”. Commento con un passante: “Sono germani reali, i tre maschi sono fatti come noi umani maschi“. Ci si sorride.

Lo starnazzamento continua perché i tre maschi inseguono decisi la femmina che li distanzia con piccoli svolazzi. Lo straordinario accade subito dopo… Prima uno degli “anatri” comincia a staccarsi da gruppo e si ferma, poi un secondo, si ferma. Nel frattempo la femmina, volata avanti per una quarantina di metri, sta ferma. Allora, il terzo maschio, camminando lentamente ma con decisione si avvicina alla femmina, che lo sta aspettando! Raggiuntala, si mettono a camminare l’uno al fianco dell’altra, come un signore e una signora, verso di me che intanto li avevo preceduti.

Alle mie spalle nel frattempo stavano arrivando dei bimbi; si vedeva che erano un paio di classi delle elementari con le rispettive maestre. Mi rivolgo alle due signore dicendo: “Buongiorno maestre, posso spiegare ai bambini che cosa ho appena visto“. Il loro sorriso mi dà la parola. I bimbi mi guardano, mi ascoltano attenti e nel contempo si accorgono dei due volatili che si stanno avvicinando.

Non finisco di spiegare che già i piccoli e le piccole hanno in mano i telefonini e con gridolini di meraviglia si mettono a fotografare i due animali, che paiono mettersi in posa.

Il gruppo si ferma, commenti, parole, qualche starnazzo, ma quasi “gentile”, da parte dei due uccelli che sembrano molto interessati all’incontro. I bimbi osservano con interesse il dimorfismo sessuale tra i due animai e chiedono alle maestre: “Perché il maschio è più bello della femmina?” Infatti il “germano” è multicolore e di un verde cangiante sul collo, mentre la “germana” è (solo) di un marroncino diffuso. Le maestre esitano a rispondere, poi lo fanno con qualche imbarazzo: “Perché i maschi devono interessare le femmine, farsi scegliere, e allora madre natura li ha resi più appariscenti…, così possono avere più possibilità di trovare una compagna e di far nascere i paperini…” Silenzio. Chissà cosa passava per ognuna di quelle testoline. Forse un paragone con gli esseri umani, forse.

Quando ero bambino come loro, sette/ ottenne, non sapevo bene come nascessero i paperini, e neppure come venissero al mondo i bambini.

Me ne vado pensando che io sono nato e vissuto tra gli animali da cortile, non nel pollaio, ma contiguo al pollaio, e per me vedere galline, anatre, oche, tacchini e conigli, e anche il maiale, era il quotidiano, e per quei bambini no.

Un mondo cambiato, in qualche modo non in meglio.

Dalla Liquentia (la Livenza) al Soça (l’Isonzo), passando per il Cellina-Meduna, il Noncello, il Sile e il Fiume, il Tagliamento e lo Stella, il Torre e il Natisone, i verdi fiumi del Friuli, fanno da “basso continuo” agli idiomi del Friuli che, dall’Italiano nazionale, accolgono nel novero anche parlate Slave e Germaniche, mentre il Friulano, da una base neo-latina si avvale di prestiti preziosi che vengono dal Nord germanico e dall’Est slavo, in un dia-logo straordinario fra diversi

Fiumi alpini e fiumi di risorgiva, verde smeraldo e verdolino trasparente tra i sassi, verde cupo e quasi olivastro… d’infinite sfumature, le acque del Friuli brillano. Da Ovest a Est, dal tramonto all’alba, da Occidente a Oriente: la Livenza (sicut narrat amicus Fulvius Portusnaonensis) nasce dalle Prealpi pordenonesi, a Polcenigo e dintorni, in località Santissima, e da una profondissima polla che viene dagli abissi del monte attraverso un sifone senza fine, chiamata Gorgazzo, e da lì serpeggia per l’Alta pianura con meandri dolcissimi, attraversando la femminea Sacile onusta di palazzi veneziani specchiantisi nel fiume, prima di sconfinare in Veneto, fino alla foce tra Caorle e Jesolo. Liquentia itaque transit per campagne di coltivi e di messi, e di vigneti ricchi dell’aroma cui dedicano vite e risorse da antichi vinificatori i loro discendenti.

Il Tagliamento è il magno fiume alpino. Dal Passo della Mauria a Lignano scorre per centosettanta chilometri portando a valle l’infinito di sassi e pietre da milioni di anni. Integro, selvaggio, desertico negli alvei smisurati, che si slargano fino alla massima larghezza dei fiumi d’Italia, assieme al Piave, al Ticino, al Sesia e al Po, il Tiliaventum scorre in alvei sempre diversi, a volte turbinoso e tremendo, come quando con acque limacciose sconfina oltre gli antichi argini, iniziando furenti scorribande fra le golene, dove l’uomo qualche volta osa costruire ricoveri, che il fiume sconquassa, perché l’acqua torna sempre dove è già stata, mentre l’uomo di questo a volte non ha memoria, e a volte scorre quieto e mormorante tra boscaglie di ripa ospitante animali di ogni genere e specie.

il fiume Stella

Lo Stella sgorga sulla linea delle risorgive, ma le sue acque sono – più o meno – le stesse, montane, del Tagliamento, che in parte si inabissano nella morena delle alte Terre di Mezzo del Friuli, e ricompaiono con il nome di Corno. Lo Stella: fiume di risorgiva, che vien fuori dalla terra in un rigagnolo a Flambro, sulla Stradalta, ma dopo una decina di chilometri già si può navigare con barche dal fondo piatto. Lo Stella è un poema, capace di rime incrociate con i suoi affluenti, come il Corno che scende dalla morena di San Daniele e Fagagna, e più a Sud tra i boschi del paese di Rivinius, centurione augusteo, compensato dal princeps primo imperator, con campagne rigogliose di viridescente verzura, prende il nome di Taglio, diventando il maggiore dei tributari. Si può contemplare lo Stella già nel borgo romito di Sterpo, dove scorre spingendo le ruote infaticabili di un antico molino, e a Flambruzzo, ove rispecchia il castello, in attesa di ricevere il contributo d’acque del Taglio, del Torsa e del Miliana, fino a conferire dovizia imperiosa d’acque profonde nella salmastra laguna che si adagia tra il borgo pescatore di Marano e la immensa Lignano… che è come circondata dai due fiumi, il Tagliamento a Ovest e lo Stella a Est.

L’Isonzo è nativo di là delle montagne Giulie, come sorgente. Attorno ai suoi primi zampilli si ergono le più grandi montagne del Nordest, il Triglav, lo Jalovec, la Sklratiça, per poi scendere verso il confine di Gorizia. Il colore delle sue acque è smeraldino, riflettendo alti cieli e floride boscaglie, che lo costeggiano.

Segna più o meno il confine tra la Slavitudine infinita la Furlanja taliana. Assieme con il Torre, il cui alveo è spesso desertico, e il Natisone, che in esso confluiscono più a valle.

A Oriente si incontrano, appunto, il Natisone e il Torre, mentre a Occidente scorrono il Meduna e il Cellina, imitatori alpini del Tagliamento. Il Noncello, mi suggerisce l’amico Romeo, raccoglie acque inabissate del Cellina, Nau Cellius, ad echeggiare la città perduta di Caelina, dal nome antico. Il fiume che bagna Cividale viene dalle montagne slovene tra gole profonde e si incastra nelle forre selvagge.

Fiumi continui come il Natisone e altri a regime torrentizio come il sistema Cellina-Meduna e il Torre, portano acque a Sud, verso l’Adriatico e quindi al Mare nostrum.

Un solo fiume, lo Slizza, che scorre a Nord Est nel Tarvisiano, si diparte dalla Sella di Camporosso e procede verso la Drava e dunque il Danubio.

Anche questi aspetti attestano come il Friuli sia la Terra del Confine per eccellenza della nostra Italia. Il confine interno di un’Europa che viene definendosi ancora, nella Storia grande e in quella quotidiana della politica e dei conflitti.

I fiumi sono arterie vitali che irrorano di vita le terre del confine e assomigliano alle lingue parlate, che “stanno dentro” la lunghissima istoria degli idiomi locali, filiazioni dirette delle antiche radici linguistiche dell’Europa intera: l’Italiano, lo Slavo delle Valli del Natisone, del Torre e della Val Resia, il Tedesco medievale di Sauris – Zahre e di Sappada – Pladen, il Friulano che – su una base neolatina – vive di prestiti formidabili dai contigui Slavo e Tedesco. Mentre a Grado canta Biagio Marin in un Veneto, antico idioma del mare, come a Marano, sull’altra laguna…

Una ricchezza ineguagliabile, quella dei fiumi e quella delle lingue, che ancora di più spicca in questi momenti drammatici della storia dell’Europa, quasi ispirando l’unico modo della convivenza tra diversi, l’eterno Dia-Logo, cioè la parola-che-attraversa spazi fisici e mentali e confini di tutti i generi, nell’unità sostanziale dell’essere umani.

“La Ragione e il Sapere parlano, il Torto e l’Ignoranza urlano”

Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.

È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.

La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?

Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.

C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.

Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.

Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.

Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?

Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).

Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.

Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.

Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.

A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.

Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.

Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.

Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.

“Gelosia” vs. “Invidia”: vizi? L’invidia senz’altro: secondo la dottrina morale classica è, dopo la superbia, il vizio più grave. La gelosia invece non lo è, se non quando è esagerata e può impedire la crescita di persone meno esperte, nel lavoro e nella vita, oppure quando pretende di avere il dominio su un’altra persona

Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.

San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).

Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.

Power Point

Emmanuel Macron-micron (un tempo al suo posto ci sono stati il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou, François Mitterrand), Olaf Scholz (un tempo al suo posto ci sono stati Konrad Adenauer, Willy Brandt, Helmuth Schmidt, Helmuth Köhl), Giorgia Meloni (un tempo al suo posto ci sono stati Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Bettino Craxi, Mario Draghi) etc., di un’Europa piccolina

Già ebbi modo di scherzare un pochino sull’etimologia greca del nome del Presidente della Francia Macron e sulle radici makromikro, grande-piccolo. Il suo nome, poi, Emmanuel, in ebraico Dio-con-noi, se viene collegato a makron dà il senso di un nomen-omen e di un de-stino, cioè di un ìsthemi, verbo greco, cioè stare, che è tutto un programma, come insegna Emanuele Severino. Un presidente della Francia scarsetto, che vive all’Eliseo come a loro tempo ivi vissero e presiedettero la Francia il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou e François Mitterrand.

Willy Brandt

Scholz, il Cancelliere, mi echeggia una parola friulana “discolz“, che significa scalzo, proprio senza scarpe. Ebbene, quest’uomo, socialdemocratico come Willy Brandt e Helmuth Schmidt, ma di statura ben più piccina, mi sembra veramente “scalzo”, rispetto alle enormità politiche che deve affrontare come leader politico della maggiore potenza economica europea. Scarso dialogicamente, scarso come presa sui problemi, incerto e debole nelle scelte che spesso rinvia o rende confuse. Comprendo bene che il “capo-della-Germania” abbia qualche problema storico-politico-psicologico quando si entra su temi militari, e in particolare quando si potrebbe trattare di inviare all’Ucraina, affinché possa difendersi meglio dall’aggressione russa, i potentissimi carri armati Leopard 2, il cui nome echeggia quello del grande e bellissimo felino africano. Dietro questi pensieri viene alla mente un altro nome, quello dei Tigre (questa volta il riferimento è al più grande e forte felino del mondo) al comando del Feldmaresciallo Von Manstein, che nel 1941 sbaragliarono l’Armata Rossa arrivando fino a trenta chilometri da Mosca, fino a Leningrado e a Sud fino a Stalingrado sul Volga.

Poi, sappiamo che furono respinti e sconfitti da Stalin a Est e dagli Alleati a Ovest.

Di Meloni dico questo: qualche mese fa auspicavo che non vincesse le elezioni, dopo che l’inqualificabile Conte aveva fatto cadere il Governo Draghi, sperando che si creassero le condizioni per un prosieguo di quel Governo, di fronte ai problemi che nel frattempo erano sorti, a partire dal 24 Febbraio 2022, il giorno in cui il folle cinismo putiniano aveva scatenato l’aggressione contro l’Ucraina, Europa. Nonostante anche la Russia sia “Europa” fino al midollo, pur essendo immersa nelle vastità sarmatiche dell’Asia.

In quattro mesi la donna politica destrorsa ha lavorato come poteva, cercando di tenere a bada i due alleati che si è ritrovata al fianco, e che spesso si muovono più a suo danno, che sorreggendola. Fermandomi a giudicare la politica di questo Governo di destra-centro, osservo senza alcuna esitazione che questa donna giovane, neanche laureata, una underdog, come lei stessa si è definita con un po’ di malizioso e un po’ snobistico understatement, è molto più capace di quello che si poteva pensare e soprattutto è preferibile, come comportamenti e atti, ai suoi due qui non citati (non occorre farlo) alleati. In altre parole, se la sta cavando abbastanza, anche quando i suoi le fanno sgradevoli scherzi (per modo di dire) come quello del signor Donzelli in Parlamento sul “caso Cospito”. Aggiungo, di giornata, che Meloni deve anche affrontare le conseguenze non di poco conto di ciò che il suo sodale Berlusconi ha ripreso a dire nelle ultime ore/ giorni circa la responsabilità dell’aggressione russa all’Ucraina… che Zelensky avrebbe aggredito il Donbass, non che Putin lo avrebbe fatto con l’intera Ucraina mandando i suoi carri armati fino alla periferia di Kijv e bombardando la grande Nazione ucraina fino ai confini moldovi e polacchi. Mi auguro che Tajani e qualche altro di buon senso riescano a moderare il Cav e a consigliargli di fare, finalmente, il nonno a tempo pieno.

Ma debbo, però, volgere lo sguardo anche a sinistra e… Je sui desolé! Come canta Mark Knoplfler senza i suoi Dire Straits.

Non voglio nemmen parlare del 5S che sono poca cosa, culturalmente e politicamente, anche se incontrano l’attenzione di poco meno del 20% degli elettori. Volgo la mia attenzione al PD, cioè al partito che dovrebbe guidare con saggezza l’altra parte della politica e la mia desolazione raggiunge un’acme che non avrei mai previsto. Ora, questo partito sta rinnovando la segreteria, alla quale concorrono due candidati di bandiera, uno dei quali è l’on.le Colonnello dei Dragoni Cuperlo, che rispetto e con il quale mangerei una pizza e farei una riunione cultural-politica, e l’altra è l’on.le De Micheli, che rappresenta il medium demostrationis sillogistico e la quinta essenza della mediocritas (per nulla aurea).

Sono poi scesi in agone (che agonìa!) il signor Stefano Bonaccini e la signora Elly Schlein. Il primo è un classico e solido amministratore emiliano, la seconda è una giovane donna di cui fino a quattro o cinque mesi fa non avevo avuto contezza né notizia. Andrò al Gazebo tra qualche giorno, pagherò i due euro o tre per partecipare, e sceglierò Bonaccini (e qui invito gentilmente i lettori che mi leggono e che si recheranno al gazebo, a fare come me). Sceglierò Bonaccini per le ragioni sopra esposte e non la Schlein perché non ho alcuna ragione per sceglierla, anzi, ho alcune ragioni che ho maturato in queste settimane per non sceglierla: troppo sapientina a fronte di conoscenze scarse e deboli della realtà sociale VERA. Ciò deduco ascoltandola, con un po’ di fatica e non malcelato fastidio.

Ho già scritto che lei avrà incontrato in tutta la sua vita meno imprenditori e lavoratori di quanti ne ho incontrati io in un giorno solo.

Pertanto, per logica consecutio, dovrei candidare me stesso alla Segreteria del PD. Se la cosa fosse plausibile farei un’operazione molto semplice: 1) proporrei di far riconoscere al Partito, oltre ogni plausibile critica e accusa di anacronismo, che nel 1921 a Livorno si fece un ferale errore a sinistra, con inalterato rispetto per Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Amadeo Bordiga, e 2) di chiamare il Partito: “Socialista Democratico”, questo farei.

E subito dopo: 3) proporrei di smetterla con il politicamente corretto, 4) di smetterla con i sospetti verso gli imprenditori “affamatori”, perché non siamo da tempo più nell’Ottocento e neanche nel Primo e nel Secondo dopoguerra, 5) proporrei di abbandonare la possibilità di attuazione pratica del marxismo filosofico-politico (mantenendo ammirazione, stima e rispetto per il Marx economista e sociologo), perché incapace di com-prendere una sana Antropologia filosofica, come si fece in Germania a Bad Godesberg nel 1959, quando la SPD fece altrettanto e governò quella grande Entità di popolo, nazione, cultura, lingua ed economia che è la Germania.

6) Proporrei di semplificare molte leggi, 7) proporrei di dividere le carriere in magistratura tra procuratori e giudici, 8) proporrei di attuare l’art. 27 della Costituzione rivedendo l’ergastolo come pena assoluta, per riuscire a distinguere caso per caso, e poter assumere decisioni proporzionate a ogni caso, là dove la resipiscenza possa essere strumento moralmente pratico per un reinserimento sociale di chi ha commesso anche gravi reati/ peccati… E molto altro, in questo senso.

Questo farei se la sorte, il destino, la vita mi avessero portato alla candidatura alla segreteria di ciò che resta della tradizione progressista della Storia italiana dell’ultimo secolo.

Male e Bene in TV: a) mega stupidaggini e stupidità televisive fino al nihil universale della influencer regina, da un lato; b) il nobile giovane volto del dottor, tenente e compagno Cesare Battisti, dall’altro

Ogni volta che mi pongo all’ascolto di qualche tg comincio a inorridire ancora prima che inizino a parlare, già in attesa di errori e mezzi sproloqui. Refusi sostanziali e formali, di pronunzia, per toni e timbri sbagliati o sgradevoli: almeno una metà dei “lettori/ lettrici” di notizie (sono giornalisti/e costoro?) non è all’altezza. Qualcuno è addirittura nelle condizioni oggettive di dover fare, per deontologia professionale, un corso breve pratico di respirazione e dizione. Tra costoro ho in mente un “lettore” del tg2 delle 20.30, più “cagionevole” di altri, che per caritas paolina non citerò per nome.

Ricordo, di contro, le meravigliose dizioni della tv a canale unico e in bianco e nero, e la chiarezza espositiva, degli Ottavio Di Lorenzo, dei Gianni Bisiach, dei Demetrio Volcic, dei Ruggero Orlando e dei Piergiorgio Branzi, tra altre decine di valorosi professionisti della notizia comunicata. Persone che facevano il concorso Rai, lo vincevano ed entravano nei ranghi, al massimo dotati di diploma di scuola superiore. Fino agli anni settanta del secolo scorso i giornalisti laureati in Rai erano pochissimi. Oggi sono tutti laureati e, nonostante ciò (ma sappiamo che un diploma di laurea non è sufficiente ad attestare una buona cultura e una conseguente proporzionata professionalità), si mostrano spesso come spiego sopra, nel loro lavoro.

I commenti televisivi alla stampa quotidiana sono spesso faziosi e schierati, e non tra-le-righe (come una certa qual eleganza vorrebbe), ma in tutta evidenza, quasi a far pensare che il commentatore possa essere pilotato… Sono ingenuo?

Poi vi sono degli animatori o conduttori o mezzi-comici (più “mezzi” che comici) come Fiorello, che non capisco come faccia a piacere, se non interpellando la campana di Gauss che mi ricorda dell’80% dei tipi umani che sono utenti delle tv.

amenità in tv

Vi sono poi gli immarcescibili, incapaci di smettere, come Morandi “capelli tinti” e Vanoni rifattona. Uno di costoro, anche se immensamente meritevole per la sua capacità divulgativa, fino alla sua dipartita, è stato Piero Angela. Anànke stènai, insegnava Aristotele: bisogna sapersi fermare. In tempo. Appunto. In quel caso non è stato il caso.

Ha evidenza immensa la regina delle influencer italiane, Chiara Ferragni, che miseramente sfarfalleggia sulla scala festivaliera sanremese che fu di Wanda Osiris, capace di ben altre e più rarefatte eleganze.

Cito solo, per la loro sgradevolezza e inopportuna militanza, le Littizzetto e le Gruber, così come qualche colto (colto?) ingannatori à là prof Orsini. E non confondiamolo con il prof Orsina, di tutt’altra tempra.

Di politici tipo Conte ho già scritto fin troppo e non mi ripeto. Mi auto-annoierei.

E poi i detti e gli scritti giornalistici. L’ultimo, ancora “apocalisse” per descrivere il terribile catastrofico terremoto anatolico-siriaco-caucasico di questo febbraio 2023. Non ce la fanno a non-scrivere “apocalisse”, che non significa disastro o catastrofe o ecatombe (lett.te “Strage dei cento buoi”, evidente metafora), ma significa “rivelazione”. Rivelazione di cosa, il terremoto? Dei movimenti della terra, irresistibili e imprevedibili? Cui l’uomo (in questo caso Erdogan) presta la sua insipienza e incultura e inciviltà costruttiva.

Per rifarmi l’anima , sollecitato da un bel servizio dato su Rai Storia, propongo un breve racconto mio della vicenda di Cesare Battisti (Trento 1875-1916), italiano, irredentista moderato, autonomista, studioso di diritto e di geografia, tenente degli Alpini, compagno socialista riformista. Impiccato con un ghigno soddisfatto dal boia imperiale Josef Lang, venuto appositamente da Vienna, dopo 48 ore dall’arresto in divisa di tenente degli Alpini sul Monte Corno (ora Monte Corno-Battisti) nel massiccio del Pasubio. Ex Deputato a Vienna e nella Dieta provinciale di Trento. Involontario omonimo di un criminale.

Cesare Battisti (1875-1916)

Colpisce vedere la foto di un Battisti giovane tra altri giovani liberali, socialisti e cattolici verso la fine dell’800, che manifestano a Innsbruck, capoluogo del Tirolo, per ottenere dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria una Facoltà di Giurisprudenza in Lingua italiana. Tra le file si riconoscono Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, che poi furono arrestati e fecero qualche giorno di carcere per manifestazione non autorizzata.

Colpisce ascoltare la lettura di una lettera che Battisti, direttore del quotidiano trentino Il Popolo, scriveva al “compagno” Mussolini che nel 1909 si trovava a Trento, come giornalista del Giornale del Lavoratore. Gli chiedeva se conoscesse qualche giovane bravo e motivato politicamente per aiutarlo nel giornale da lui diretto.

Colpiscono queste due situazioni, la prima con colui che sarebbe stato il principale ricostruttore dell’Italia post fascista (De Gasperi), la seconda con colui che l’Italia aveva distrutto (Mussolini). La Storia. I suoi paradossi e le scelte che portano ciascun essere umano a stare da una parte o dall’altra. Ci si chiede come mai le strade dei due socialisti si divisero radicalmente, mentre le strade di Battisti e di De Gasperi, sia pure in modo diacronico, si sarebbero ritrovate nell’Italia democratica e repubblicana.

Qualcosa su Cesare Battisti, sulla sua figura. Sulla parte migliore di questa nostra Patria Italia.

Sull’attuale gravissima “crisi-del-pensiero-critico” e della qualità del dibattito politico: il “caso Cospito”. Alcune riflessioni sull’Anarchia, sullo “Stato di Diritto”, sull’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana e sul carcere

Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).

Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.

Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).

Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza +
ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).

Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?


François-Marie Arouet – Voltaire

Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).

Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismo rivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.

Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.

Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.

Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.

L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.

Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.

A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.

Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).

La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.

Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.

La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.

E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.

Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.

Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.

Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.

Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.

Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.

In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.

A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.

Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.

Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…

Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.

Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!

Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.

E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.

L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.

“Attentato alla laicità dello Stato”: con meraviglia leggo che questa affermazione di alcuni esponenti politici è legata alla presenza di un’immagine della Sacra Famiglia, Gesù, Giuseppe e Maria, nelle corsie un un ospedale veneto

Il fatto citato nel titolo mi ha rammemorato un altro analogo, quando una ventina di anni fa l’assessore regionale alla sanità del Friuli Venezia Giulia (era Beltrame?), voleva togliere le dizioni di Santa Maria della Misericordia e di Santa Maria degli Angeli, rispettivamente ai due grandi ospedali civili di Udine e Pordenone, sostituendoli con la mera burocratica dizione di Azienda Sanitaria n. X e Azienda Sanitaria n. Y, più o meno per le medesime “ragioni” del caso registrato in Veneto in queste settimane di inizio 2023.

Ragioni motivate dalla supposta non-laicità di quelle dizioni.

Tra l’altro, quell’assessore era del PD, come alcuni dei ricorrenti veneti (aiutati dai “valorosi” 5S), partito, il PD, che ho già a volte votato e che forse, molto forse, voterò ancora (soprattutto se il nuovo segretario sarà Stefano Bonaccini e non la improbabile parvenù italo-germanica).

Il primo pensiero che mi ispirano queste iniziative è quello che attesta una madornale ignoranza culturale, storica e religiosa degli autori. Costoro non hanno idea di che cosa abbiano significato le raffigurazioni sacre nei vari tempi storici, fin dalle iconografie catacombali, se ci riferiamo anche solo alla tradizione cristiana.

Dai tempi degli xenodokeia dei primi secoli dopo Cristo, che erano ricoveri atti ad accogliere viandanti e poveri che si trovavano nottetempo per strada (xenodokeion significa, in greco, “casa, rifugio per lo straniero”), esposti alle intemperie e ai banditi, tutta la tradizione europea e cristiana ha visto svilupparsi un sistema che correlava le strutture religiose con il soccorso e l’aiuto alle persone, senza distinzioni di qualsiasi genere e specie.

I monasteri e le chiese, così come i castelli medievali (molto meno) erano luoghi di soccorso, dove le immagini sacre, che sono sempre state la “Bibbia del popolo” analfabeta, erano diffuse ovunque. Pensare a un’Italia e un’Europa senza chiese e senza campanili, a un’Italia e un’Europa senza musica sacra, a un’Italia e un’Europa senza la sua iconografia sacra sarebbe un’assurdità antistorica. Ebbene, questi politici veneti se ne rendono conto? Oggi i tempi sono cambiati, potrebbero dire, ma… ad esempio, sono al corrente di ciò che significa il concetto di laicità, in san Paolo e di ciò che si debba intendere con il termine làos, che significa popolo, in greco, e in san Paolo?

Conoscere bene questi termini, permette di discernere tra laicità e laicismo, laddove il primo termine è semplicemente la sostantivazione astratta del termine “popolo” (làos), mentre il secondo è il peggiorativo. La laicità è non solo legittima, nella distinzione tra dimensione del religioso e del civile, ma obbligatoria, doverosa, mentre il laicismo è una sorta di deformazione polemica e inutilmente militante.

Torniamo alla pittura di soggetti sacri o religiosi, come nel caso citato: se abbiamo paura della Sacra Famiglia in nome del politically correct, oltre ad essere una pura idiozia, non conosciamo nemmeno l’opinione di chi potrebbe essere (o non) disturbato da quelle immagini, come i musulmani.

Ebbene, proprio in Veneto, nel Trevigiano, alcune famiglie musulmane hanno mostrato di amare il presepe, quando una preside non voleva ammetterlo nell’istituto comprensivo da lei gestito, comunicando che la vicenda della nascita di Gesù apparteneva anche alla loro tradizione. Così come il sistema delle Caritas non si ferma a un’attività intra-cattolica, ma è rivolta al mondo, come prevede il katà òlon, che vuol dire secondo-il-tutto, la cattolicità nel senso etimologico più profondo e vero, che perfino Fidel Castro capì molto bene, perché Gesù di Nazaret e l’Evangelo di lui appartiene a tutti, ed è fonte di ogni dottrina umanitaria.

Nel Corano, Maria di Nazaret è la donna (tra tutte le donne) più citata, specialmente nella sura 4. La leggano i detrattori della Sacra Famiglia del PD e dei 5Stelle!

Forse potrebbero imparare qualcosa di utile per sé stessi, e anche per la loro attività politica.

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