Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

“Aeternitas (est) interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio”, vale a dire che “l’eternità e il perfetto possesso di una vita interminabile”. Bene: voglio inserire… nell’eternità la storia brevissima del “progressismo” (che non è sempre positivo: ad e. come nell’industrializzazione forzata voluta e attuata da Stalin nell’Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta del XX secolo, et alia) e della “conservazione” (che non è sempre negativa: ad e. nella conservazione della memoria e dei beni culturali, et alia), della “destra” e della “sinistra”: come sono cambiati nel corso del tempo e fino a noi i contenuti politici e ideologici dei due schieramenti post Rivoluzione Francese. Media e comunicazione in tema di politica generale, maggioranze, opposizioni, ovvero i “giudicanti” e i “giudicati”, etc. Occorre partire da un “ente eterno” (per chi crede in Dio o nell’Essere, che possono essere e non-essere la medesima “cosa”), o dalla Storia (per chi non crede né in Dio né nell’Essere), che deve essere conosciuta, anche per discorrere con cognizione e honestas intellectualis delle grandi e piccole cose del nostro tempo

Eternità è un concetto metafisico, che sta-oltre-la-fisica, che è immisurabile con le scienze dure dell’uomo, la fisica, la biologia e subalterne.

Il tempo è quella cosa di cui sant’Agostino dice di non sapere nulla se gli si chiede che cosa sia, e che afferma di saperlo, se nessuno lo interpella in merito; il tempo è qualla cosa che il professor Einstein ha collegato necessariamente allo spazio in-ventando (cioè trovando) una nuova dimensione plurima, lo spaziotempo.

Lo spaziotempo “è” (meglio che “ha”) una dimensione sia fisica sia metafisica, come la coscienza, secondo il professor Federico Faggin che scherza con i quanta-qualia. Il professor Giorgio Giacometti studia a tempo pienoperso la coscienza, senza pretendere di venirne a capo facilmente, come fanno diversi altri presumidi.

La metafisica è il sapere autoconsapevole della trasparenza epistemica, vale a dire il sapere dei fondamenti: essa tratta dell’essere (come ciò-per-cui-l’ente-è e dell’ente (come ciò-che-ha-l’essere), dell’essenza (come ciò-per-cui-l’ente-è-ciò-che-è) e del divenire come successiva manifestazione dell’essere (Parmenide&Eraclito vs. Aristotele).

Martin Heidegger rivitalizza la metafisica inserendo la nozione dell’esistenza nell’essenza dell’essere, con il suo Da-sein, l’esser-ci, per cui l’agire umano si esplicita ontologicamente. L’ontologia, con il maestro di Edith Stein e di Hannah Arendt.

Edith Stein e Martin Heidegger divergono, nonostante la loro vicinanza e le influenze fenomenologiche condivise con il loro comune maestro Edmund Husserl. Mentre Heidegger si concentrò sull’ontologia, l’essenza dell’essere e la finitezza umana, Stein cercò un percorso verso la trascendenza e la pienezza dell’essere attraverso la fede e la teologia, culminando nella sua vita come martire cristiana. 

Hannah Arendt e Martin Heidegger ebbero una lunga e complessa relazione personale e intellettuale iniziata nel 1924, quando lei era un’allieva di 18 anni e lui un professore di 35 a Marburgo. La loro storia fu segnata da passione e divergenze filosofiche, culminando nella separazione definitiva nel 1933, quando Heidegger aderì al nazismo e Arendt fu costretta all’esilio, pur riprendendo il carteggio anni dopo. Nonostante la loro separazione, la loro relazione amorosa e intellettuale continuò a influenzarsi reciprocamente per tutta la vita. Non ci si può limitare ad esprimere un giiudizio su Heidegger solo sul fatto (gravissimo a giudizio di noi posteri) di una sua prima adesione al Nazionalsocialsimo, come fa qualche studiosa italiana (D. Di Cesare). Nel 1933, quando fu nominato rettore dell’Università di Friburgo, il filosofo lodò chi stava facendo ri-sorgere la Nazione tedesca, ma poi, già l’anno successivo se ne distaccò nettamente. Anche Davide Lajolo e Dario Fo, tra non pochi altri, prima di diventare comunisti furono fascisti. Memento homo!

Se si crede nella trascendenza spirituale, Dio è-l’essere-per-sé-sussistente (Tommaso d’Aquino). Se non si crede in Dio, si decide per l’eroicità della solitudine: è un agere etsi Deus non daretur (J. Ratzinger). Il bene morale dipende dall”agire libero dell’uomo, sia egli credente, sia agnostico. La fede, di per sé, non dà la bontà, ma può aiutare. Come insegnava Kant la religione può aiutare a fondare la morale, cioè il discernimento tra detti e azioni male e detti e azioni buone (cf. Critica della Ragion pura pratica).

Non trattare mai l’uomo come mezzo, ma sempre come fine… fai in modo che la massima del tuo agire possa costituire legislazione universale” (mia parafrasi di un passaggio del testo kantiano sopra citato).

In Genesi 1, 27 si legge che “Dio fece l’uomo a sua immagine”; nella Lettera ai Galati 3, 28 san Paolo scrive “Non c’è né Giudeo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina; perché voi siete tutti uno in Cristo Gesù” (οὐκ ἔνι Ἰουδαῖος οὐδὲ Ἕλλην, οὐκ ἔνι δοῦλος οὐδὲ ἐλεύθερος, οὐκ ἔνι ἄρσεν καὶ θῆλυ πάντες γὰρ ὑμεῖς εἷς ἐστε ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ).

Questi sono i fondamenti del principio dell’uguaglianza universale tra tutti gli esseri umani. I fondamenti su cui tre/quattrocento anni fa l”Illuminismo franco-anglo-americano dettò le prime Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo, poi richiamate nel 1948, cioè l’altro ieri.

Il fondamento dell’uguaglianza tra gli essere umani è innanzitutto biblico-evangelico (Genesi: פרשת בראשית), echeggiato anche nel القرآن‎?al-Qurʾān, per cui chi ha rifiutato di inserire questo richiamo nel preambolo della Costituzione europea, non conosce la storia. La storia culturale e morale dell’Europa si fonda, da un lato sulla cultura filosofica greco-latina e dall’altro sul plesso giudaico-cristiano, così come promana dalla Bibbia, dai Vangeli e dalle lettere apostoliche di san Paolo, di san Pietro, di san Giovanni, di san Giacomo e di san Giuda Taddeo (che non è l’Iscariota), che era forse parente di Gesù, come Giacomo.

Nel Corano l’uguaglianza tra tutti gli uomini è richiamata principalmente nel versetto 13 della Sura 49 (Al-Hujurat). Questo versetto afferma che tutti gli esseri umani sono stati creati da un maschio e una femmina e da ciò derivano popoli e tribù, ma la distinzione migliore davanti ad Allah è solo quella basata sulla devozione e sulla pietà, non sull’origine etnica o sociale. E’ evidente che i fondamentalisti, tra cui Hamas (lo sa dottoressa Albanese?) non sono buoni musulmani.

Al di là di questa “letteratura”, ad esempio nel plesso filosofico-religioso dell’Oriente (hindu-buddista, taoista, confuciano, scintoista, etc.) che è culturalmeente e storicamente altrettanto importante, non vi sono tracce chiare di concetti come “uguaglianza, giustizia, libertà”. La nozione di “persona”, con il suo annesso valore assoluto, è essenzialmente e soprattutto cristiano. Persona come individuo umano: i termini “individuo” e “persona” non sono sinonimi! E’ individuo anche un abete rosso, come ci spiegano i botanici, ma non è persona.

Sulla base delle citate lezioni filosofico-religiose, la nozione di “persona” attribuita all’essere umano assume valenza socio-politica e giuridica solo qualche secolo fa con l’Illuminismo. I successivi sviluppi liberali e socialisti sono anch’essi derivati dal concetto cristiano di persona. Chi se lo dimentica, non conosce la storia.

Ciò detto, possiamo trattare con chiarezza, cioè su uno sfondo storico corretto, le distinzioni moderne e contemporanee di progressismo e conservazione, a partire dall’affermazione che ambedue i termini sociologico-politici sono “figli” dell’Illuminismo. Dovrebbe bastare questa frase per spiegare a chi non accetta l’avversario politico in una democrazia parlamentare, che – così facendo – si colloca semplicemente al di fuori della storia, in quanto la ignora. Se una persona non vuole conoscere volontariamente la storia è moralmente colpevole. Ripeto: sto parlando del contesto di una democrazia parlamentare o anche presidenziale come in Francia e negli USA. Per quanto concerne le dittature, sia quelle orribili del secolo scorso (collocate, alla grossa, sui due versanti di progressismo: URSS, Cina Popolare, Corea del Nord, Cambogia khmer, etc., e conservazione: Italia fascista, Germania nazista, Giappone militarista, Spagna franchista e Cile di Pinochet, etc.), ma i termini sono molto imprecisi), sia quelle odierne, devono essere trattate in modo differente.

Il termine progressismo deriva dal lemma verbale latino progradior, vale a dire, incedo, avanzo. Il progressismo è pertanto la dottrina che priivilegia l’avanzamento in senso generale, sia esso economico, sia sociale e politico. E’ essenzialmente progressista il secolo diciannovesimo con la sua visione tecno-scientifica della produzione industriale, da un lato, e con il diffondersi delle teorie socialiste e del sindacalismo dall’altro, anche a danno dell’agricoltura, ma nel contempo detta visione comprende anche lo sfruttamento di enormi masse contadine-operaie, di cui si occuparono dei “progressisti” sociali come i comunisti e i marxisti (attenzione: comunismo e marxismo non sono sinonimi). Con enormi contradizioni: ad esempio il progressismo industrialista nella versione staliniana, provocò milioni di morti con l’affamamento e la deportazione di enormi masse contadine dall”Ucraina (Holodomor, 1932-1934) e non solo e lo sfruttamento dei condannati ai gulag In russo, “Gulag” si scrive in russo ГУЛаг (GULag), acronimo di Главное управление исправительно-трудовых лагерей (Glavnoe upravlenie ispravitel\’no-trudovych lagerej), che significa “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”. Il Gulag fu il sistema industriale coatto che coinvolse milioni di esseri umani, molti dei quali, condannati con pretesti e delazioni a molti anni di detenzione, perirono di freddo e di stenti. Tutta l’Unione Sovietica, dal Mar Bianco alla Kamchatka, dagli Urali al lago Bajkal, era punteggiato di Gulag. Per ottomila chilometri spesso oltre il Circolo Polare Artico. Soprattutto in Siberia (come il Sevvostlag lungo il fiume Kolymà e il Norillag vicino a Norilsk) e nelle zone a nord (come Vörkuta). Letture consigliate: Arcipelago Gulag, Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Isayevich Solzhenitsyn, e Racconti di Kolymà di Varlam Tichonovič Šalamov.

Il tema del genocidio et similia

Un tema attuale altamente divisivo secondo uno schema diverso da quello di cui abbiamo parlato sopra è quello del genocidio. Infatti, esso divide anche chi sta (o crede di stare) a sinistra. Talora in modo radicale, soprattutto negli utlimi anni.

Vi è infatti una nuova divisione all’interno della sinistra, che è caratterizzata da contaminazioni culturali che nulla c’entrano con la sua storia ovvero possono addirittura derivare dalla destra. Un esempio: si nota che i sostenitori di Putin, non avendo alcuna attenzione per il Popolo ucraino, di solito vanno in piazza con i pro-pal; a volte costoro sono anche woke e ferocemente anti-patriottici.

Eppure Putin è un uomo di destra, come mostra la vicinanza al suo partito Russia Unita della Lega italiana e del Rassembement Nationale francese di Marine Le Pen, oltre che di altri movimenti e partiti europei di quell’area politica. Ma sta con lui anche il Movimento 5 Stelle contiano, che vorrebbe mostrarsi di sinistra, ma ha già fatto un governo con la destra. Un casino? Sì. Perciò bisogna discernere bene le cose.

Il genocidio è una metodica e completa distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali:

Shoah 1942-1945, Holodomor 1932-33, Armeni 1917, Ruanda 1994, Bosnia-Erzegovina 1995, Cambogia 1979, assiri e greci del Ponto 1917 etc., Herero e Nama, Namibia 1904, perpetrato dai Tedeschi), Guerra civile etiope, carestia 1983-1985, Curdi, Saddam Hussein 2002, Darfur 2003-2025, epoca coloniale Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Italia, Belgio (Leopoldo II) secc XVII-XX, Nativi americani XIX, i pogromi dalla Spagna del XI secolo alla Russia del XIX in poi, e altri.

Vediamo storicamente meglio l’argomento sotto i vari profili giuridici e politologici: l’11 dicembre 1946 l’Assemblea generae delle Nazioni Unite, con la risoluzione 96 (I), definì il genocidio come «una negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani, poiché l’omicidio è la negazione del diritto alla vita dei singoli esseri umani». La risoluzione precisava inoltre che «molti casi di tali crimini di genocidio si sono verificati quando gruppi razziali, religiosi, politici e di altro genere sono stati distrutti, in tutto o in parte».

Il 9 dicembre 1948 fu adottata, con la risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio scritta con il contributo dell’avvocato polacco Raphael Lemkin (che fu il primo estensore della declaratoria socio-giuridica del termine genocidio), anche sulla scorta dell’esperienza del processo di Norimberga. L’articolo II della Convenzione definisce esplicitamente il genocidio nell’ambito del diritto internazionale:

«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

  • (a) uccisione di membri del gruppo;
  • (b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
  • (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
  • (d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
  • (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro

Raphael Lemkin scrisse nel 1944, nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe, opera dedicata all’Europa sotto la dominazione delle forze dell’Asse. L’autore vide la necessità di un neologismo per poter descrivere l’Olocausto e i fenomeni di persecuzione e distruzione di gruppi nazionali, razziali, religiosi e culturali, in particolare alla ricerca di idonei strumenti, nel diritto internazionale, a garantire la tutela di tali gruppi.

La parola, derivante dal lemma greco antico γένος (ghénos, “razza”, “stirpe”) e dal termine latino caedo (“uccidere”), è entrata nell’uso comune e ha iniziato a essere considerata come indicatrice di un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra e quindi nel diritto interno di molti paesi.

A partire dalla definizione ufficiale contenuta nella Convenzione sul genocidio del 1948, alcuni autori hanno iniziato a studiare gli eventi storici precedenti e successivi per identificarne la natura genocidaria. Le analisi hanno portato a numerose proposte di modifica, ritenendo non soddisfacente la definizione dell’ONU, soprattutto in ambito sociologico, storico e geopolitico.

Nel 1959 il giurista Pieter N. Drost, professore olandese di diritto e esperto di storiografia coloniale, propose l’estensione del concetto di genocidio definendolo come «la deliberata distruzione della vita fisica di singoli esseri umani a causa della loro appartenenza a qualsiasi collettività umana in quanto tale». Drost, infatti, riteneva che la definizione delle Nazioni Unite fosse insufficiente poiché in essa non erano ricomprese tra le cause dei crimini quelle politiche o l’appartenenza delle vittime a un qualunque gruppo sociale. Nel 1976 il sociologo statunitense Irving Louis Horowitz propose una definizione ancora più estesa di genocidio come «la distruzione strutturale e sistematica di persone innocenti da parte di un apparato burocratico statale». Secondo Horowitz una società totalitaria è condizione necessaria ma non sufficiente per lo svolgersi di un genocidio, ritenendo che la cultura nazionale giochi un ruolo ancora più importante rispetto all’ideologia dello Stato.

La sociologa statunitense Helen Fein ha dedicato molti scritti al tema del genocidio. Ha proposto un paradigma per il rilevamento del genocidio che include le seguenti condizioni, che comunque ricordano quelle proposte dall’Onu qualche decennio prima

  • un attacco prolungato o continuità di attacchi da parte del persecutore per distruggere fisicamente i membri del gruppo;
  • il persecutore dev’essere collettivo o organizzato, tipicamente lo Stato, o un comandante dell’organizzazione;
  • la selezione delle vittime avviene attraverso la loro appartenenza a una data collettività;
  • le vittime sono indifese o vengono uccise indipendentemente dal fatto che si siano arrese o abbiano opposto resistenza;
  • la distruzione dei membri del gruppo è stata intrapresa con l’intento di uccidere e l’omicidio è stato sancito dal persecutore.

Seguendo un approccio sociologico definì nel 1982 il “genocidio” come «l’omicidio calcolato di una parte o di un intero gruppo, definito al di fuori dell’universo dell’obbligo del persecutore, in risposta a una crisi causata o attribuita alle vittime» e suggerì una classificazione del tipo di genocidio:

  • “genocidio di sviluppo’” se le vittime ostacolano un progetto economico;
  • “genocidio dispotico” se le vittime sono oppositori reali o potenziali;
  • “genocidio retributivo” quando due gruppi condividono lo stesso spazio in una società multietnica;
  • “genocidio ideologico’” se le vittime sono al di fuori dell’universo percepito come sede degli obblighi (per motivi religiosi o nei totalitarismi ideologici).

In seguito lo definì come «un’azione intenzionale sostenuta da un persecutore per distruggere fisicamente una collettività, direttamente o indirettamente, attraverso l’interdizione alla riproduzione biologica e sociale dei membri del gruppo, sostenuta indipendentemente dalla resa o dalla mancanza di minaccia offerta dalle vittime.» In tal senso Helen Fein fu tra i primi a estendere il concetto di genocidio anche a persecuzioni e stragi storiche, come quelle perpetrate ai danni degli aborigeni americani e del Pacifico da parte degli europei, ma anche, ovviamente, il massacro degli Armeni (cf. supra), perpetrato dai Turchi all’inzio del XX secolo.

Frank Chalk e Kurt Jonassohn, docenti all’Università Concordia di Montreal, e membri del Montréal Institute for Genocide and Human Rights Studies, insoddisfatti della definizione adottata nella Convenzione, nel 1990 ne proposero una diversa e più generale: «Il genocidio è una forma di omicidio di massa da parte in cui uno Stato o altra autorità tesa a distruggere un gruppo, per come quel gruppo e l’appartenenza a esso sono definiti dal persecutore.» La principale differenza consiste nel non limitare in alcun modo il tipo di gruppo da includere, sottolineando, come osservato da altri, che la definizione del “tipo” è unicamente determinato dalla visione del persecutore.

Lo storico franco-canadese Gérard Prunier, esperto di tematiche centro-africane, in un suo testo sul caso del Darfur del 1995 definì il genocidio come il «tentativo coordinato di distruggere un gruppo razziale, religioso o politico predefinito nella sua interezza» sottolineando che il genocidio, a differenza della pulizia etnica, ha come obiettivo la distruzione del gruppo-vittima per intero.

Nell’ambito del dibattito sono stati valutati altri termini come “etnocidio”, derivante dal lemma greco antico ἔθνος (ethnos, “nazione”) e dal termine latino caedo (“uccidere”), inteso come la distruzione della cultura più che l’eliminazione fisica delle persone. Il termine fu proposto anni prima anche dallo stesso Raphael Lemkin nel suo Axis Rule in Occupied Europe in alternativa a “genocidio”. Altro neologismo utilizzato in ambito sociopolitico è “politicidio”, inteso come «l’uccisione o lo sterminio di un particolare gruppo a causa delle sue convinzioni politiche o ideologiche», utilizzato per la prima volta nel 1968 in relazione all’obbiettivo degli Arabi di distruggere lo Stato di Israele (obiettivo ancora presente negli statuti dell’Iran e di Hamas).

Il politologo statunitense Rudolph Joseph Rummel ha coniato il termine “demociidio”, di accezione ampia, per indicare «l’assassinio di qualsiasi persona o popolo da parte di un governo, inclusi genocidio, politicidio e omicidio di massa.» Secondo Rummel «il significato necessario e sufficiente del democidio è quello dell’uccisione intenzionale da parte del governo di una o più persone disarmate. A differenza del concetto di genocidio, è limitato all’uccisione intenzionale e non si estende ai tentativi di eliminare culture, razze o persone con mezzi diversi dall’uccidere persone. Inoltre, il democidio non si limita alla componente omicida del genocidio, né al politicidio, all’omicidio di massa o al massacro o al terrore. Li include tutti e anche ciò che escludono, purché tale uccisione sia un atto intenzionale, una politica, un processo o un’istituzione di governo».

Un progetto italiano per un Codice dei crimini internazionali del 2022 amplia la definizione di genocido e introduce il “genocidio culturale” in cui il fine della distruzione del gruppo bersaglio avviene anche attraverso pratiche coercitive, obblighi, divieti o altre misure volte alla rimozione dei suoi caratteri culturali, linguistici o religiosi.

A mio avviso la (sub-)cultura woke ha intenzione di effettuare un genocidio storico-culturale. Si tratta della schifezza più rivoltante degli ultimi decenni.

La costituzione morale e socio-politica del genocidio

Pur tenendo conto della precisa definizione giuridica del genocidio presente nella Convenzioni sopracitate, gli studi sul tema hanno approfondito il fenomeno degli eventi genocidari al fine di identificare gli aspetti salienti e specifici del crimine, soprattutto rispetto ad altre fattispecie, quali i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, la pulizia etnica, etc. Già la definizione di Lemkin presuppone un piano coordinato di azione volte alla distruzione di un gruppo.

Un fattore quindi considerato fondamentale è l’intenzione genocidaria, indipendentemente dalla realizzazione dell’atto stesso

Benché la definizione giuridica di genocidio indichi che gli atti commessi devono coinvolgere «in tutto o in parte» il gruppo bersaglio, secondo alcuni autori è importante l’elemento quantitativo. Per questo sono state proposte soglie numeriche oltre le quali si può parlare di genocidio insieme a un intervallo temporale prefissato.

Nel 1996 Gregory Stanton, fondatore della ONG Genocide Watch, presentò al Dipartimento di Stato degli Stati UNiti d”America un documento informativo che suddivideva l’evolversi di un genocidio in 8 fasi, questo primo modello venne in seguito rivisto, diventando le Dieci fasi di un genocidio: uno strumento accademico e un modello politico per identificare la nascita e l’evoluzione di un genocidio, con indicazioni su come intervenire politicamente ad ogni fase.

Alla fine di questo sforzo, mi permetto solo di raccomandare al lettore di tenere sempre in considerazione l’esigenza morale di evitare di inseguire gli slogan semplicistici e i loro proprugnatori, ma si deve studiare a fondo ogni fenomeno politico e sociale, in tutta la sua complessità, anche se ciò richiede fatica.

Senza fare questa fatica vince l’ignoranza e la stupidità, come è mostrato in molte rappresentazioni individuali e collettive recenti.

Lascio al lettore la definzione dei tragici fatti di Gaza, alla luce delle riflessioni e delle informazioni sopra riportate.

Passiamo brevemente al tema della conservazione, che deriva dal lemma verbale latino: cum-servare

Non penso sia necessario indugiare molto su questo termine, perché se lo si intende come nel titolo, siamo pure anche solo persone di buon senso e di buon gusto, dobbiamo conservare ciò che è prezioso, la memoria, i beni e la cultura. Circa la dimensione politica io sono dall’alltra parte, perché la conservazione ha significato sempre diritti e opportunità non uguali per tutti, perché conculcate dai pochi ai molti. La storia insegna che sono state necessarie battaglie faticose e durevoli per portare a casa una giusta ripartizione del benessere, e che la maggior parte degli esseri umani ancora non partecipa di questo benessare, mancando anche dei beni necessari alla vita.

L’amico Roberto, con il quale anni fa effettuai il più importante viaggio della mia vita, perché andammo in auto in Unione Sovietica (viaggiando con una Renault 4 1100cc!), mi suggerisce opportunamente di precisare meglio la versione odiosa del conservatorismo, quella reazionaria, attinente, ad esempio, ai cosiddetti ancien régimes franco-austro-prussiani del Sette-Ottocento, che nel Novecento sono diventati dittature di estrema destra, con elementi pericolosissimi e brutalmente fascinosi di antiumanesimo fascista. Elementi che riemergono di tanto in tanto, come in questi anni, dalle ignobili nequizie di spiriti degradati.

Io sarò sempre dalla parte di chi combatte per la giustizia nella libertà e per l’equità, che tiene conto dl necessario, prima di tutto, e del merito subito dopo.

Qualche accenno storico a ciò che significa destra-sinistra e centro – Dalla Rivoluzione Francese all’emiciclo

Durante la Rivoluzione Francese, i termini “destra” e “sinistra” definirono le posizioni politiche basate sulla disposizione dei deputati nell’Assemblea: a destra sedevano i sostenitori della monarchia e dei privilegi dell’Antico Regime, mentre a sinistra si trovavano i fautori della repubblica e delle riforme più radicali. La destra era costituita da monarchici (come i Foglianti), mentre la sinistra comprendeva i Girondini (repubblicani moderati) e i più radicali Giacobini o Montagnardi. Vinse la sinistra e generò due cose: a) la Costituzione repubblicana, ottima cosa, e b) il regime del terrore, pessimo, che inghiottì sé stessa.

Questa lezione mostra come l’estremismo finisca sempre con il divorare i propri adepti (ne scrisse anche Vladimir Ilyich Ulyanov, più noto come Lenin, nel saggio L’estremismo, malattia infantile del comunismo). Se i violenti di oggi studiassero un pochino la storia, sempre che abbiano un minimo di intelligenza, capirebbero che spaccare vetrine e auto altrui, o addirittura uccidere chi la pensa diversamente, è violenza inutile e idiota.

I Parlamenti contemporanei sono simili a quel primo grande esempio.

Media e social

La comunicazione è oggi il veicolo principale dei rapporti tra gli esseri umani. Formidabile strumento e nel contempo pericoloso.

Dovrebbe essere dedicato al miglioramento della Qualità informativa e relazionale, mentre invece è spesso l’esatto contrario. Non mi soffermo su questo tema immenso: confermo solo che si tratta di un argomento cui da molto tempo, e per il tempo che mi rimarrrà a questo mondo, dedicherò gran parte delle mie energie.

Osservando il panorama politico italiano attuale pare di poter dividere due ambiti: quello dei “giudicanti” e quello dei “giudicati”. In altre parole, chi giudica è l’opposizione mentre chi-è-giudicato è al governo. Legittimo, siamo in democrazia. In democrazia le cose funzionano con le regole costituzionali, con il dibattito pubblico e la libertà di espressione. Forse, però, è utile che io qui faccia memoria di un qualcosa che – mi pare – non pochi, in giro, sembrano avere dimenticato.

Ebbene: ogni cinque anni si svolgono le elezioni politiche che vedono uno schieramento vincente e uno perdente. Lo schieramente vincente viene incaricato dal Presidente della Repubblica di formare un governo tramite il leader della formazione che ha vinto le elezioni; il nuovo governo chiede la fiducia al Parlamento, la ottiene e inizia a governare; poi tutto procede secondo quanto previsto dalle norme; se il governo, con atti propri o con atti parlamentari (alla Camera e in Senato si dibatte, possibilmente in modo civile, cosa che non sta accadendo) procede ottenendo la fiducia per tutti e cinque gli anni, governa per cinque anni. A quel punto si torna alle eleioni e il Popolo sovrano decide se confermare il governo uscente o se scegliere il cambiamento.

Capito Schlein, Landini, Conte, Bonelli, Frate Janni, Renzi, Maiorino, Ricciardi, Boccia e Landini, etc. etc., e men male che Di Maio è scomparso alla vista? (toc toc Picierno, Delrio, Quartapelle, Gori, Guerini… siete in vita?)

Se sarete ancora voi tra i piedi, non vi voterò e, non volendo mai votare a destra, andrò certamente a votare, per mio preciso diritto-dovere (che è costato il sangue di molti) ma mi asterrò. Claro?

Chiedo perdono al mio gentile lettore per lo stile scrittorio che, partito dai livelli obiettivamente sublimi della metafisica, è finito con la citazione dei più mediocri, culturalmente scarsi e – nonostante ciò – presuntuosamente indecenti, politici italiani degli ultimi 80 anni (poiché se ottanta anni fa potevamo contare su Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Alcide De Gasperi, Benedetto Croce, Ferruccio Parri, Meuccio Ruini, Teresa Noce, Lina Merlin, Tina Anselmi, Nilde Jotti, Giuseppe Saragat e molti altri e altre, oggi ci dobbiamo far mestamentte bastare quell’accolita di scappati-di-casa sopra citati, ahimé).

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