“In Illo uno unum” è il motto di papa Leone XIV, al secolo the agostinian father Robert Francis Prevost, che dice tutto – a mio avviso – di quest’uomo nord e sud americano di origine italo-franco-ispanica. Vediamo in quale senso…
Mi sono chiesto come parlare oggi di papa Leone, e ho deciso di osservarlo da più punti, senz’altro in maniera ancora superficiale, ma d’altra parte cosa si può scrivere di un uomo che è assurto a una delle posizioni e ruoli più importanti del mondo, arrivando da una situazione personale e fama enormemente più limitate.

Prima della sua elezione conoscevo l’esistenza di quest’uomo di chiesa in modo sommario, sapendo che era “americano” (in seguito vedremo in quale senso), frate della congregazione agostiniana, nemmeno settantenne, garbato e gradevole. Poi, nel pomeriggio di pochi giorni fa, tornato a casa da una riunione di lavoro stavo facendo altro: leggevo qualche pagina della Critica della Ragion pratica, quella dove Kant raccomanda di considerare sempre l’uomo come fine e mai come mezzo, una sintesi sublime di filosofia morale, e mi arriva la notizia dell’elezione del cardinale Prevost, papa Leone XIV, mentre, sinceramente, mi aspettavo l’elezione del vicentino Parolin o di mons. Tagle da Manila. E perfino del cardinale Pizzaballa il francescano, l’uomo di Jerushalaim, che vuol dire – dolorosamente paradossalmente Città della Pace.
Sorpreso, mi sono messo a guardare l’enorme valanga di programmi e notizie che debordava confusamente (e anche in modo un po’ fastidioso) dalle tv e dal web, e ho deciso di non farmi travolgere, Cosicché ho provato a scriverne un po’, considerando che ciò che leggevo di Kant in qualche modo mi sembrava in armonia con la notizia, senza riuscire a darmi una qualche spiegazione delle ragioni di ciò.
Father Robert Francis Prevost, è il secondo papa americano della storia (dopo papa Francesco), non il primo, come scrivono quelli che usano l’aggettivo sostantivato “americano” per dire statunitense… e mi interesso quasi subitamente al motto scelto da papa neoeletto, perché ne conosco l’importanza.
“In Illo uno unum”. Questo il motto episcopale scelto dal neoeletto Papa Leone XIV, che richiama un’espressione di Sant’Agostino tratta dall’Expositio in Psalmum 127: “In Illo uno unum” (Nell’unico Cristo siamo uno). Già questa scelta dice chi è questo papa, che è il vescovo di Roma: un motto dai tratti metafisici, interpellante la riflessione su un tema arduo e difficile come è il discorso sull’Uno, in quanto Principio “divino” della Realtà totale di cui l’uomo fa parte, che la tradizione in primis platonica declinò ancora più chiaramente con Plotino, e che fu in seguito ripresa da sant’Agostino, sotto un altro profilo, quello dell’Essenza Unica di Dio nelle Relazioni intra-trinitarie tra le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Mi permisi una volta, su richiesta di uno studente, chiedendo perdòno per il mio ardire, di proporre una figura geometrica per dare l’idea della Santissima Trinità e dissi: disegniamo un triangolo equilatero, definiamo gli angoli a), b) e c), tracciamo lo spazio compreso da ciascun angolo…, al che lo studente obiettò che bisognava separare gli spazi attribuibili a ciascun angolo. Gli risposi di no, perché ciascun angolo comprendeva tutta l’area fino ad incontrare i due lati che ha a destra e a sinistra. E dissi: immaginiamo che le tre Persone rappresentino, ciascuna, sempre tutta l’area del triangolo, senza confusione ma con distinzione, come, dissi, fu definito nel Concilio di Calcedonia nel 451. Vi fu silenzio. Non sono concetti facili, perché su questi concetti si divisero chiese antiche e intere regioni cristiane, fino a quello che fu chiamato il “Consenso calcedonese” sul tema della Trinità.
Partire da questo argomento per parlare di papa Leone può essere forse (per qualche lettore) un po’ improprio, intempestivo, meno interessante o addirittura strano, invece che iniziare dagli aspetti più pastorali ed ecclesiali della biografia del papa appena eletto, poiché gli echi della fortissima presenza concreta e spirituale di papa Francesco sono tuttora ben presenti, e non si spegneranno, così come è analogamente accaduto in tutta la storia umana ed ecclesiale-cristiano cattolica – non solo recente – che il pensiero e le azioni dei pontefici influenzano ancora, non solo il pensiero e l’agire del grande Corpus mysticum, che è la Chiesa di Dio (cf. Lumen Gentium, 1965), ma anche il resto del mondo, sia pure a “geometria variabile”.
La spiego in questo modo, citando un “ambiente” lontanissimo, quello dell’Unione Sovietica staliniana: Iosif Vissarionovič Stalin, nato Džugašvili, ebbe a chiedere a qualcuno dei suoi “collaboratori-sudditi” quante divisioni avesse il papa, che allora era Pio XII. Era evidentemente una domanda ironica, perché il tremendo georgiano sapeva benissimo che il papa di Roma non aveva a disposizione divisioni, né alcuna forza militare, ma sapeva altrettanto bene che l’influenza morale del pontefice romano si espandeva nel mondo senza definiti confini, nonostante il quesito sull’efficacia di questo “esserci” fosse sempre di difficile risposta.
Parlerò degli aspetti pastorali e teologici, e delle relazione necessaria tra gli uni e gli altri più avanti, anche se parlare dell’Uno è già entrare in medias res del discorso sul nuovo papa. Aggiungo ancora qualcosa.
L’Uno comprende il Tutto e anche l’Infinito, perché dallo 0 all’1 c’è l’infinito (sto qui innanzitutto riferendomi alla divisibilità N dell’intervallo tra 0 e 1), come insegna anche la matematica, in questo totalmente coerente con la metafisica, cari professori Odifreddi (che ha già scritto una lettera a papa Leone “rivendicando” il diritto alla spiritualità anche per gli atei, che condivido, perché è filosoficamente implicito che “spiritualità” non sia sinonimo di “religiosità”) e Rovelli. Bertrand Russell separò la matematica dalla logica, ma non dalla metafisica.
Ma l’infinito è anche ciò che non ha principio né fine; che non ha limiti: il tempo è infinito; lo spazio è infinito; la misericordia di Dio è infinita; il silenzio è infinito (Leopardi).
L’infinito (dal latino finitus, cioè “limitato” con prefisso negativo in-) in filosofia è la qualità di ciò che non ha limiti o che non può avere una conclusione, perché appunto infinito, senza-fine.
Per Aristotele l’infinito non è né reale né pensabile: tutto ciò che esiste, è perfetto, cioè finito; d’altra parte l’infinito è per definizione ciò a cui il pensiero non deve mai arrestarsi, cioè l’impensabile, pur nulla essendo impensabile: accettiamo questa antinomia logico-linguistica, che Wittgenstein criticherebbe senz’altro. Forse è meglio definirla a-nomia, cioè senza regola, oppure a-poria, che significa senza via d’uscita. Parmenide non si pose il tema del finito e dell’infinito, ma solo quello dell’essere (che è) e del non-essere (che-non-è), e su questo pose le basi per la grande metafisica platonico-aristotelica.
Il primo studioso a usare la seguente simbologia (∞) per indicare il concetto di infinito è stato l’inglese John Wallis (1616-1703), eminente matematico e personalità poliedrica, i cui studi occuparono argomenti quali calcolo infinitesimale, geometria e logica.
Della sua vastissima opera ricordiamo un’edizione completa, da lui curata, dei propri scritti, nella quale inserì due lettere inviategli qualche tempo prima da Isaac Newton sul calcolo delle flussioni che rappresentano la prima pubblicazione newtoniana su questo argomento e il De sectionibus conicis del 1655 all’interno del quale compare il simbolo ∞, che, pur venendo da subito accettato, venne utilizzato sistematicamente solo a partire dal 1800.
Tale simbolo viene anche chiamato forma lemniscata dal nome della curva algebrica descritta dal matematico Jacob Bernoulli nel 1694. Mi piace citare cose matematiche anche perché questo papa ama e ha studiato questa scienza assai “spirituale”.
Il tema dell’Uno, per papa Prevost è dunque la linea guida del suo magistero: l’Uno come Dio onnipotente rivelatosi in Cristo e continuamente manifestantesi nello Spirito Santo.
E’ così, a mio avviso, abbastanza logico che il primo viaggio di papa Leone sia verso l’antichissima Nicea, dove nel 325 Costantino convocò un Concilio ecumenico dei vescovi dell’Impero, e dove si definì la formula del Credo (in unum Deum…).
Pare di capire che per papa Leone l’agire umano, e anche quella di massimo pastore cristiano cattolico non possa non partire che dalla Fede. D’accordo che l’occasione è il 1700o anniversario del Concilio di Nicea e dunque la scelta è stata in qualche modo logica e facile. Andare a Lampedusa come primo viaggio, come fece Francesco, fu ancora più facile.
Questa scelta significa già che papa Leone seguirà una strada, un metodo (metà òdon in greco significa per-una-strada) diversa dal suo predecessore, pur tendendo all’unico Fine, una strada più chiaramente distinguibile nei vortici del mondo, una pastorale e una diplomazia meno improvvisate e discontinue di quelle più recenti.
LO STEMMA DI PAPA LEONE
Lo stemma scelto, a sinistra presenta il simbolo stilizzato del giglio bianco in campo azzurro, a indicare purezza e innocenza, spesso associato alla Vergine Maria. A destra, in campo bianco, il sacro cuore di Gesù – posto sopra un libro chiuso – è trafitto da una freccia: si tratta del simbolo dell’amore agapico, paolino-agostiniano. E, aggiungo, origeniano. Non so se papa Leone ha posto nella sua formazione e nella sua vita pastorale particolare attenzione al sommo esegeta alessandrino del III secolo, ma obiettivamente non saprei distaccare questa linea teologica, che da Paolo, attraverso Agostino raggiunge noi che seguiamo nel tempo del mondo, se non tramite il più grande commentatore del Cantico dei cantici, che “scoprì” come nell’amore agapico, nell’amor benevolentiae, sia ricompreso anche l’amore erotico, quello benedetto da Dio stesso nella Creazione.
LA TEOLOGIA PASTORALE DI PAPA LEONE: “UNA PACE DISARMATA E DISARMANTE“
Utilizzo un’espressione che ha fatto molto scalpore, quando papa Leone la ha pronuziata presentandosi dalla loggia di San Pietro. Allora: i pacisti nostrani à là Conte Giuseppe e Salvini Matteo se lo sono stupidamente ascritti immediatamente, arruolandolo nelle rispettive formazioni politiche. “Hai sentito il papa? E’ dei nostri” Poverini. Cari capi politici del nostro tempo, avviluppati in una mediocritas umana, culturale e politica per niente aurea, il papa non si fa arruolare!
Mi affatico a spiegarvi, caso mai vi capitasse di leggere qui che cosa ha voluto dire papa Leone con il sintagma “… una pace disarmata e disarmante?” Intanto vediamo ciò che non ha voluto dire: non ha voluto dire che, ad esempio, l’Ucraina si deve arrendere alla prepotenza di Vladimir Vladimirovic, ma che ha il diritto&dovere di difendersi. Dove si colloca semanticamente questo diritto all’autodifesa nella frase del papa? In tutti e due gli aggettivi congiuntamente, poiché chi-è-disarmato non vuole e non può offendere, ma è nelle condizioni di contribuire a disarmare l’aggressore. Mi spiego meglio: il verbo disarmare al modo participio presente (disarmante) possiede una forte valenza attiva e propositiva. Ancora meglio: chi è disarmato, può esserlo in due modi: a) quello passivo e arrendevole (come vorrebbero i due su nominati, assieme a qualche professorino presuntuoso che circola per le tv e a giornalisti non so se prezzolati o solo stupidini), e b) quello attivo e combattente, perché chi è “disarmante” si mette nelle condizioni di esserlo, disarmante, cioè che-disarma-l’aggressore-combattendo.
Inoltre, papa Leone in tempi non sospetti, da cardinale ha detto esplicitamente quanto sopra: che l’Ucraina è stata aggredita e che si deve difendere. Proprio sulle tracce di sant’Agostino che ha scritto di guerra giusta, quando è drammaticamente combattuta per far riconquistare la giustizia a chi ha subito una sua sua violazione. Tommaso d’Aquino ha poi sistematizzato questo pensiero.
Se Paolo VI nel 1965 ha urlato forte davanti all’assemblea delle Nazioni Unite “Jamais la guerre, jamais la guerre!”, non ha voluto significare “arrendetevi subito ovunque voi siate!”, ma “non iniziate altre guerre!”.
Forse in qualche frangente papa Francesco è stato un po’ ambiguo sul tema, ma, già lo scrissi una settimana fa, Bergoglio pensava in spagnolo e traduceva in italiano, cosicché qualche volta gli scappava via qualche passaggio logico. Infatti non riesco a credere che in cuor suo intendesse la resa come la scelta da fare quando si è aggrediti.
Aggiungo che la vigliaccheria non è neanche molto cristiana, perché il cristianesimo è sempre stato combattivo, anche troppo in certi periodi storici. E violento.
Si pensi che anche in questo caso Ucraino-Russo: ci si combatte tra cristiani ortodossi!
Può essere interessante sotto il profilo culturale, a mero titolo di informazione e memoria, scorrere i nomi dei più famosi, sotto il profilo storico, tra i papi che vollero chiamarsi Leone. Leone Magno ebbe larga fama per aver “fermato” nel 452 circa, sul fiume Mincio, il re Attila, che stava cercando di raggiungere Roma con le sue orde unne; Leone X (Medici) rimase in evidenza nella storia del ‘500 per avere scomunicato Lutero, quando non fu possibile ricomporre l’ecumene cristiano dopo la Riforma protestante.
E’ senz’altro più significativa per la scelta del nome effettuata da papa Prevost la figura di papa Leone XIII, che nel 1891 ebbe la capacità di interpretare i segni dei tempi con l’emanazione dell’enciclica Rerum Novarum, cioè “Delle cose nuove”, che segnò l’inizio della Dottrina sociale della chiesa e fu fomite della costituzione dei primi sindacati cattolici. La seconda metà del XIX secolo aveva visto lo sviluppo straordinario del modo di produzione dei beni e aveva sociologicamente fatto formare nuove classi sociali, tra le quali quella operaia, cui finora avevano cominciato a interessarsi le forze socialiste, anarchiche e repubblicane. Papa Pecci, Leone XIII, ben comprese che, proprio in ragione della lezione evangelica, la Chiesa non poteva e non doveva stare fuori dal nuovo contesto sociale e intervenne con la storica enciclica.
Dalla Rerum Novarum, tutti i pontefici che seguirono si occuparono della questione sociale. Mi limito a ricordare solo quelle che, a mio avviso, sono le principali encicliche: la Quadragesimo Anno di papa Pio XI, la quale ammise la possibilità di eventuali positive alleanze dei cattolici con i socialisti democratici su problemi concreti in difesa dei lavoratori. Poi la Mater et Magistra di papa Giovanni XXIII e soprattutto la Populorum Progressio di papa Paolo VI, che affrontò i temi e i problemi dell’ingiusta distribuzione delle risorse nel mondo. In tempi più a noi vicini papa Wojtyla intervenne con tre encicliche sui temi sociali e del lavoro, la Laborem exercens, la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus. Papa Benedetto XVI emanò la Caritas in Veritate, collegando il tema dell’amore alla verità, mentre Francesco si preoccupò dell’ambiente e della fratellanza universali, con la Laudato sii e la Fratelli tutti. Che cosa scriverà papa Leone XIV? Lo ha già anticipato: si occuperà molto presto, senza dubbio, dell’intelligenza artificiale e del suo formidabile, potente, ma pericoloso utilizzo, Osserveremo con attenzione.
TRA FRANCESCO, IL GESUITA, E LEONE, L’AGOSTINIANO
Si tratta di due “spiritualità” molto differenti, tra la missione evangelizzatrice e la ricerca della verità, come sotto titolo.
Agostino, personalità profondissima e quasi ossessiva, è stato alla ricerca di Dio nella sua propria interiorità. Per lui, per la sua teologia, che è molto radicale e a volte perfino un po’ cupa, il male ha una consistenza concreta, anche se non ontologica. La riflessione agostiniana sul male riflette il suo percorso che si diparte dal Manicheismo della gioventù, che al male attribuiva addirittura un principio, un’essenza “divina” (l’Ariman), per giungere a una concezione legata alla psicologia della mente umana che il male può ferire.
Per Agostino solo la Grazia divina può condurre l’uomo alla vittoria sul male e sul sentiero della salvezza, poiché con le sole sue forze non può farcela.
Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, arriva sulla scena del mondo e della Chiesa mille e cento anni dopo. La Chiesa è frantumata. Lutero e Calvino hanno mosso le acque della teologia e della politica in tutto il Nord dell’Europa. La Roma vaticana subisce un attacco frontale su temi delicatissimi sotto il profilo evangelico e morale. Non sto a ricordare qui tutti i passaggi: le accuse di mercificazione dei benefici spirituali dei luterani e dei calvinisti evangelici hanno fatto effetto. Nemmeno il grande imperatore Carlo V è riuscito a trovare una via di composizione e pacificazione del conflitto, che segnerà, non solo la storia della Chiesa, ma anche la storia dell’Occidente e anche in grande misura, del mondo.
Ignazio è un aristocratico e un militare. La sua concezione dell’appartenenza alla Chiesa di Cristo è quella della battaglia, perinde ac cadaver, cioè fino alla morte.
A Ignazio non interessano le speculazioni sull’origine del male, ma sulla possibilità del bene, cui ci si deve rivolgere con ferma decisione volontaria, senza soffermarsi sulla colpa morale, che comunque c’è nell’agire umano (libero). Per i Gesuiti occorre valutare, discernere, decidere, agire, senza scrupolare su ciò che appartenga alla “Città di Dio” o alla “Città dell’uomo”. Tutto è dentro il percorso della salvezza.
Agostino si sofferma sulla lotta interiore, sulle tracce di san Paolo, perché deve cercare la verità cui tutto deve tendere, ogni pensare, ogni decidere, ogni agire. Viene in mente immediatamente, a questo punto, anche il coerente agostinismo di papa Benedetto XVI, che sotto questo profilo condivide molto con papa Leone XIV.
L’agostinismo di papa Leone è questo, che gli permetterà di essere leader globale, seguendo tutti i dossier con attenzione e profondità, per guidare il cristianesimo del Terzo millennio, contribuendo alla cura del mondo del Terzo millennio.
Concludo questa fatica con una nota personalissima. Mi sia concessa: quando ho saputo dell’elezione di papa Leone ho tirato un respiro di sollievo, perché non era stato eletto, non un cardinale italiano, ma uno tra i cardinali italiani.
Il Santo Spirito di Dio ha visto lungo, mi perdoni Iddio se mi permetto di opinare sul Suo operato imperscrutabile.
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