Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Venticinquenni belli e forti ciondolano da una panchina all’altra in centro a Udine, con il cellulare in una mano e una Red Bull nell’altra

Qualche giorno fa ero a Udine per andare dal dentista, il bravo dottore P., parcheggio e mi guardo in giro. Occhi attenti mi scrutavano. Anzi, distratti. Sulle prime mi erano parsi attenti, ma poi, guardando meglio, mi sono accorto che osservavano oltre me, dietro a me, guardavano un po’ la mia auto che, anche se vecchia, è ancora attrattiva, perché è una berlinetta sportiva molto feroce, perché veloce, e un po’ guardavano amici e conoscenti loro che stavano arrivando.

sfaccendati italiani

Erano le cinque scarse del pomeriggio, un’ora in cui, dalle nostre parti, solitamente si è ancora a lavorare. Nessuno di quei venticinquenni robusti e anche belli in qualche caso, stavano in piazza a far nulla. Vivevano, e basta. Mi correggo: non è fare nulla, il vivere. Forse basta… il vivere.

Perché qualcosa si fa, sempre. Mi sono chiesto che scopo immediato, a breve, avessero quei ragazzi, che cosa si aspettassero dalla vita, qui e ora. Extracomunitari nordafricani, asiatici e qualche balcanico.

Mi sono chiesto dove fossero alloggiati, anche se più o meno lo so, e se hanno i cinque euro per la ricarica dello smarthphone (perché hanno tutti uno smarthphone, magari un Oppo da duecento euro, che funziona come un Samsung o un Iphone). E i tre euro per la Red Bull. Un rinforzo per vivere senza far nulla.

Questi giovani uomini arrotolano un giorno dietro l’altro così, in questo modo? Alzarsi svogliatamente, un po’ di toilette e poi immediatamente in rete. In giro per la città fino a ora di pranzo, che viene erogato regolarmente dove vivono tra le dodici e le tredici. Un po’ di pennica e poi di nuovo fuori, in giro, fino a ora di cena. E poi di nuovo in giro fino a che non si cade dal sonno. Mi sono chiesto anche a che ora suoni la sveglia (del cellulare)… Per giorni, settimane, mesi.

Sento due guardie della Polizia municipale che commentano ciò che vedo anch’io, ma, al contrario di quello che lo stereotipo potrebbe suggerire sul pensiero medio di due poliziotti, stavano dicendo cose come “quanto spreco di energie… possibile che non possano lavorare...”

Oddio, non è che il lavoro inteso all’occidentale, almeno dai tempi dei monasteri benedettini, cioè da un millennio e mezzo, sia leibnizianamente il “migliore dei mondi possibili”. Ma neanche il peggiore, mi pare, visti i risultati della nostra civiltà, checché ne scrivano i cancel culture e altri imbecilli dal dito inutilmente frenetico.

Ho cercato la declaratoria di sfaccendato sulla Treccani, eccola:

agg. [der. di faccenda, col pref. s- (nel sign. 2)]. – 1. Di persona, che non ha nulla di serio o d’importante o di immediato da fare: essere s.in questi giorni sono s. e lavoro un po’ in giardino; estens.: in mezzo alle macerie, rari abitanti si aggiravano con aria s. (C. Levi). 2. Con connotazione spreg., che non ha voglia di far nulla, ozioso, fannullone: non posso soffrire la gente s.; con questo sign. è più frequente l’uso sostantivato: sei uno s.una s.al bar c’erano i soliti s., che giocavano a carte dalla mattina alla sera.

Poi, in italiano troviamo anche altri aggettivi e sintagmi più o meno sinonimi (e anche i contrari) come sfaticati, pigri, nullafacenti, nati stanchi, morti-di-sonno, e altri aggettivi di campo semantico viciniore.

Il primo pensiero che, ragionandovi su, mi è venuto è stato quella della noia. Possibile che quei ragazzi non si annoino, almeno un po’. Poi, ricorrendo a qualche conoscenza di antropologia culturale mi sono fatto presente i modi che hanno, di vivere, le persone dei vari “sud” del mondo, dal Meridione italico, a quello levantino, a quello ispanico… e poi africano, sudamericano e anche balcanico. E’ abbastanza probabile che quei ragazzi siano fortemente condizionati dal quei modi d’essere. Il sole, il caldo, ora l’anticiclone africano qui da noi…

E poi c’è altro: l’inclinazione “naturale” di ogni essere umano ad approfittare di situazioni comode, garantite, anche se fino a un certo punto. Si pensi alla diseducatività del reddito di cittadinanza, così com’è congegnato ora, che è tecnicamente incapace di connettere disponibilità soggettive al lavoro e offerte di lavoro.

Il grave è che è stato congegnato, con la connivenza di governi destro e sinistrorsi, da chi ora pretende di mantenerlo così come è, i Cinque Stelle, i quali hanno avuto lo strano e abnorme risultato elettorale del 4 marzo 2018, molto per aver promesso un reddito garantito a chi non ce l’ha, non chiarendo mai bene che doveva essere collegato necessariamente alla disponibilità di accettare un lavoro, senza mantenere il reddito perfino con tre rifiuti di occupazione. E qui mi fermo in questa sede sul tema, perché non serve approfondire ulteriori tecnicismi.

Mi sono chiesto anche, guardando quei ragazzi, e mi chiedo ora, che tipo di rispetto di sé abbiano. Ovvero, se abbiano la nozione di “rispetto di sé”, nel senso di avere una autonomia di reddito, per badare e bastare a sé stessi.

Mi sono chiesto se quei ragazzi siano in grado di pensare al dovere, oltre ai diritti che gli vengono ben spiegati specialmente da una certa parte della politica, la mia, che non spiega però bene oramai da tempo anche la necessità di coniugare i doveri ai diritti, come insegnava il troppo dimenticato Giuseppe Mazzini, favorendo lo sviluppo di una pericolosa “cultura della pretesa”, che viene da molto lontano (dal ’68?), ma che ultimamente ha assunto connotati di estrema pericolosità pedagogica e morale.

Il lavoro pare non essere un punto fondamentale dei loro interessi, ma (non so) se anche, assieme al disinteresse per il lavoro, altrettanto disinteresse costoro nutrano per ogni eventuale fine esistenziale, o almeno per qualche scopo od obiettivo parziale.

Certamente, le leggi nazionali e le norme locali, come sopra esemplificato con la citazione del reddito di cittadinanza, non aiutano molto.

Il che fare, per andare oltre lo spettacolo poco dignitoso che qui ho raccontato, ma anche alle lamentazioni di molti imprenditori “che non trovano lavoratori”, è indispensabile che il Governo, qualsiasi esso sarà dopo il 25 settembre, si ponga l’obiettivo di facilitare al massimo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, i sindacati ci stiano su questo progetto, e gli imprenditori (mi riferisco a una minoranza, ché i più sanno benissimo ciò che segue) non pensino di fare i furbi con retribuzioni indecenti, ma credano che retribuire correttamente un dipendente è la condizione senza la quale non si può far intravedere un fine razionalmente perseguibile a chi non è abituato ad averne.

L’abbaiare alla luna, l’abbaiare di alcuni giornali come il travagliesco Fatto, e l’abbaiare alla Russia (di tale Stoltenberg, nomen omen), per contrastare, sbagliando, l’aggressione del fanatico-autoilludentesi-csar (“di tutte le Russie”)

L’immagine dei latrati della Nato verso la Russia, evocata (e attuata da Jens Stoltenberg, che non mi rappresenta) da papa Francesco in questi giorni, è potente. E opportuna. Così come è stata opportuna la smentita al segretario generale della Nato da parte del cancelliere Scholz (Macron consenziente).

Per nulla opportuni sono, di contro, i titoli travaglieschi de Il Fatto Quotidiano, che trasudano un compiacimento eticamente incomprensibile, oltre che maligno, per i problemi del mondo, quasi che il male diffuso possa dare maggior respiro alla sua lettura giornalistica. Una vergogna quotidiana per quel giornalaccio, di cui cito l’ultima stupidaggine: “Draghi solo” in una immagine con Salvini, Conte, Macron e anche Letta distanti da lui: un arbitrio concettuale e controfattuale, perché se Conte e Salvini sono anti-draghisti per gelosia, Letta e Macron la pensano come Draghi e viceversa, anche se si esprimono con parole diverse, in ruoli diversi, ma con i medesimi obiettivi: a) aiuto all’Ucraina, b) ogni sforzo diplomatico per ottenere prima una tregua e poi la pace.

I racconti e le favole sugli animali tramandano l’abbaiare alla luna dei coyotes della prateria, ma anche figure poetiche come quelle leopardiane (Il tramonto della luna) alla fine della sua vita, o felliniane (La voce della luna), alla fine del suo lavoro.

La metafora di papa Francesco sull’abbaiare della Nato verso la Russia è una metafora efficace. Non si comprende se non tramite una lettura di politica interna l’alzata verbale di Biden contro Putin, di cui non c’è bisogno di dire ogni giorno le sue caratteristiche di violenza antidemocratica e guerrafondaia.

Ma anche i vertici attuali della Nato si stanno rivelando improvvidi e scarsi sotto il profilo comunicazionale. Già ebbi modo di dolorosamente scherzare sul nome “paolino” di Stoltenberg qualche settimana fa, scherzo teologico che qui confermo. Sembra che alcuni capi dell’Occidente siano proprio stolti.

Come sempre, il dovere dell’onestà intellettuale impone di non essere manichei, cioè di non assegnare la patente di malvagità a un solo soggetto, ma di riconoscerla in ogni soggetto, nella misura razionale di un’analisi seria e competente. Che il leader della federazione russa sia il generatore assolutamente principale del male attuale è fuori dubbio, ma che questo male sia alimentato – nel tempo – anche da altri, è altrettanto fuori dubbio.

Né, altrettanto, si deve mettere in dubbio, che gli ex Paesi del Patto di Varsavia che hanno aderito all’Unione europea e alla Nato, l’abbiano fatto in assoluta libertà ed esercizio democratico. Nessuno li ha obbligati a un tanto. Il fatto è, come sosteneva Enrico Berlinguer fin dal 1973, che Bulgari, Romeni, Cechi, Slovacchi, Ungheresi, (Lituani, Estoni, Lettoni non ancora formalmente) e Polacchi, vorrei dire anche Valacchi e Moldovi, si sentono più sicuri sotto l’ombrello della Nato, cari pagliarulo, e orsini vari (uso le minuscole in questi cognomi, perché sono diventati nomi di una specie umana).

Però una delle idiozie legate alla guerra è l’aver tagliato fuori per sanzioni anche gli atleti russi da tutte le manifestazioni internazionali. Non tagliare fuori gli sportivi russi potrebbe essere un piccolo contributo al dialogo, visto che questi ragazzi e ragazze non peggiorano di sicuro il clima fra i contendenti.

Si prenda ad esempio la collaborazione spaziale, che non è stata fermata all’improvviso, ma sta continuando pure se tra dubbi e difficoltà.

Sono indignato verso due esagerazioni: la prima è quella di chi pretende di interpretare il diritto del popolo ucraino, frapponendo difficoltà e inciampi a una possibile trattativa diplomatica; la seconda è quella di sostenere di fatto il criminoso tentativo del presidente della federazione russa di decidere del destino dell’Ucraina, e forse di altre nazioni.

I primi sono gli arroganti dell’Occidente del mainstream, che non sbaglia mai, e che può fare-qualsiasi-cosa, anche sulle ali dei cacciabombardieri; i secondi sono i re-interpretatori della storia, i falsificatori, i sostenitori del falso in tutta la sua evidenza (perché anche il falso è evidente quanto il vero, quando è certo): nostalgici del sovietismo e della sua doppiezza, autoritari di ogni genere e specie, antidemocratici incalliti, patriarca “di tutte le Russie” compreso. Privi di cultura antropologica e storica,

che, in modo significativo, manca – però – anche ai primi.

Mi chiedo quali studi, che formazione abbiano avuto Putin (lo so, legge e servizi segreti) e Biden (lo so, legge), ma anche i capi dell’Intelligence Usa e dei Servizi segreti russi. Sono però certo che non hanno alba dei fondamenti filosofici della filosofia greca e delle dottrine cristiane, solamente (queste ultime) orecchiate, il primo da un blando protestantesimo metodista, il secondo da un’ortodossia formalista e stantia. Niente filosofia, niente religione sana, democrazia prepotente e democratura autocratica.

Male, maggiore a oriente, ma a occidente non latita.

Due leader – in modo diverso – un po’ confusi: il papa e Conte (Giuseppi), “leader” si dice, il primo per posizione oggettiva (è il “Papa”), il secondo tra virgolette, cioè secondo il “segno logico” delle virgolette, per modo di dire: “leader”, perché contrastato al suo interno da uno che è più “leader” di lui, Dimaio, e quindi non-leader

Papa Francesco è un po’ confuso sulla guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. Probabilmente è anche un problema linguistico: pensando lui in lingua spagnola, non riesce a cogliere le sfumature dell’italiano, per cui il suo linguaggio, il suo codice espressivo è a volte impreciso e quindi confuso. Secondo: ho l’impressione che la sua preparazione culturale sulla storia contemporanea e sulla storia dell’Europa sia un pochino carente. Attenzione, non sto “parlando male del papa”: sto solo cercando di individuare i limiti dei suoi ragionamenti, che poi gli suggeriscono errori di valutazione etico-politica, creando così problemi alla stessa diplomazia vaticana.

Mi spiego: a distanza di due o tre giorni, questi ultimi dei primi di aprile 2022, in sei o sette interventi, tutti ampiamente mediatizzati, gli sentiamo dire, quasi contemporaneamente: a) la guerra è colpa di tutti (più o meno), b) la guerra è sacrilega (ok, ma non si esprime su chi la ha scatenata, questa guerra), c) l’aumento degli armamenti è moralmente inaccettabile (dove lo mette, Francesco, il diritto alla legittima difesa, tema chiarito con autorevolezza alta da sant’Agostino e da Tommaso d’Aquino), d) si dice disponibile a fare tutto per la pace, ma che cosa è questo tutto? e) del patriarca Kirill dice che loro due hanno condiviso sulla necessità di fermare la guerra (mentre si sente ancora una volta il patriarca moscovita benedire le truppe russe)… e potrei continuare.

Francesco è confuso e, siccome è sovrano assoluto non solo della Città del Vaticano, ma anche, di fatto, della Chiesa cattolica (cioè universale), questa confusione può generare ulteriore confusione teologica e, ciò che è più grave, morale. Penso che qualcuno dovrebbe aiutarlo di più e meglio, soffermandosi con lui sul senso e sul significato delle espressioni – che lui usa – sulla guerra, in italiano, anche se l’italiano e il castellano sudamericano, che costituisce il suo sostrato linguistico, pur essendo due lingue neolatine molto simili e, nella verbologia, quasi identiche tramite la comune matrice latina, a volte non danno il medesimo senso e significato alle espressioni. Francesco pensa in spagnolo e parla in italiano: ciò non è banale e necessita di una interpretazione di ciò che il papa desidera dire, un po’ più sofisticata. Qualcuno lo dovrebbe aiutare, ripeto.

Un esempio tra centinaia che si possono proporre: in spagnolo l’aggettivo “rico”, cioè ricco, che si può utilizzare, ad esempio, per apprezzare un cibo assai succulento, ha un campo semantico che “allarga” il concetto di “ricchezza” degli ingredienti, dal significato di quantità (il “molto”) anche alla loro qualità (il “buono”) intrinseca.

Circa le affermazioni di Francesco sopra riportate, non posso non osservare criticamente la sua (volontaria?) ritrosia a citare la Russia e Putin come responsabili indubitabili dello scatenamento del conflitto armato (altro termine linguistico-letterario per dire guerra). Forse che lo fa per non ampliare la distanza esistente con la “teologia” del patriarca Kirill? Forse che lo fa per avere un ruolo più credibilmente pratico per favorire una mediazione con la Russia putiniana? Forse. Ma, vale la pena essere ambigui, sia per carenze linguistiche, sia per scelta “politica”, in una situazione oramai così tragica? Non riesco a crederci, per cui a mio pare il papa sbaglia. Per il momento.

Conte (Giuseppi): chi mi legge su questo blog e altrove, sa bene che non ho stima “tecnica” per questo politico, fin dal suo affacciarsi alla notorietà, dal nulla. Ammetto che vi sono aspetti di questa disistima che precedono il mio giudizio sulla qualità politica delle sue prese di posizione, come il timbro vocale (che mi dà fastidio, specie quando urla, come in questo ultimo periodo), come il look, a mio parere eccessivamente “leccato” (ciuffo troppo corvino?, pochette, e altre piccole cose ridondanti), come l’esibizione di una cultura politico-giuridica che non poche volte ha mostrato qualche zoppìa e imprecisione (non alla Di Maio, ma ancora meno accettabile perché proveniente da un signore che si vanta di una certa cultura, a differenza del citato parvenù), come la faticosità dell’eloquio, che non è scorrevole, ma sempre il risultato di una laboriosa (ed evidente) ricerca del termine più adatto, peraltro con scarsi risultati, e altro…

Se veniamo alla dimensione politica, l’uomo mostra ancora maggiori difficoltà: non essendo un grillino della prima ora, si vede a occhio la-fatica-che-fa-a-fare il grillino. In realtà Conte è un democristiano fuori tempo massimo, perché non ha l’allure, lo slancio e l’entusiasmo presuntuosamente sgangherato di un Dibattista (ebbene sì, anche l’allure, non importa se fa un pochino ridere), o l’occhio pulito di un Dimaio o della Raggi (oddio!).

Ora, essendo lui incazzato nero per essere stato sostituito, con la soddisfazione dei più, da una persona di uno spessore incomparabilmente maggiore del suo, Draghi, ma dovendo mostrarsi leale al governo di unità nazionale, pare non saper come fare per caratterizzarsi e diversificare la sua posizione da quella di Mario Draghi.

In aggiunta, oramai lo fa anche perché la campagna elettorale è iniziata da tempo, e durerà tutti i prossimi sedici mesi (non dimentichiamo che i 5S hanno accettato Draghi per non andare a votare subito, e così dimezzare seggi e stipendi, sapendo di non poter pretendere di raccattare più del 15/ 16% di suffragi, contro il 33% del 2018, e dunque la truppa si sarebbe scagliata contro lui e contro gli altri maggiorenti se si fosse andati a votare dopo il “Conte 2”).

Sul tema degli armamenti e dei relativi maggiori investimenti anche da parte dell’Italia, che dice di non vedere come Draghi, si è barcamenato e si barcamena come può, per non smentire l’appoggio al Governo, mentre non vota quanto il Governo propone in tema, o lo vota solo se il voto è “di fiducia”, per non farsi sbattere fuori dalla maggioranza. Incauto e miserello.

Potrei continuare su tutti e due ma mi fermo qui, sperando che almeno il primo trovi una maggiore lucidità, per l’importanza che può avere la sua persona e il suo ruolo al fine di far terminare la tragedia in corso.

Del secondo homo confuso men che un fico secco mi cale.

Il possibile ruolo di papa Francesco per la pace: se accettasse l’invito di Zelensky di andare a Kijv, sarebbe al sicuro? Una visita del genere sarebbe opportuna, efficace?

Circa la sicurezza personale di papa Francesco se accettasse l’invito del presidente ucraino Zelensky di andare a Kijv mi sento di dire che, in generale, nessuno avrebbe interesse a fargli del male, neppure, per dire, i Ceceni amici di Putin. I Russi certamente, no. Potrebbe essere solo vittima dell’azione folle di un militare che, contravvenendo agli ordini, cercasse di colpirlo con un’arma molto potente, per dire un missile ipersonico lanciato dalla Bielorussia, magari. Pure illazioni: nessuno colpirebbe il papa. troppo esposta e importante a livello planetario è la sua figura, perché qualcuno possa osare farlo.

Invece, circa l’opportunità e l’efficacia di una sua visita a Kijv, mi sento di approfondire e di discutere il tema. Cercherò di riflettere su tutti e due questi concetti, separandoli.

L’opportunità: ebbene, questa è legata a una riflessione molto complessa. Innanzitutto bisogna pensare che, da un punto di vista cristiano, cattolico (e anche ortodosso) e quindi ecumenico, i Russi hanno la stessa dignità umana degli Ucraini e lo stesso diritto di essere salvaguardati come esseri umani.

Di contro, gli Ucraini, che in questa tragica vicenda, sono gli aggrediti, hanno, non solo il medesimo diritto di essere tutelati in generale, nella situazione, hanno anche il diritto primario di sopravvivere e di vivere.

Nel contesto, il patriarca Kirill e i rapporti con l’ortodossia sono uno degli elementi caratterizzanti della situazione in Russia. Sappiamo che storicamente questa declinazione cristiana è stata sempre, con una certa fluida facilità, in una posizione di supporto al potere politico, dallo zarismo classico di una Caterina Seconda fino allo stesso Vladimir Vladimirovich Putin.

Ciò deriva da una Teologia assolutamente verticale, molto diversa da quella cattolica, Teologia che prevede la possibilità spirituale della divinizzazione dell’uomo, la quale è rappresentata e quasi simboleggiata dalle persone poste agli apici della società, ancora una volta, come Putin, esempio iconico. Nella tradizione russo-orientale l’antropologia del capo, oltre che la storia e la normativa politico-amministrativa generali, sono molto diverse da quelle occidentali, che sono profondamente intrise dei valori della democrazia elettiva a suffragio universale; un esempio: mentre il presidente degli Stati Uniti d’America può rimanere in carica al massimo otto anni, che corrispondono a due mandati, di contro, Putin è al potere da ventidue.

L’efficacia: non possiamo dire con certezza alcunché. Una eventuale visita di Francesco a Kijv, innanzitutto deve fare i conti con il fatto di trovarsi fisicamente nel pieno del mondo ortodosso come capo assoluto dei cattolici del mondo. Non solo, dobbiamo precisare che il mondo religioso ortodosso ex sovietico (per capirci) è spaccato tra il patriarcato di Mosca rappresentato da Kirill, che non si distingue per autonomia dal potere politico, e l’autorità religiosa di Kijv nella persona del metropolita Epifanij. Fatto tutt’altro che secondario. Da ciò segue che, sotto il profilo dell’efficacia in ambito culturale e religioso di una visita di papa Francesco, restano in me forti perplessità, mentre invece l’efficacia politica di una vista di papa Francesco, potrebbe essere più significativa. In questa situazione, Francesco è percepito più come un “politico” di altissimo profilo morale, che come un capo religioso.

Voglio dirlo chiaramente: il prestigio del papato, almeno da una sessantina d’anni, cioè da Giovanni XXIII e dagli esiti del Concilio Ecumenico Vaticano secondo, il papato ha assunto una visibilità e un’efficacia morale e politica sempre più grande. Sulla matrice di questo giudizio si ricordino, tra non pochi altri, almeno due eventi/ situazioni: il primo, il ruolo di papa Roncalli nello scongiuramento di una impellente possibilità di guerra tra le grandi potenze di allora, al tempo della “crisi dei missili” di Cuba; il secondo, il ruolo di papa Wojtyla nell’implosione del comunismo sovietico, che Gorbacev accompagnò sul piano politico, fino allo scompaginamento totale di quel mondo.

Aggiungo comunque qui, subito, che tale scompaginamento, oggi, ex post e a ragion veduta, forse è stata un pochino troppo frettoloso e poco attento alle sensibilità e agli interessi dei Russi “centrali” e “orientali”, quelli di Mosca, di San Pietroburgo, di Kazan, di Irkutsk, di Novosibirsk, di Rostov sul Don etc. In parole semplici, discuterei a fondo il tema della “russicità” dei territori, dal confine polacco di Brest Litovsk agli Urali, che papa Wojtyla vedeva un tutt’uno con il resto dell’Europa (ricordiamo il suo motto che recitava “l’Europa va dall’Atlantico agli Urali”), mentre invece, non solo l’attuale Russia putiniana, ma più in generale la Russia storica, si ritiene qualcosa di più e di diverso rispetto all’essere considerata solo la grande e massiccia propaggine orientale dell’Europa, che finisce geograficamente con la catena lunghissima dei Monti Urali e a sud con i monti del Caucaso e delle nazioni ivi insistenti.

Starei molto attento alla dizione wojtyliana perché, a mio parere, è incompleta, e non tiene conto di quanto e come la Russia sia e si senta anche “asiatica”, e non solo per l’immensità dei dodici milioni di chilometri quadrati che costituiscono la Federazione Russa extra-europea.

Ciò che sto scrivendo non deve comunque far equivocare il senso del mio stesso scritto. Non sto intendendo neppure surrettiziamente che vi sia un qualche diritto della Russia per attaccare l’Ucraina. No e no.

Ora, la priorità assoluta è la fine delle battaglie, dei bombardamenti e degli scontri che hanno come fine immediato di provocare vittime. Evito discorsi di mera pietà umana, che è implicita nei miei ragionamenti, per concentrarmi su ciò che mi pare essenziale.

In contemporanea occorre che si attuino trattative serie e sincere tra le parti con l’aiuto di chi-conta, la Nato, la Cina, gli Usa e, perché no, Turchia e Israele, per ragioni diverse.

L’esito non può che essere la condivisione di un ordine concordato che rispetti le volontà dei singoli popoli e nazioni. La Russia non può e non deve pretendere di ri-creare la situazione ex sovietica, esplicitamente o implicitamente, perché la Storia non può e non deve “tornare indietro”. Le nazioni dell’ex Patto di Varsavia hanno liberamente deciso di essere-Europa, di aderire all’Unione e alla Nato. Su ciò, è cosa saggia non prevedere che l’Ucraina possa entrare nella Nato, essendo invece plausibile e accettabile (anche dalla Russia), nell’Unione Europea.

Tornando all’ipotetica visita a Kijv di papa Francesco, mi sento di dire che potrebbe essere utile, fermo restando che sotto il profilo moral-religioso sarebbe gestibile in nome di una comune fede cristiana, sulla quale anche il patriarca Kirilli dovrebbe trovarsi d’accordo.

Circa il tema degli armamenti, suggerirei di tenere in considerazione due articoli della nostra Costituzione repubblicana, l’articolo 11 che spiega con chiarezza la scelta dell’Italia di ripudiare la guerra come mezzo per risolvere le controversie tra le nazioni, e l’articolo 52, che dice con altrettanta chiarezza i termini del dovere di difendere la Patria da ogni attacco esterno.

La Patria Ucraina è stata attaccata e penso, ragionevolmente e per la proprietà etico-politica transitiva, che debba difendersi in questa fase anche con le armi. Aiutarla in questo senso è semplicemente interpretare coerentemente l’articolo 52 della nostra Costituzione.

Se papa Francesco sostiene che non bisogna aiutare militarmente l’Ucraina, a mio parere si sbaglia.

Di contro, se si riesce a garantire la sua sicurezza personale, papa Bergoglio vada pure a Kijv a portare la sua potente testimonianza e rappresentanza cristiana. Sotto questo profilo, Russi e Ucraini sono Figli di Dio allo stesso modo spirituale, per cui la dedicazione e l’affidamento – decisi da lui stesso – delle due amate Nazioni al cuore di Maria, la Theotokos (la Madre di Dio) degli Ortodossi, presente in mille e mille icone, è una decisione meravigliosa di preghiera e di testimonianza cristiana.

La guerra e il racconto

I racconti di guerra sono un antico genere letterario, dai tempi degli storici greci Senofonte, Erodoto e Tucidide, e di quelli latini come Tito Livio, Svetonio, Giulio Cesare (che narrò le sue proprie imprese militari) e Tacito, per citare solo i maggiori e più studiati fin dal liceo. Mi viene qui solo da ricordare il grande romanzo di Lev Tolstoj Guerra e Pace, che ricorda il fallito tentativo di Napoleone di impadronirsi della Grande Madre Russia, come la chiamano da due secoli e oltre zaristi, sovietici, putiniani e cristiani ortodossi. La posizione del Patriarca Kirill si comprende (senza in alcun modo giustificarla) anche da questo aspetto storico-culturale.

Tralascio tutto ciò che sta in mezzo per duemila anni e vengo al XX secolo, quando, dopo le due Guerre mondiali, se ne raccontarono gli eventi e le sorti.

Per quanto attiene alle guerre successive, tutte sanguinosissime, tutte non dichiarate, tutte informali e asimmetriche, da quella di Corea negli anni ’50 a quella del Vietnam nel decennio successivo, a quelle africane, asiatiche e sudamericane, per finire con le invasioni in nazioni europee dell’Armata rossa negli anni ’50/ ’60, e gli interventi Usa e Nato in Afganistan (già attaccato precedentemente dall’Unione Sovietica) negli anni 2000, in Irak, in Siria e in Libia (dove si manifestò la tragica insipienza politico-militare di due leader come il francese Sarkozy e il presidente Obama), nei Balcani insanguinati nell’ultimo decennio del secondo millennio, vi è solo da dire che le guerre non hanno mai smesso di insanguinare il mondo. Per tacere di quelle dimenticate o mai poste con chiarezza e costanza sotto i riflettori dei media, come le guerre/ stragi del Ruanda, della Somalia, del Sudan o dello Yemen.

Ora, la domanda che mi faccio è: come viene raccontata questa guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, per volere di Putin e della sua cricca (uso un termine del periodo sovietico, non a caso)?

Sento in giro molte analisi raccogliticce e disinformate/ disinformanti chi ne sa ancora meno del parlante a vanvera.

Chi, dopo avere brevemente deplorato, quasi per un obbligo morale, l’attacco militare dei Russi all’Ucraina, sente il bisogno di affrettarsi a dire che… “comunque nel Donbass da molti anni i cittadini russi sono angariati dagli ucraini, etc.”, forse non ha la benché minima nozione di ciò che realmente sta accadendo, perché anche se fossero vere le angherie di cui si parla, non c’è proporzione alcuna con ciò che sta facendo la Russia putiniana in Ucraina.

E questo dovrebbe bastare per non usare i due piatti della bilancia con gli stessi pesi, o quasi. Io non riesco più a discutere con persone che hanno questa posizione.

Leggo e ascolto “titoli” di articoli e servizi noncuranti della precisione nel racconto dei fatti e soprattutto noncuranti dell’effetto psico-morale sulle menti delle persone di narrazioni piene di un uso spropositato di aggettivi terrorizzanti. Rendo onore – di contro – a inviati in loco di varie testate, come Ilario Piagnerelli e Laura Tangherlini, persone coraggiose.

Che la guerra, le bombe, gli scoppi, i ferimenti, il sangue, la fame, il freddo creino terrore è fuori discussione, ma è sbagliato e sadomasochista “infierire” sugli ascoltatori/ lettori con particolari inutilmente raccapriccianti. Non è moralmente ammissibile fare ciò, e non è neppure utile alla correttezza e alla completezza dell’informazione. E’ come girare una lama in una ferita, invece di lenirla, perché ferita è, e va raccontata e possibilmente curata e guarita.

Osservo i giovani venti/ trentenni che sono confusi: cresciuti nella società dove tutto accade o sembra accadere in tempo reale, non si sono ancora ripresi dal disastro cognitivo ed etico della pandemia, che si prendono addosso lo spaventoso scenario della guerra. E sto parlando dei nostri giovani, che non andranno a combattere. Ci si figuri che cosa accade nelle menti e nei cuori dei loro coetanei ucraini, e anche dei militari di leva russi che sono mandati a combattere senza saperlo. E a morire.

Il ruolo e la responsabilità morale dei giornalisti è enorme. Tanto di cappello agli inviati in loco che non mollano, come chi sta in questi giorni a Kijv, a Karkijv, a Mariupol, e a chi attende a Odessa e a Lviv (Lvov, Lemberg, Leopoli: quattro nomi per un crogiolo d’immensa cultura europea!).

Non altrettanta gratitudine a chi redige titoli schiamazzanti di guerre nucleari, di guerre mondiali, di rischio atomico incombente, di bombardamenti a tappeto (costoro non hanno presente le due atomiche americane, la distruzione di Dresda da parte degli Alleati, e quella di Coventry da parte dei nazisti, l’uso del napalm in Vietnam… studiare, amici miei, studiare, prima di usare espressioni erratissime!), e via spaventando.

Questi scenari sono implausibili, non fosse altro perché Putin (o chi per esso), non potranno non fermarsi prima, pena la loro distruzione, perché si sono inimicati l’Occidente intero, che è molto più forte e attrezzato della Russia da sola, sotto ogni profilo, a partire da quello economico, che resta il più importante. Vi è la variabile-Cina, ma l’Impero del Sol levante, sempre quello che è da millenni, confuciano e taoista, sa che cosa fare per non interrompere la sua ambiziosa marcia sul mondo.

Ora, l’Occidente deve trovare un modo per dare garanzie alla Russia di non schiacciarla sugli Urali, con una Nato alle porte di casa, il dittatore del Cremlino deve avere una resipiscenza nell’accontentarsi di questo: una Ucraina sul modello austriaco-svizzero, neutrale, una tutela dei cittadini russi nel Donbass con opportune autonomie amministrative e culturali e, se si ritiene, la Crimea, come accesso al Mare meridionale (Nero e Mediterraneo), cui la Russia ha strategicamente bisogno di avere accesso.

Ogni grande nazione (che sia grande per territorio o deterrenza militare come la Turchia, o sia grande per ragioni etnico-culturali e militari come Israele) può avere un ruolo positivo, grandi madri d’Europa comprese, come la Germania, la Francia e l’Italia. Sperando che gli Usa stiano fermi con le mani, cioè non estraendo la Colt 45.

Russia vs Ucraina (e viceversa): una storia complicatissima da conoscere

Sul “prima”, cioè sulle vicende arcaiche della Russia ho già parlato quanto basta in precedenti articoli. Qui ricordo solo che, dopo l’arrivo di Cimmeri e Norreni, e quindi dei rematori Rus, il principe Vladimir di Kiev, già cristiano, allargò la sua Rus verso Mosca, mentre a Novgorod si attestava un altro principe, e Mosca doveva ancora assumere importanza primaria per le Russie.

Caterina II di Russia

Dello zarismo, pure, ho già scritto qualche giorno fa. Qui è utile solo ricordare che le dinastie, da Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod, e poi con i Romanov, a partire da Pietro I e da Caterina II (che peraltro era una principessa tedesca), la monarchia imperiale allargò ulteriormente i domini moscoviti, ma sempre con un certo rispetto delle varie regioni e popoli. Non dimentichiamo che nel Tredicesimo secoli arrivarono in queste plaghe i Mongoli dell’Orda d’oro che nelle terre russe rimasero per oltre un secolo. Il loro retaggio rimase un pochino diffuso, soprattutto nel khanato di Crimea.

Nel 1917 la Rivoluzione Bolscevica fece cessare la dinastia zarista instaurando, metaforicamente, la dinastia leninian-staliniana, che durò fino a Gorbacev. Nel 1962 l’ukraino Kruscev “donò” la Crimea alla Repubblica socialista sovietica di Ukraina.

Nel 1991 finì il comunismo e si avviò un periodo confuso di democratizzazione “alla russa”, con Boris Eltsin.

E siamo a Putin, ben presto ammiratissimo dalle destre europee, che lo vedevano come vindice della tradizione dei “valori” popolari, contro la “deriva morale” dell’Occidente. Nel 2014 la Crimea russofona fu ri-acquisita motu proprio alla Russia da Putin. E’ di questi giorni la riproposizione mediatica ridicolmente penosa delle pregresse lodi a Putin da parte di Berlusconi e soprattutto di Salvini. Che figuraaa!

Lo sfaldamento dell’Unione Sovietica ha lasciato irrisolte alcune questioni fra Russia e Ucraina: la flotta sovietica del Mar Nero, la gestione delle testate nucleari dell’URSS colà presenti, le risorse minerarie del Donbass.

La presidenza ucraina di Kucma, dai primi anni 2000 è stata controversa e non priva di scandali e corruzione, al punto che il suo partito si rivolta e abbiamo la cosiddetta “rivolta arancione” nel 2004, con alla guida Julia Timoscenko (nazionalista europeista), del partito “Patria”.

Dal 2004 inizia un alternarsi di presidenza e di governi, tra quelli filorussi di Yanukovich e quelli filooccidentali di Yuschenko e Timoscenko

A un certo punto il gioco di fa duro, con l’avvelenamento di Yuscenko, accusato di nazismo, solita vecchia storia ancora attuale

Nel 2014, dopo alterne vicende, Yanukovich vince le elezioni e allora si scatena Piazza Maydan, con proteste tra le due fazioni , che si erano contrastate continuamente.

Nel 2008 era stato stipulato un accordo con l’Unione Europea per staccare l’Ucraina dalla Russia.

Nel 2014 Yanukovich fugge a est e poi in Russia, mentre in Crimea e a est nel Donbass scoppiano rivolte. Kiev dichiara l’ucraino come unica lingua

Il 13 marzo 2014 si celebra in Crimea un referendum, che a larga maggioranza è per l’adesione alla Russia. Altre rivolte accadono nel Donetsk e nel Luhansk (Donbass).

L’Ucraina reagisce e riconquista parte del Donbass (Mariupol), ma subito si scatena la controffensiva dei “ribelli” russofili.

Ed eccoci agli “Accordi di Minsk nel 2014 per soluzione mediata. Ancora a Minsk nel gennaio 2015 si aggiornano gli Accordi per raffreddare il conflitto a bassa intensità che nel frattempo continua nel Donbass.

In questi anni tutti ci si è dimenticati delle guerre a bassa intensità.

Ultime cose prima della guerra: nel 2019 Poroshenko è sostituito da Zelensky, attore teatrale e televisivo che in una sit com simula di fare il politico.

Una situazione complicatissima, dunque, dove la Federazione Russa si colloca su un versante nettamente oppositivo alla nuova Ucraina e alla Nato.

Non si può negare che il conflitto trasformatosi in guerra cruenta ha origini antiche ed ha origine in problemi irrisolti.

Vi sono i diritti dei due popoli, ma oggi, con chiarezza, vi è anche uno dei due che aggredisce e l’altro che è aggredito.

I due diritti sono i seguenti: a) non si deve schiacciare la Russia verso gli Urali; 2) l’Ucraina ha diritto di autodeterminare il proprio futuro.

Gli spazi per un accordo equilibrato ed equo ci sono, e non sto qui a ripetere quello che ormai tutti sanno. Ho solo da dire che la ragione deve tornare a prevalere sulle emozioni, come insegnava Aristotele, filosofi stoici come l’imperatore Marco Aurelio (cf. Pensieri), che ben conosceva il senso della guerra, e molti altri sapienti del nostro Occidente, e parimenti quelli dell’Oriente antico, come Lao Tzu, il cui adagio andrebbe studiato a memoria e introiettato, secondo il quale il miglior esito di un conflitto è quello di una saggia mediazione, tale da evitare il confronto fisico, che genera solo feriti, morti, fame, dolore e odio.

Guerra e legittima difesa? Rispettivamente, Russia (Putin) e Ucraina

Leggo sulla stampa che, dando armi all’Ucraina, di fatto come Nazioni europee siamo in guerra con la Russia, anche se ciò non è vero. Da niuna parte, in nessuno scritto vedo citare il concetto di morale pratica di “legittima difesa”, che in ogni ordinamento etico-giuridico è prevista, fin dai testi legislativi archetipici, sia dell’Occidente sia dell’Oriente.

Per sintetizzare, interpello in tema la morale di Tommaso d’Aquino, che ne trattò diffusamente nella sua Summa Theologiae.

Innanzitutto Tommaso distingue gli atti umani tra “buoni o cattivi in rapporto alla ragione; poiché, […], il bene umano consiste nell’essere conforme alla ragione, e il male nell’essere contrario alla ragione” (Summa Theologiae I-II, 18, 5, co.).

Già questa secca definizione ci può trovare un po’ spiazzati, spiazzati perché noi moderni abbiamo forse perso il senso di ciò che sia conforme e di ciò che sia non conforme e contrario alla ragione, e il senso e il significato del termine “ragione”. Tommaso ci potrebbe aiutare molto anche a rischiarare concettualmente il significato di “ragione”, che per lui (e dovrebbe essere così pure per noi) è la recta ratio agibilium, vale a dire il “retto pensiero intellettuale per agire cose eticamente fondate sul rispetto dell’uomo” (traduzione ad sensum).

Per valutare un atto umano secondo ragione, Tommaso ci aiuta in questo modo, proponendo tre elementi costitutivi di esso: a) l’oggetto dell’atto, b) il fine e c) le circostanze.

L’oggetto è l’atto concreto, visibile, “ragionevolmente” scelto mediante il proprio libero arbitrio. Però, tale atto è da valutare anche in relazione alle caratteristiche di chi lo compie, poiché altro è ciò che può compiere una persona di potere, altro è ciò che può fare una persona che non ha potere. Nel caso dell’agire di Putin tale riflessione è molto interessante.

Il fine si definisce con il-perché un soggetto compie un tale atto, ed è costituito da due intenzioni: a) l’intenzione prossima, che definisce la specie dell’oggetto (nel caso della guerra all’Ucraina può essere il blocco immediato di un allargamento della NATO all’Ucraina, che peraltro non era all’ordine del giorno), e b) l’intenzione ulteriore, che invece stabilisce il fine decisivo proprio di un atto (nel caso della guerra all’Ucraina può essere l’intenzione di Putin di tentare di ristabilire i confini dell’influenza russa più o meno ai vecchi confini dell’URSS, non escludendo di riprendersi anche, del tutto o in parte, gli ex “Paesi satelliti”).

Ordinariamente, l’atto è più importante del fine, ma nell’intenzione (del cuore, direbbe Gesù di Nazaret) il fine è più importante dell’atto.

Le circostanze, per Tommaso d’Aquino, si possono suddividere in sette classi: chi, cosa, dove, con che mezzo, perché, come, quando. Vedi, caro lettore, come le 5 double W (who, which, what, when, where + how) dell’imperante, e per me fastidiosa, cultura aziendalistica inglese hanno antenati illustri! Aaah, cari guru dell’organizzazione aziendale, forse siete un pochino ignorantelli…, voi siete quelli per cui il termine “agile”, si pronunzia “agiail”. Incredibile dictu. Imbecille.

Le circostanze possono influire in tre modi sulla fondazione etica di un atto umano. Primo: alcune circostanze sono trascurabili, e perciò provocano conseguenze insignificanti per quanto concerne un giudizio morale sull’atto stesso. Secondo: alcune circostanze sono accidentali (o casuali, termine da prendere, però, con le pinze) sull’atto e rappresentano solo un indizio, che può essere di carattere aggravante o riducente.

Infine, terza ipotesi: possono sussistere delle circostanze molto importanti, al punto da modificare la natura stessa dell’atto.

Oltre a quanto sopra descritto, per ogni atto umano (la decisione guerresca di Putin), si devono considerare le conseguenze prodotte, a partire da quelle principali: nel caso della guerra in corso, morti uccisi, freddo, disagi di tutti i generi, ferimenti, dolore proporzionato alle condizioni di ciascuno, laddove i vecchi, i bambini e gli ammalati stanno peggio.

Gli effetti moralmente cattivi/ negativi di un atto sono da attribuire alla responsabilità dell’agente che lo compie (Putin), anche se non si può dire che l’agente stesso abbia precipuamente e primariamente voluto – come fine – uccidere vecchi, donne a bambini, ma tale effetto era tra le possibilità di un’azione militare, che non può mai essere, come si dice, con edulcorata e indecente retorica, “chirurgica”.

A questo punto, Tommaso, figlio del suo tempo, fa l’esempio di un Crociato che ammazza un nemico per difendere la Cristianità, e spiega come l’effetto dell’uccisione di un “infedele”, di per sé, moralmente negativo, non lo è primariamente e del tutto, perché il fine è quello di salvaguardare il bene maggiore, che per il Crociato è costituito dalla Cristianità. Per noi questo paragone, ovviamente, non regge, mentre per gli integralisti islamici regge ancora. Vedi, gentile lettore, come debba fare ancora molta strada la cultura giuridico morale di un certo islam!

Secondo la morale tommasiana, dunque, considerando il duplice effetto possibile di un’azione, uno buono e uno cattivo, si possono individuare quattro condizioni che rendono possono rendere un atto legittimo. In questo ci aiuta il filosofo domenicano Giovanni di San Tommaso (1589-1644):

  1. L’atto stesso è buono o quantomeno neutro, basta che non sia cattivo.
  2. L’effetto cattivo non è oggetto dell’intenzione.
  3. L’effetto buono non è prodotto tramite l’effetto cattivo.
  4. L’effetto buono è più importante dell’effetto cattivo.

Ovviamente, il frate domenicano si ispira al Doctor Angelicus, (magister multorum, etiamque mihi) che scrive:

«Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Orbene, codesta azione non può considerarsi illecita, per il fatto che con essa s’intende di conservare la propria vita: poiché è naturale per ogni essere conservare per quanto è possibile la propria esistenza. Tuttavia un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine. Se quindi uno nel difendere la propria vita usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita» (Summa Theologiae II-III, 64, 7, co.)

San Tommaso è lucidissimo, quando afferma che un’azione che abbia per fine la difesa della propria vita non sia per sé stessa illegittima, nemmeno nel caso in cui abbia come effetto l’uccisione dell’aggressore; ma questa azione può diventare illegittima per eccesso di reazione (quello che nel diritto penale contemporaneo si definisce come “eccesso colposo di legittima difesa”). Non esiste dunque una difesa illegittima (in linea di principio l’autodifesa è sempre legittima), ma una difesa sproporzionata.

Un esempio: le guerre americane nel Medioriente portate avanti dall’amministrazione Bush con quell’imbroglione menzognero di Tony Blair, e in seguito dall’amministrazione Obama, sono un fulgido (fo per dir) modo di difendersi, offendendo in maniera sproporzionata Nazioni e Popoli, in relazione al fine con il quale dichiaravano di voler proteggere il proprio paese (leggasi interessi economici).

Ora, se riferiamo, per analogia, questa lezione morale alle vicende della guerra di aggressione in corso da parte della Russia (di Putin) all’Ucraina, non si pone, caro Domenico Quirico, che scrivi su La Stampa, il tema di una guerra contro la Russia da parte dell’Occidente (Italia compresa), poiché invia armi all’Ucraina, ma il tema – di altissima e inconfutabile Legittimazione Morale – di una LEGITTIMA DIFESA.

La guerra paranoica e la cecità occidentale

Non nego una riga di quanto ho scritto e qui pubblicato sulla Russia e la sua storia qualche giorno fa.

La grande porta di Kiev

Oggi, però, dopo che Putin (non cito la Russia come Nazione), come capo autocrate dello stato, ha ordinato un attacco militare all’Ucraina che pochissimi hanno saputo prevedere, scrivo qualcos’altro. E non mi limito ad aggiungere la mia flebile voce alla richiesta di fermare le operazioni e di tornare a saggia trattativa. Provo intanto a parlare di Putin, guardandolo in faccia attraverso i video che arrivano ogni momento.

L’uomo appare furibondo, determinato nella sua sicurezza militare, ma solo. Solo. Anche se lo assistono militari e il volto vecchio di Lavrov. E qualche altra nazione, grande o piccola, anche se molto ambiguamente. Penso ai ventenni di Kazan e di Irkutsk obbligati a combattere contro ventenni di Lviv e di Karkiv, per decisioni che li sovrastano, perché non vi sono luoghi dove discutere, o Dume in grado di mettere in mora l’uomo del KGB.

Zelensky mostra coraggio e determinazione, e così appare anche la verità psicologica di un uomo messo in una situazione-limite (Jaspers), anche se è un ex comico.

L’Occidente, come a tempi dell’11 settembre, ha mostrato anche in questo caso la sua pasciuta nonchalance. E non mi metto a proporre dei “se” l’Occidente, “se” gli USA… Fare discorsi di politica e di storia attuale con i “se” è sempre inutile se non controproducente. Ma qualcosa s’ha da dire.

Perché i Paesi Nato non hanno smesso di incoraggiare l’Ucraina a un’adesione, sapendo che la Russia non lo può sopportare? E c’è qualcuno che osa farlo ancora in queste drammatiche ore! La Nato ha strutture militari importanti nei Paesi baltici: sarebbe come se la Russia li avesse a Guadalajara o a Ciudad Juarez, nel Messico settentrionale. Non ci ricordiamo dei missili russi a Cuba, 1962, quando forse solo l’intervento di papa Giovanni XXIII evitò al mondo qualcosa di irreparabile?

Putin non sembra meno determinato del Kruscev di quegli anni, con l’aggravante che la sua persona sembra meno in-controllo di quel capo comunista. Non voglio fare diagnosi a distanza, ma l’uomo non pare lucido nel gestire un potere che appare incontrastabile, in Russia.

E il popolo russo? Tutto il popolo, intendo. Intanto non dimentichiamo che il suo reddito pro capite è analogo a quello del popolo bulgaro, e il racconto di una Russia accerchiata prevale, in quelle contrade.

In estremo Oriente, la Cina pare sonnecchiare, ma ha in mente di fare altrettanto con Taiwan. Chi la fermerebbe? La flotta americana del Pacifico, quella che sconfisse i giapponesi 77 anni fa? Non credo. Se si leggono attentamente i testi dei recenti accordi politici stipulati fra Xi e Putin, si può osservare, accanto a uno scetticismo radicale nei confronti del sistema democratico parlamentare, una pessimistica e disincantata visione hobbesiana della politica, là dove il popolo affida totalmente il potere al gruppo di oligarchi che lo assume, in qualsiasi modo, senza alcuna possibilità di metterlo in questione.

Noi Occidentali non siamo disponibili a “morire per Kiev” e si capisce. Vogliamo finalmente studiare a fondo la storia, la politica e le paure delle nazioni grandi e piccole che si collocano ai confini della… storia? La Russia è la più grande di queste nazioni, ed è abitata da uomini e donne come noi.

Ovviamente non mi metto qui a fare il diplomatico senza titoli, ma resto sul ragionamento.

Questa situazione echeggia in chi possiede anche solo nozioni sommarie di storia contemporanea, due esempi contrapposti: il primo ricorda la questione dei Sudeti, pochi anni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, quando le potenze occidentali non opposero alcunché alle pretese di Hitler su quei territori; la ragione/ scusa era la medesima di Putin, quella di proteggere i molti Tedeschi abitanti quella regione boema; il secondo, invece, può rinviare alla questione altoatesina o sudtirolese, che concernette la nostra Italia del secondo dopoguerra: allora, l’immensa saggezza di De Gasperi permise di evitare una possibile guerra civile di confine fra Austria e Italia, con il riconoscimento alle popolazioni tedescofone di tutti i diritti relativi alla loro cultura, modello scolastico e anche, in parte amministrativo. Da decenni, dopo il periodo delle bombe nei tralicci, a Bolzano, a Merano, a Vipiteno… si vive in un’Italia dove si parla tedesco e l’italiano non è obbligatorio, ma convive con la maschia lingua gotica.

Anche i Russi sono presenti variamente negli stati che si sono formati dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica: perché non è possibile imitare la saggezza del democristiano De Gasperi?

Ancora una volta i contendenti non si dividono (non si devono dividere) tra buoni e cattivi. Certo che i cattivi in questa fase sono i Russi e i buoni gli Ucraini e con questi siamo buoni noi Occidentali. Ma non è così.

Noi e loro abbiamo bisogno di risorse, di energia per vivere nelle nostre case e per far funzionare le nostre fabbriche. Nel nome di una comune presenza sul Pianeta e di una comune “humanitas”.

Putin ha trascinato la Russia in un’avventura dalla quale uscirà, speriamo presto (ma senza che noi ne godiamo), molto male. Dopo questa guerra che non durerà a lungo, la Russia non deve diventare un conglomerato di paria a livello internazionale.

E la Nato? L’Alleanza atlantica è stata istituita quando iniziò la “Guerra fredda” per difendere l’Occidente da Stalin, che si era già incamerato mezza Europa. E’ ancora il caso che sia gestita come settant’anni fa con un segretario generale i cui compiti nessuno capisce? Stoltenberg, chi è costui? Mi verrebbe da scherzare, con san Paolo, sul suo nome.

Ancora una volta, sul tema, noto l’inadeguatezza dei discorsi che fanno i nostri politici, tra i quali vi è chi non riesce a parlare chiaro, perché imbozzolato nel populismo (Salvini), e chi tuona (mi verrebbe da ridere se non parlassimo di una tragedia) roboanti proclami anti-russi, come Letta. Poca roba. Largamente insufficiente alla bisogna.

Mentre seguiamo quello che succede, anche se con un senso di impotenza, proviamo a studiare di più ciò che sta producendo questa fase tragica. La ragione e la cultura aiutano sempre.

Dal principe Vladimir di Kiev a Vladimir Vladimirovich Putin di San Pietroburgo: lo “spirito” della Santa Madre Russia cristiana: vizi e virtù di una grande Nazione, ragioni e torti dello csar (zar) attuale

Gli Americani e Biden, tra questi il primo, nonché tutti gli studenti dei ridicoli licei americani, nulla sanno di Costantino-Cirillo e Metodio, del Principato di Kiev, e del principe Vladimir, che non è Putin, perché risale al X secolo dopo Cristo. Negli USA queste cose le sanno solo (forse) alcuni professori di antichità cristiane e bizantine.

Cirillo e Metodio, fratelli, erano due monaci basiliani che portarono il cristianesimo di Costantinopoli, in parte d’accordo con la chiesa di Roma, nella immensa “slavitudine” nel IX secolo d. Cristo. Inventarono lo slavo ecclesiastico antico, che divenne la terza lingua della chiesa universale, oltre al greco e al latino.

Il principe Vladimir Monomacos governava Kiev nel XI secolo, lui coltissimo, sviluppò il cristianesimo ortodosso sempre più largamente, dall’attuale Ucraina verso la Russia centrale.

Altro grande capo russo fu Aleksandr Jaroslavič Nevskij, che fu principe di Novgorod e di Vladimir nel XIII secolo, famosissimo per le sue epiche gesta militari, è considerato forse il massimo eroe nazionale.

Ivan IV Vasil’evic detto il Terribile, fu il primo csar (cioè il cesare) di tutte le Rus, nel XVI secolo, principe per diritto divino, secondo la tradizione autocratica che si stava formando, e che è durata fino a ora, attraverso gli zar, Vladimir Ilich Ulianov, cioè Lenin, Josip Vissarionovic Dgusasvilij, cioè Stalin, Nikita Kruscev, Leonid Breznev, Yuri Andropov, Konstantin Cernienko, Michail Gorbacev e Boris Eltsin. Vladimir Putin è l’ultimo di questa tradizione millenaria.

Pietro I Romanov volle fondare sulla Neva una grande capitale, che prese il suo nome, Pietroburgo, o San Pietroburgo, poi Pietrogrado, dal 1917 Leningrado, e infine, una venticinquina di anni fa, sindaco Anatoly Sobciak, riprese il suo nome imperiale di San Pietroburgo. Pietro il Grande chiamò per renderla magnificente i migliori architetti italiani dei primi del Settecento, il Quarenghi, il Rossi, il Rastrelli e il Fioravanti, che la fecero la più bella città “italiana” fuori dall’Italia. E San Pietroburgo, che suggerisco a ogni lettore di visitare, dove si respira proprio un’aria di bellezza, è una delle più belle città del mondo, affacciata sul Golfo di Finlandia, porta d’Europa a Nord, quando a luglio non viene mai buio, di notte.

Nicola II Romanov, l’ultimo csar, venne fucilato nel 1918 dai bolscevichi a Ekaterinburg assieme alla zarina Alexandra e alle quattro figlie. Così fu la fine dello zarismo, e l’inizio del comunismo sovietico. La Russia diventava Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’URSS.

Lenin, Stalin e l’URSS comandarono dal 1917 al 1990, più o meno, quando, prima Gorbacev, e poi Eltsin liquidarono l’enorme conglomerato statuale dell’Unione Sovietica, che non riuscì a realizzare il paradiso (marxiano) in terra, ma fu fondamentale per sconfiggere Hitler, fatto che nessuno che sia sano di mente può e deve dimenticare. Che il comunismo sovietico abbia anche fatto morire milioni di kulaki e di ipotetici nemici del popolo, dalle Solovki alla Kalima, dall’ovest bielorusso a Vladivostok, alla Lubianka per ordine di Berija e di Stalin e altro di orrendo, è fuori di dubbio, ma la storia russa non è tutta qui.

Il comunismo, ad esempio, non ha sconfitto il cristianesimo, che dopo la fine dell’URSS è tornato fiorente come ai tempi degli zar.

Ora siamo nel Terzo millennio e da trent’anni il grande impero dei Soviet è crollato. Gli stati satelliti europei, liberati da quello che era stato indubbiamente un giogo, e parlo della Germania Est, che è stata formalmente annessa (si studi almeno un po’ di diritto internazionale per capire il verbo che qui ho utilizzato) a quella Federale, della Polonia, della Cecoslovacchia, dei tre paesi baltici, della Romania, della Bulgaria, dell’Ungheria, etc. hanno scelto di associarsi alla Nato per poi entrare nell’Unione Europea, e su questo Putin ha torto, quando dice che queste nazioni sono state inserite nella Nato per forza e non per libera adesione.

La Russia da trent’anni a oggi ha cominciato a sentirsi scoperta sul fianco occidentale, e il suo presidente autocrate ha iniziato a lavorare militarmente per riavere spazi di controllo, e dunque la ripresa di controllo della Crimea e di alcuni stati caucasici, come l’Ossezia e la Transnistria.

Circa poi la “russicità” dell’Ucraina, si può pacificamente convenire che essa non è un elemento fasullo o implausibile, perché l’Ucraina, repubblica socialista aderente all’Unione Sovietica per volontà di Lenin nel 1922, appartiene alla pluralità culturale, storica e religiosa delle “Rus”, che sono più d’una, pur se diverse tra loro.

Anni fa girai in auto tutta la Russia Europea con l’amico Roberto. Partimmo da Rivignano il 1 agosto e tornammo il 30. Era il 1980. Il 2, quando vi fu la strage di Bologna eravamo a Cracovia e sapemmo dell’attentato al confine di Brest Litovsk, tra Polonia e URSS. Pensammo molto male. Solo a Minsk riuscimmo a parlare con l’Italia e mia mamma Luigia mi raccontò degli 85 morti della stazione di Bologna. Le tappe: Vienna, Cracovia, Varsavia, Minsk, Smolensk, Mosca, Novgorod, Leningrado (così si chiamava allora), Turku e Helsinki in Finlandia, Stockolm, Copenhagen, Hannover, l’ultima notte, Rivignano. 8300 chilometri in tutto con una Renault 4 blu, di Roberto, quella da 1100 cc, più “potente” (figuriamoci) della 800 cc, che non ci ha mai tradito, salvo l’intasamento del carburatore in Finlandia. Andammo a casa di ragazzi russi, trovando nelle donne di casa, mamme e nonne (le babuske) una affettuosa cordialità, e “fermammo”, da buoni ragazzotti “Taliani” ragazze russe, belle e intelligenti, a Minsk e a Leningrado. Il viaggio più grande e intenso della mia vita, più “grande” di quelli, numerosi, fatti nelle Americhe per lavoro, in Argentina e negli USA.

Qualche anno fa invece fui in Ucraina, sul fiume Dniepr, a Dnieprpetrovsk, in visita a un’acciaieria per proporre un percorso di formazione.

Ora, siamo tutti d’accordo che le ultime decisioni di Putin sono pericolose (parlo del riconoscimento delle “repubbliche” di Lugansk e di Donetsk), per cui è indispensabile che lui fermi i tank e i Sukoj bisonici lì dove stanno, ma l’Occidente, USA in testa, devono ri-studiare o studiare ex novo la storia che io ho qui proposto in sintesi estrema, per comprendere il senso profondo dell’attuale situazione e delle decisioni fin qui prese dal Cremlino, per assumere, a loro volta, le decisioni più opportune e intelligenti.

E non dimentichiamoci che il gioco degli scacchi (qui si comprenda la similitudine) è un passatempo nazionale, coltivato nelle lunghissime e fredde serate della Grande Madre Russia.

AGGIORNAMENTO

Confermo la mia analisi, ma spero come tutte le persone ragionevoli, che le armi tacciano e si torni a parlare costruttivamente tra le parti.

La fuga della bimba

Era scapata (con una “p”, perché non sempre curava le doppie, era un pochino dislalica), per una sgridata più forte di mamma Maria. Papà Cesare aveva detto di averla vista prendere la biciclettina e schizzare via per strada, scomparendo in un lampo.

Allora abitavano vicino alla stazione dei treni, nel paesone del Medio Friuli. Famiglia piccolo borghese, perché papà era impiegato agli Uffici finanziari e mamma casalinga, e grande ospite culinaria.

Aveva un fratello più grande, più giudizioso, lei frenetica, la piccola. E un fratellino nato da pochi mesi.

Si era offesa e così aveva deciso di andare via da casa. Aveva preso con sé un po’ di roba, due mutande e una canotta, non lo spazzolino da denti, e pedalava forte verso est, ma non sapeva che era est (conoscendola, mi verrebbe da dire che neppure oggi saprebbe di andare verso est). In dieci minuti si trovò davanti alla grande Villa, dove l’aveva portata la maestra qualche settimana prima. Tutta la classe era andata a piedi fino al paese della Villa. La maestra aveva spiegato per strada che era dei conti Manin e che l’ultimo Conte viveva ancora, ma non nella Villa, perché era diventato povero e viveva in un capanno in mezzo ai campi, sul fiume Corno.

La bimba si era molto dispiaciuta per le disgrazie del Conte, perché era di cuore buono e aveva raccontato a casa tutta la storia.

Papà, che sapeva molte cose, le aveva poi raccontato la storia di quella grande famiglia che aveva voluto costruire una villa in mezzo alla campagna del Friuli, anche se loro venivano da Venezia.

La bimba aveva ascoltato i due racconti silenziosa, e ora si era fermata davanti alla Villa, e si era seduta pensierosa sul da farsi.

Avrebbe dovuto ora anche lei cercarsi un posto dove dormire, visto che era scappata da casa e non aveva più un tetto e un letto dove dormire? Proprio come l’ultimo vecchio Conte. E le veniva un po’ da piangere. Ma non voleva tornare indietro, voleva andare avanti.

Si ricordava che oltre la grande porta nelle mura la strada continuava fino a un altro paese e poi a un altro ancora. C’era già stata con la macchina, e aveva guardato fuori dal finestrino.

Si ricordava di aver visto anche una grande chiesa con una cupola in mezzo ai campi e le pareva che si chiamasse con il nome della Madonna, ma poi non ricordava bene di quale Madonna si trattasse. Era una delle tante Madonne di quella grande campagna silenziosa.

Ed era arrivata alla chiesa con il colonnato, chiusa, solitaria. Aveva con sé una barretta che mangiò seduta sul prato.

Poi si era rimessa in strada ed era arrivata al paese. Aveva deciso di andare dalla zia, ma non si ricordava dove abitasse, ma stava anche passando il tempo, perché era pomeriggio, un pomeriggio di ottobre.

Paura. Ora aveva paura.

Cominciava anche a tremare, e le veniva da piagnucolare. Il tempo passava e non sapeva più cosa fare. Pensava che sarebbe morta, e fu allora che si sentì chiamare… e non credeva alle sue orecchie.

Si girò verso la strada, da dove era venuta e vide una figura in bicicletta… ma era… papà “Papà, papà, sono qui“.

E pianse.

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