Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

Dalla Liquentia (la Livenza) al Soça (l’Isonzo), passando per il Cellina-Meduna, il Noncello, il Sile e il Fiume, il Tagliamento e lo Stella, il Torre e il Natisone, i verdi fiumi del Friuli, fanno da “basso continuo” agli idiomi del Friuli che, dall’Italiano nazionale, accolgono nel novero anche parlate Slave e Germaniche, mentre il Friulano, da una base neo-latina si avvale di prestiti preziosi che vengono dal Nord germanico e dall’Est slavo, in un dia-logo straordinario fra diversi

Fiumi alpini e fiumi di risorgiva, verde smeraldo e verdolino trasparente tra i sassi, verde cupo e quasi olivastro… d’infinite sfumature, le acque del Friuli brillano. Da Ovest a Est, dal tramonto all’alba, da Occidente a Oriente: la Livenza (sicut narrat amicus Fulvius Portusnaonensis) nasce dalle Prealpi pordenonesi, a Polcenigo e dintorni, in località Santissima, e da una profondissima polla che viene dagli abissi del monte attraverso un sifone senza fine, chiamata Gorgazzo, e da lì serpeggia per l’Alta pianura con meandri dolcissimi, attraversando la femminea Sacile onusta di palazzi veneziani specchiantisi nel fiume, prima di sconfinare in Veneto, fino alla foce tra Caorle e Jesolo. Liquentia itaque transit per campagne di coltivi e di messi, e di vigneti ricchi dell’aroma cui dedicano vite e risorse da antichi vinificatori i loro discendenti.

Il Tagliamento è il magno fiume alpino. Dal Passo della Mauria a Lignano scorre per centosettanta chilometri portando a valle l’infinito di sassi e pietre da milioni di anni. Integro, selvaggio, desertico negli alvei smisurati, che si slargano fino alla massima larghezza dei fiumi d’Italia, assieme al Piave, al Ticino, al Sesia e al Po, il Tiliaventum scorre in alvei sempre diversi, a volte turbinoso e tremendo, come quando con acque limacciose sconfina oltre gli antichi argini, iniziando furenti scorribande fra le golene, dove l’uomo qualche volta osa costruire ricoveri, che il fiume sconquassa, perché l’acqua torna sempre dove è già stata, mentre l’uomo di questo a volte non ha memoria, e a volte scorre quieto e mormorante tra boscaglie di ripa ospitante animali di ogni genere e specie.

il fiume Stella

Lo Stella sgorga sulla linea delle risorgive, ma le sue acque sono – più o meno – le stesse, montane, del Tagliamento, che in parte si inabissano nella morena delle alte Terre di Mezzo del Friuli, e ricompaiono con il nome di Corno. Lo Stella: fiume di risorgiva, che vien fuori dalla terra in un rigagnolo a Flambro, sulla Stradalta, ma dopo una decina di chilometri già si può navigare con barche dal fondo piatto. Lo Stella è un poema, capace di rime incrociate con i suoi affluenti, come il Corno che scende dalla morena di San Daniele e Fagagna, e più a Sud tra i boschi del paese di Rivinius, centurione augusteo, compensato dal princeps primo imperator, con campagne rigogliose di viridescente verzura, prende il nome di Taglio, diventando il maggiore dei tributari. Si può contemplare lo Stella già nel borgo romito di Sterpo, dove scorre spingendo le ruote infaticabili di un antico molino, e a Flambruzzo, ove rispecchia il castello, in attesa di ricevere il contributo d’acque del Taglio, del Torsa e del Miliana, fino a conferire dovizia imperiosa d’acque profonde nella salmastra laguna che si adagia tra il borgo pescatore di Marano e la immensa Lignano… che è come circondata dai due fiumi, il Tagliamento a Ovest e lo Stella a Est.

L’Isonzo è nativo di là delle montagne Giulie, come sorgente. Attorno ai suoi primi zampilli si ergono le più grandi montagne del Nordest, il Triglav, lo Jalovec, la Sklratiça, per poi scendere verso il confine di Gorizia. Il colore delle sue acque è smeraldino, riflettendo alti cieli e floride boscaglie, che lo costeggiano.

Segna più o meno il confine tra la Slavitudine infinita la Furlanja taliana. Assieme con il Torre, il cui alveo è spesso desertico, e il Natisone, che in esso confluiscono più a valle.

A Oriente si incontrano, appunto, il Natisone e il Torre, mentre a Occidente scorrono il Meduna e il Cellina, imitatori alpini del Tagliamento. Il Noncello, mi suggerisce l’amico Romeo, raccoglie acque inabissate del Cellina, Nau Cellius, ad echeggiare la città perduta di Caelina, dal nome antico. Il fiume che bagna Cividale viene dalle montagne slovene tra gole profonde e si incastra nelle forre selvagge.

Fiumi continui come il Natisone e altri a regime torrentizio come il sistema Cellina-Meduna e il Torre, portano acque a Sud, verso l’Adriatico e quindi al Mare nostrum.

Un solo fiume, lo Slizza, che scorre a Nord Est nel Tarvisiano, si diparte dalla Sella di Camporosso e procede verso la Drava e dunque il Danubio.

Anche questi aspetti attestano come il Friuli sia la Terra del Confine per eccellenza della nostra Italia. Il confine interno di un’Europa che viene definendosi ancora, nella Storia grande e in quella quotidiana della politica e dei conflitti.

I fiumi sono arterie vitali che irrorano di vita le terre del confine e assomigliano alle lingue parlate, che “stanno dentro” la lunghissima istoria degli idiomi locali, filiazioni dirette delle antiche radici linguistiche dell’Europa intera: l’Italiano, lo Slavo delle Valli del Natisone, del Torre e della Val Resia, il Tedesco medievale di Sauris – Zahre e di Sappada – Pladen, il Friulano che – su una base neolatina – vive di prestiti formidabili dai contigui Slavo e Tedesco. Mentre a Grado canta Biagio Marin in un Veneto, antico idioma del mare, come a Marano, sull’altra laguna…

Una ricchezza ineguagliabile, quella dei fiumi e quella delle lingue, che ancora di più spicca in questi momenti drammatici della storia dell’Europa, quasi ispirando l’unico modo della convivenza tra diversi, l’eterno Dia-Logo, cioè la parola-che-attraversa spazi fisici e mentali e confini di tutti i generi, nell’unità sostanziale dell’essere umani.

Que viva Argentina, ma che brutta la vestaglietta di Messi! “Sport-washing” di bassa lega, e che brutti i comportamenti, avuti dopo la conquista del titolo mondiale, del “Dibu” Martinez, portiere argentino dell’Aston Villa, un gran maleducato. Punti persi per la gloriosa Nazionale argentina, cui io tengo, subito dopo l’Italia!

E’ come se fosse “andato a posto” un evento naturale, e perfino razionale, della storia del calcio, che abbia vinto l’Argentina il mondiale di calcio, pure se in… Qatar, cioè in uno dei posti attualmente più sbagliati del mondo, forse battuto nel genere solo dalla Corea del Nord, dall’Iran, dalla Somalia, dalla Libia, dall’Eritrea e compagnia disumana. E naturalmente dalla Russia, che comunque aveva avuto il suo mondiale, (in coabitazione con l’Ucraina!) nel 2018.

Avenida 9 de Julio, Santa Maria de los Buenos Aires

Sono contento che abbia vinto la Albiceleste, in assenza dell’Italia, anche perché l’Argentina è una mezza Italia, a partire da Lionel Messi Cuccittini e da Angel Di Maria, perché ci sono anche Pezzella, Tagliafico, Scaloni, Musso, Rulli, etc.

E perché ha nei suoi “geni” momenti di gioco ammirevole: a volte assomiglia all’Italia e a volte al Brasile nei loro giorni migliori. Dell’Italia ha la ferocia tattica mentre del Brasile ha una parte della sublime arte prestipedatoria (avrebbe detto il magno Gioan Brera fu Carlo).

Sono stato in Argentina a trovare i nostri emigranti qualche decennio fa, e ho parlato friulano a Santa Maria de los Buenos Aires, a Cordoba, a Rosario, a Salta e Colonia Caroja. Mi sono sentito, io già grande, come quando ero bambino, perché l’Argentina è come l’Italia di cinquanta anni fa, o come il Friuli di prima del terremoto, per ricchezza nazionale e per reddito pro capite.

La Francia ha perso perché ha giocato un po’ peggio, soprattutto nel primo tempo, ma non è più debole, forse è vero il contrario. E sul tema calcistico qui mi fermo.

Parlo d’altro: prima dei gesti insulsi, degni del peggior campetto di periferia, da parte del portiere Martinez, che sono parsi squallidini, anzichenò. Ogni tanto emergono in quel tipo di giocatori i peggiori tratti della cultura meridional-ispanica, ma anche italiota, quelli che non sanno dove abiti la lealtà, che pure era insegnata dai filosofi della Magna Grecia, visto che qualche giornalista ha scomodato perfino il paradosso di Achille piè veloce e della tartaruga di Zenone di Elea, per dire che “Achille (Messi) ha finalmente raggiunto la tartaruga (il titolo mondiale)”. Suggerirei a quel giornalista di lasciar perdere i paradossi di Zenone, che non hanno assolutamente il senso elementare che ha voluto intravedere. A ognuno il suo mestiere, come sempre.

Sto parlando dell’hispanidad di quando la grande potenza di Carlo V imperava sui mondi e anche nell’Italia meridionale e a Milano. Penso all’hispanidad del puntiglio di frate Cristoforo giovane che uccide chi non gli dà il passo perché lui è un hidalgo e l’altro è un c.zo qualunque (come disse qualche secolo dopo il marchese del Grillo, Alberti Sordi voce), nel racconto del nostro grande Don Lisander de Milàn.

Non dell’orgoglio di quella cultura che è grande, perché è una declinazione fondamentale della latinità, capace di epiche imprese insieme con dannate vicende coloniali. Ecco: della migliore cultura ispanica mi sembra che Diego Armando Maradona sia un rappresentante inimitabile, magari assieme con don Cristobal Colòn, non a caso un genovese ispanizzato, così come don Diego è stato un argentino napoletanizzato, en el bien y en el mal. Paragoni e paradossi.

Messi non-è-Maradona come uomo. E questo è scontato. Non ha di Diego la sanguigna capacità di appartenenza al popolo e ai capipopolo, come capopolo; Messi è popolare, ma non parla la lingua del popolo; il suo castellano-argentino idiomatico è incerto, la sua voce quasi afona, non esprime concetti percettibili e intelliggibili; fino a questi mondiali non avevo presente il timbro della sua voce, come peraltro di quella di dom Cristiano de Madeira.

La cosa che meno mi è piaciuta di lui, alla consegna del trofeo, è stato l’indossamento prono della orrida vestaglietta da festa nero-trasparente, il così chiamato bisht, che il potente Emiro gli ha porto con autoritaria autorevolezza, in base, pare, alla tradizione saudi-emiratina. Don Diego non l’avrebbe mai accettata, perché l’avrebbe rifiutata con un gesto autorevole senza essere sprezzante, tornando a gioire con la sua maglietta bianca e celeste sporca di fango, perché nel 1986 in Mexico i campi di calcio erano anche fangosi.

A parziale giustificazione di Leo potrei ricordare la seguente parabola matteana 22, 10-14:

(…) 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Ecco, forse Messi ha inconsapevolmente rispettato questo costume vicino-orientale, presente nella Bibbia ed echeggiato nel Corano. Forse… anche perché l’Emiro è anche il suo “datore di lavoro a Paris”.

La Dieci albiceleste per Maradona era come una seconda pelle, come l’azzurra del Napoli Football Club, dove aveva la sua seconda casa del cuore.

Il calcio non è solo un gioco oramai miliardario, che interessa tutti i popoli del mondo, ma è anche un fenomeno da studiare sociologicamente e con gli strumenti della psicologia sociale, dandogli la giusta importanza, per la capacità che ha quel mondo di svelare, non solo gli intrighi qatarini con i loro riflessi brussellesi, ma anche la verità di persone vere, forti, autentiche, come Sinisa Mihajlovic, che Dio l’abbia in gloria.

Esempi, ancorché imperfetti (come è umano che sia), per i giovani.

Un’ultima considerazione per chi ha raccontato il mondiale del Qatar: accanto a narrazioni bellissime e ai riflettori sui diritti umani calpestati in quel luogo e tutt’intorno, anche dalla FIFA (che il signor Infantino si vergogni e con lui Michel Platini, suo predecessore e tutti quelli che hanno “venduto” il mondiale), non dimentico e condanno le esagerazioni cronachistiche e dei commenti. Una per tutte: la vergognosa similitudine di tale signor Gabriele Adani, che ha paragonato le azioni calcistiche di Messi a ciò che viene raccontato nel capitolo secondo del Vangelo secondo Giovanni, dove si narra del miracolo di Cana. Poveretto. Non blasfemo, solo misero.

Humanas mediocritates observo

Ora che la signorina Piperno da Roma è tornata a casa dall’Iran dove ha passato in carcere quarantacinque giorni per essere stata “beccata” a manifestare giustamente per ricordare l’ammazzatina (copyright di Andrea Camilleri) vigliacca di Masha Amini, mi viene da ragionare sull’accaduto.

I media la presentano come una travel blogger, cioè una viaggiatrice che pubblica i suoi viaggi su un blog che raccoglie pubblicità per conseguire un reddito.

Oggi ci sono vari tipi di blogger, in generale organizzati e visibili dentro il più vario merchandising / marketing, per lucrare nei rispettivi mercati: tanti clic sul blog, altrettanti centesimi o euro riconosciuti dalla ditta che si pubblicizza sul link; c’è poi il tipo di blogger come me, senza accordi commerciali e con regole precise e rigorose per il dialogo tra me e il lettore. In altre parole, a me arrivano commenti e contatti che – di volta in volta – decido se pubblicare o meno. Se educati e pertinenti li pubblico, altrimenti no.

Di solito pubblico tutto a meno che non vi siano insulti. In quindici anni di vita del mio blog www.sulfilodisofia.it, e la pubblicazione di almeno millesettecento post e una ventina di corsi universitari di etica generale e del lavoro, di sociologia, di filosofia morale e di teologia sistematica in power point, ho ricevuto circa trecento messaggi (pochissimi, dunque), tutti pubblicati eccetto uno solo, che conteneva insulti nei miei confronti, non solo immotivati, ma letterariamente scadenti. Niente da paragonare a una “pasquinata” o cose del genere!

Controllo le statistiche delle visite settimanali/ mensili, e “faccio” numeri di tutto rispetto (circa tremila al mese) che attestano visite da tutti i paesi del mondo nelle seguenti percentuali approssimative: 60% dall’Italia, 20% dal resto d’Europa e 20% dal resto del mondo, con presenze anche dalle nazioni più remote, come le isole Samoa e le Marshall.

Ho scelto di stare nel web in modo curato e rispettoso dei saperi, evitando ogni forma di abbassamento dei toni e dello stile scrittorio, salvo che in certi pezzi dove non esito ad utilizzare l’invettiva e a definire qualcosa come idiozia.

E vengo alla signorina citata. Sono molto lieto che sia stata liberata da quel paese senza democrazia e rispetto per i diritti umani, ma mi chiedo se sia saggio viaggiare in modo così “esposto” in territori di quel genere, peraltro segnalati regolarmente come pericolosi dalla Farnesina.

Se si è maggiorenni e si sceglie di andarci, e di andarci non con lo stile del viaggiatore attento e cauto, ma esponendosi, o per raccogliere immagini e situazioni “forti” e/ o per militanza, si dovrebbe anche accettare di subirne e di pagarne le conseguenze.

Come è successo per le famose “Simone” e le Greta & Vanessa degli anni di guerra Irakeni (la guerra letteralmente “inventata” in modo criminale dal George W. Bush e da Tony Blair, la mia più grande delusione politica dell’ultimo mezzo secolo!), lo Stato italiano si è accollato tutto l’impegno politico, diplomatico e finanziario per la soluzione positiva della vicenda. Addirittura, la signorina è tornata a casa su un jet Falcon dell’Aeronautica militare. Solo il volo sarà costato 50.000 euro… Dico sommessamente: non poteva tornare a casa su un volo di linea?

Spese (nome) quasi come quelle… spese (participio passato) per soccorrere gli sprovveduti che sono caduti con il loro bimbo nel lago ghiacciato l’inverno scorso, calzando delle infradito o giù di lì, o come in altre decine di casi analoghi di persone che vanno in alta montagna con le scarpe da ginnastica e poi restano “incrodati” nottetempo su un sentiero qualsiasi.

La Francia è incazzata con noi per la Ocean Viking posteggiata a Tolone con 230 migranti, mentre a Lampedusa, con il mare calmo, ne arrivano oltre 500 al giorno, la Germania un po’ meno, la Spagna traccheggia, tutti un pochino gelosi&invidiosi di un’Italia, che “ha troppo”: storia, arte, paesaggio, industria, sport, capacità lavorative, troppo, troppissimo. D’accordo che Germania e Francia ospitano più migranti, ma l’Italia li accoglie, li lava, li nutre, li cura, li fa dormire all’asciutto, mai considerandoli “residui”, ministro Piantedosi! Aaah, il linguaggio!

In ogni caso, i portavoce dei ministri di Macron la smettano di inveire contro l’Italia e si tengano i loro problemi interni senza scaricarli su noi. Capiamo bene che Monsieur le President ha problemi sia a destra (Le Pen), che lo rimprovera di lassismo verso i migranti, e a sinistra (Melenchon), che lo cazzia per humanitas insufficiente, ma, mehercules, la smettano, comunque!

Qua da noi Meloni sta sperimentando quanto difficile sia l’arte del governo, il dottore Piantedosi quanto debba studiare per evitare il linguaggio burocratico borbonico cui è stato un po’ abituato da anni di funzionariato, e di Conte mi sono stancato di dire cose poco lusinghiere.

Sbarra Luigi è il segretario generale della Cisl: come la maggior parte dei “parlanti in tv” è talmente scontato nei suoi detti, e noioso, che lo “adopero” per l’addormentamento serale, a volte al posto del sempre più vieto Crozza.

Osservo le triste manovre in vista del congresso del PD: vecchi vizi immarcescibili, correnti che si affannano a presentare le “correnti” interne come centri di riflessione, ma sono sempre loci di distribuzione di posti di potere e di stipendi, candidature alla segreteria tra il risibile (De Micheli/ Provenzano / Nardella) e il presuntuoso (Schlein, e chi è? 37 anni, pontifica di economia e di società dicendo ovvietà e vecchiume, come quando attacca il Jobs Act, lei che non ha mai visto – ne son certo – un’azienda di produzione, e ha incontrato lavoratori e imprenditori in tutta la sua vita come io in un giorno solo), presentazione di libri di militanti imbolsiti… e qui mi fermo un momento: ne ho sentito parlare per Radio radicale, dove gli amici e compagni si sono fatti fare una lezione di filosofia e si sociologia politica da Lucia Annunziata (riflessioni interessanti, quando ha parlato di “PD territoriali”, però dette con il tono saccente e da superioriy complex che è proprio di questa giornalista), mentre D’Alema si è faticosamente arrabattato sulle “radici della storia della sinistra”, da Marx-Gramsci, e recuperando perfino (!!!) il vituperato Bettino, cioè Benedetto Craxi, morto in esilio. La tristezza continua a sinistra.

Potrei continuare con una pletora, o di disutili, o di noiosi, o di incompetenti, o di mestieranti.

Mi auguro che il competente Tajani riesca a farsi ascoltare in Europa con la sua proposta di intervenire in Africa, alla base del problema, e che il tonitruante Salvini lo lasci lavorare.

Si permetta di lavorare ai competenti, anche se noi Italiani siamo quelli che spesso li lasciano a casa, come abbiamo fatto, con Marco Minniti qualche anno fa, e con Mario Draghi un mese fa.

E che bravi siamo! …e così imperversano le…

mediocritates spiritorum animarumque.

…surfando sull’orlo del caos, logica fuzzy, frattali e auto-similarità, casualità e causalità, nella natura e nell’uomo stesso

Le immense onde oceaniche che si abbattono sulle coste frastagliate dell’Algarve (toponimo derivante dall’arabo Al Garbh), sembrano travolgere il coraggioso surfista, ma quegli emerge miracolosamente da sotto la ripiegatura dell’onda che lo rincorre. E lui continua surfando… sull’orlo del caos.

Locandina del film “Un mercoledì da leoni”

Queste onde richiamano concetti matematici come i frattali da un lato, e filosofici come la complessità dall’altro, i cui assiomi primari sono stati approfonditi in questi anni da studiosi di fama come il russo Ilya Prigogyne e l’italiano Alberto F. De Toni, caro e valoroso amico, cui ho “rubato” la prima parte del titolo dal suo account di whattsapp.

Un concetto che si può riferire ai due sintagmi citati è autosimilarità, che in filosofia significa una sorta di analogia di partecipazione della parte (dell’ente) al tutto e viceversa. La sintesi espressiva di questo “tutto” può essere Unità nella Distinzione nella Relazione, che poi è lo slogan del mio blog.

Ecco dunque alcuni punti di tangenza tra filosofia, fisica, matematica e geometrie non euclidee.

Che cosa è un frattale: “un oggetto geometrico dotato di omotetia (in matematica e in particolare in geometria una omotetia composto dai termini greci omos, “simile” e dal verbo tìthemi, “pongo”) interna, cioè di una capacità di ripetersi nella sua forma allo stesso modo su scale diverse, e dunque ingrandendo una qualunque sua parte si ottiene una figura simile all’originale” (dal web).

Si dà dunque anche una geometria frattale, non euclidea che studia queste strutture, ricorrenti ad esempio nella progettazione ingegneristica di reti, e nelle galassie. Ecco una formula logaritmica adeguata:

{\displaystyle {\frac {\log 4}{\log 3}}\approx 1{,}26186}

Anche in geometria, come in filosofia, si può definire questa caratteristica autosimilarità o autosomiglianza, mentre il termine “frattale” venne scelto nel 1975 da Benoit Mandelbrot nel volume Les Object Fractals: Forme, Hasard et Dimension.

Il termine deriva dal latino fractus (rotto, spezzato), così come il termine frazione, vale a dire parti di un intero. I frattali si utilizzano nello studio dei sistemi dinamici e nella definizione di curve o insiemi e nella dottrina del caos. Sono descritti con equazioni e algoritmi in modo ricorsivo. Ad esempio, l’equazione che descrive l’insieme di Mandelbrot è la seguente: a_{n+1}=a_{n}^{2}+P_{0}}

a_{{n+1}}=a_{n}^{2}+P_{0}
a_{n}
P_{0}

dove a_{n}} e P_{0}} sono numeri complessi.

La natura produce molti esempi di forme molto simili ai frattali, come ad esempio nell’albero: in un abete, ogni ramo è approssimativamente simile all’intero albero e ogni rametto è a sua volta simile al proprio ramo e così via; un altro esempio si trova nell’osservazione di una costa marina, dove si possono notare aspetti di auto-similarità nella forma che si ripete in baie e golfi sempre più piccoli e collocati in successione lungo la costa stessa.

Altre presenza di forme a frattali sono presenti in natura, come nel profilo geomorfologico delle montagne, delle nuvole, dei cristalli di ghiaccio, di foglie e fiori. Il Mandelbrot ritiene che le relazioni fra frattali e natura siano più profonde e numerose di quanto si creda. Ad esempio, con la stessa mente umana, intesa come organo del pensiero.

«Si ritiene che in qualche modo i frattali abbiano delle corrispondenze con la struttura della mente umana, è per questo che la gente li trova così familiari. Questa familiarità è ancora un mistero e più si approfondisce l’argomento più il mistero aumenta»

Un altro esempio di analisi delle cose si può ritrovare nella logica filosofica denominata fuzzy , che si inserisce a buon titolo in questo novero di ipotesi teoriche.

La logica fuzzy (o logica sfumata) è una teoria nella quale si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di verità diverso da 0 e 1 e compreso tra di loro. È una logica polivalente, peraltro già intuita da Renè Descartes, da Bertrand Russell, da Albert Einstein, da Werner Heinseberg e da altri meno conosciuti dai più.

In tema, con grado di verità o valore di appartenenza si intende quanto è vera una proprietà, che può essere, oltre che vera (= a valore 1) o falsa (= a valore 0) come nella logica classica, anche parzialmente vera e parzialmente falsa. Si tratta di una logica-in-relazione-ad-altro.

Si può ad esempio dire che:

  • un neonato è “giovane” di valore 1
  • un diciottenne è “giovane” di valore 0,8
  • un sessantacinquenne è “giovane” di valore 0,15

Formalmente, questo grado di appartenenza è determinato da un’opportuna funzione di appartenenza μF(x)= μ. La x rappresenta dei predicati da valutare e appartenenti a un insieme di predicati X. La μ rappresenta il grado di appartenenza del predicato all’insieme fuzzy considerato e consiste in un numero reale compreso tra 0 e 1. Alla luce di quanto affermato, considerato l’esempio precedente e un’opportuna funzione di appartenenza monotona decrescente quello che si ottiene è:

  • μF(neonato) = 1
  • μF(diciottenne) = 0,8
  • μF(sessantacinquenne) = 0,15

Aggiungiamo a questo novero di dottrine, anche la teorie del caos che troviamo in matematica, le quali possono mostrare anche una sorta di casualità (sul “caso” dirò dopo) empirica in variabili dinamiche, come nel frangente dell’oggetto matematico denominato asintoto (linea parabolica non-finita che si avvicina, senza mai toccarlo, a un segmento soprastante), mostrando come tra lo 0 e l’1 possano collocarsi infiniti (se pure relativamente) numeri o quote.

Ecco perché i paradossi di Zenone di Elea (VI secolo a. C.) possiedono una notevole perspicacia filosofica.

Comunemente il termine “caos” significa “stato di disordine“, ma nella sua dottrina può e deve essere definito con maggiore precisione, in quanto sistema dinamico, non statico, in questo seguente modo:

  • deve essere sensibile alle condizioni iniziali;
  • deve esibire la transitività topologica;
  • deve avere un insieme denso di orbite periodiche.

La transitività topologica è una caratteristica necessaria implicante un sistema evolventesi nel tempo, in modo che ogni sua data “regione”, che è un insieme aperto, si potrà sovrapporre con qualsiasi altra regione data. In sostanza, le traiettorie del sistema dinamico caotico transiteranno nell’intero spazio delle fasi man mano che il tempo evolverà (da qui “transitività topologica”: ogni regione dello spazio delle fasi di dominio del sistema dinamico verrà raggiunta da un’orbita prima o poi). Questo concetto matematico di “mescolamento” corrisponde all’intuizione comune fornita ad esempio dalla dinamica caotica della miscela di due fluidi colorati.

La transitività topologica è spesso omessa dalle presentazioni divulgative della teoria del caos, che definiscono il caos con la sola sensibilità alle condizioni iniziali. Tuttavia, la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali da sola non dà il caos. Per controesempio, consideriamo il semplice sistema dinamico prodotto da raddoppiare ripetutamente un valore iniziale. Questo sistema ha la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali ovunque, dal momento che qualsiasi coppia di punti vicini alla fine diventerà ampiamente separata. Tuttavia, questo esempio non ha la transitività topologica e quindi non è caotico. Infatti, ha un comportamento estremamente semplice: tutti i punti tranne 0 tenderanno a infinito positivo o negativo.

L’essere umano è la quintessenza della complessità, e il cervello la sua epitome-quintessenza, nel senso che ci hanno saputo spiegare in questi ultimi decenni i neuroscienziati. L’essere umano è l’esempio più formidabile della complessità vs. la complicazione.

Circa, infine, il caso, rinvio all’algoritmo più volte presentato in questo blog, laddove la differenza delle posizione dell’osservatore di un determinato fenomeno, rende il caso necessità. Mi riferisco alla topografia dell’incrocio stradale verso il quale si avviano due auto che viaggiano su strade perpendicolari, una delle quali ha la precedenza e l’altra no: chi può osservare dall’alto i due vettori CAUSALI incrociantisi, può affermare con sicurezza fattuale che, in determinate condizioni, esse (le due automobili) si scontreranno, al di fuori di ogni casualità, ma per perfetta causalità

Ripeto qui una facile espressione: la metatesi di una “u” cambia la “lettura logica” del mondo, e fa diventare “ordinato” il “disordine”.

Di Berlusconi, un uomo pericoloso e fuori controllo, e di altri che pensano di poter riscrivere, anche se solo in una piccola parte, la storia d’Italia del ‘900 (come Bersani)

Berlusconi è pericoloso nella misura proporzionale al suo potere, che è ancora immenso, in Italia, con la sua visibilità mediatica e i suoi media di proprietà, televisioni e giornali.

Se le sue aziende sono dirette e gestite da persone responsabili e capaci, come i suoi figli e il dott. Fedele Confalonieri, il suo agire politico non conosce soggetti in grado di orientare il suo dire in modi che non siano pregiudizievoli di interessi più vasti e collettivi.

Di contro, le persone del suo partito-azienda, i deputati, i senatori et alia similia, gli sono devoti come chierichetti, perché da quel partito-azienda monocratico hanno avuto pressoché tutto, nella loro vita, mentre i dipendenti, almeno, sono tutelati dallo Statuto dei diritti del lavoratori, Legge 300 del 20 Maggio del 1970. Compreso il marito di Giorgia Meloni, che Berlusconi ha voluto citare come suo dipendente, con gesto volgare e villanissimo, con rispetto parlando del volgo e dei villani.

Oltre alla citazione del compagno di Meloni, annoveriamo tra le perle più volgari del cav gli epiteti che si è fatto leggere sul suo scranno indirizzati a Meloni, che qui non riporto, attribuendo poi la responsabilità dei quali a parole dette e ascoltate qua e là per l’emiciclo. Lui, a suo dire, si sarebbe limitato a scrivere ciò che sentiva dire. Gli crediamo? No.

L’ultima, per ora, centellinata, perché l’uomo ama sorprendere, è questa: beccato (ma no, dai!) da un registratore furbetto, Berlusconi afferma, tra la miserabile claque dei suoi, che Zelenski ha provocato più morti e che Putin ha dovuto avviare l’operazione militare speciale “per mettere a Kiev un governo di persone perbene e di buon senso” (parole sue). Berlusconi ha la stoffa del tiranno, come ha ben scritto anni fa l’Economist, che però qualche giorno fa è caduto nello spirito anti italiano che percorre il mondo britannico almeno dai tempi di Churchill.

Ricordo all’Economist che titola Britaly, per paragonare l’attuale condizione delle due Nazioni, che Truss è durata 44 giorni e che, ad esempio, l’Italia è al 7o posto nel mondo per le esportazioni e la Gran Bretagna al 14o. Stiano buoni gli Inglesi e i loro giornali, ché l’impero mondiale è morto e sepolto. Lo sa perfino Charles the Third.

Non mi sorprende più nulla di quell’uomo, che si vanta di essere tra i cinque migliori amici di Putin, come un adolescente, solo che è un uomo ancora potente e mediatizzato che amoreggia con un pericoloso tiranno sociopatico. Nel silenzio assordante di Salvini, che la pensa come Berlusconi, come l’attuale ambasciatore russo a Roma Sergey Razov, e come Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov. In che mani.

Meloni fa bene, a questo punto a puntualizzare che se non vi saranno candidati ministri limpidamente allineati con le politiche occidentali dell’Italia, il governo potrebbe non nascere. Ben detto. Ripeto: non avrei mai pensato di apprezzare Meloni, e fino a questo punto.

Giro lo sguardo. La cancel culture colpisce ancora. Caro lettore scolta l’ultima: siccome in un corridoio del ministero dello sviluppo economico sono appese al muro le fotografie di tutti i ministri succedutisi nel tempo, dalla proclamazione del regno d’Italia del 1861, fino a Giancarlo Giorgetti, che è stato l’ultimo della serie con il governo Draghi, è evidente che in lista vi sono anche i ministri succedutisi nel ruolo ministeriale durante il famigerato Ventennio, magari sotto altre dizioni, come quella di “Ministero delle Corporazioni”.

Ebbene, nel 1934, mi pare, s.e. il Capo del Governo Benito Mussolini assunse quella carica ad interim, e dunque si provvide ad appendere anche una sua foto, in borghese, giacca e cravatta da grand commis dello Stato. Per di lì è passato anche lui e non si può riavvolgere il nastro della Storia per far finta che così non sia avvenuto.

Well, Bersani, che per molti aspetti è un uomo simpatico, emiliano verace e anche provvisto di una certa verve umoristica (“non sono qui a pettinare le bambole”, “c’è una mucca nel corridoio”, etc. alcune sue memorabilia), oltre che di rispettabili capacità politiche, ha fatto sapere che “se non provvedono a rimuovere il ritratto di Mussolini, desidero che sia tolta la mia foto“.

Ma sei fuori, Bersani? Vuoi imitare la Boldrini che voleva togliere tutte le memorie legate ai Caduti italiani di tutte le guerre? L’intelligentona funzionaria Onu. Forse che i soldati italiani amavano andare a farsi fucilare sui campi di battaglia di tutto il mondo? Forse che non meritano tutti di essere ricordati sotto il profilo di una memoria storica e morale nazionale? Che colpa avevano gli alpini della Tridentina se il cavalier Benito li ha mandati con le scarpe di cartone a morire assiderati nelle pianure ucraine sotto i colpi delle katiusce? Andiamo!

Forse è il caso, finalmente, di togliere le dedicazioni di vie e piazze a personaggi come il gen. Cadorna, Luigi, intendo, non suo figlio Raffaele, sperando che in giro per l’Italia non vi siano vie e piazze dedicate a Pietro Badoglio o a Rodolfo Graziani… Questo da un lato.

Volgiamoci all’altro versante, quello della sinistra. Ma che sinistra è, questa? Vogliamo compararla ricordando la sinistra dei fratelli Rosselli, di Emilio Lussu che combatté sull’Altipiano, di Sandro Pertini, e l’antifascismo di don Giovanni Minzoni, dell’onorevole liberale Giovanni Amendola, di Piero Gobetti, di Antonio Gramsci, di Umberto Terracini, di Filippo Turati, di Pietro Nenni? Per tacere di tant’altri altrettanto nobili combattenti per la libertà?

E sulla pace che cosa fa la sinistra? Dopo due penosi sit-in ecco che vanno in piazza, grillini et varia animalia su una “piattaforma generica”, forse buona per il moralismo (generico) del papa, ma non per partiti politici seri che sanno distinguere tra aggrediti e aggressori, declinando un’Etica corretta sul diritto alla legittima difesa, sul quale concetto, ripeto con dispiacere, anche Francesco è deficitario. Bisognerebbe rileggere Agostino e Tommaso d’Aquino. Rimpiango Benedetto XVI.

La desolazione, la delusione, lo sconforto e perfino lo schifo di certe prese di posizione non mi tolgono certo da quel campo, che per me è una scelta di vita, ma mi dicono che il declivio sul quale si è incamminata da tempo, colloca la sinistra politica in una situazione che le rende ai miei occhi quasi irriconoscibile.

Come su ogni cosa e in ogni caso, si pone l’antica domanda leniniana: “che fare?” Molte cose, ma soprattutto mostrare con l’esempio del dialogo aperto con gli altri che la distinzione politica, oggi, non è tanto e solo fra destra e sinistra come appartenenza partitica, ma fra persone che scelgono di affrontare ogni tema e problema acquisendo le conoscenze necessarie e quindi curano la cultura e la conoscenza, e persone che ritengono tutto facile, tutto semplificabile e perfino banalizzabile, a partire dalle espressioni linguistiche.

Curare il linguaggio “cum cura” (la tautologia è voluta), dire ciò-che-è-necessario-dire con chiarezza, senza fumosità e con onestà intellettuale, parlare solo di ciò che si conosce, ascoltare con attenzione chi parla, e verificare se si mantiene “sul suo”, segnalando le “uscite da seminato”, cioè dal tema di cui deve essere esperto, con ferma educazione, concludere i dialoghi e le riunioni con equilibrio ed evitando fraintendimenti e possibili svarioni logici e operativi. Su questo tema la responsabilità dei giornalisti è enorme, e spesso si nota come tra loro vi siano persone che non hanno cura di come lavorano, di come parlano, di come scrivono.

In politica: occorre fare il contrario del comportamento di un Berlusconi, ma anche di un Conte-che-la-conta a modo suo, ora parlando di successo elettorale del “suo” partito, falsità smentita dai dati reali, o di un Salvini che si aggrega al carro vincente di Fratelli d’Italia facendo finta di aver vinto. Qui mi stupisco della mancate presa di posizione dei suoi “maggiori”, che pure avrebbero i mezzi per differenziarsi e metterlo in riga, riducendone il potere.

Circa il PD c’è solo da augurarsi che faccia un congresso vero, con il quale un gruppo di persone giovani e disinteressate (e anche meno giovani tipo un Misiani o un Delrio) riescano a pensionare i Franceschini, i Boccia, i Guerini, i Provenzano, un giovane mediocre già vecchio, che ha fatto un voto, quello di non commentare i twitt di Calenda (ridicolo!), i… Letta, e le mediocri donne di cui si è circondato quest’ultimo.

Donne Persiane

Charles Louis de Secondat, Barone de La Brède et de Montesquieu mi viene in mente per assonanza del titolo di questo pezzo con il suo

Lettere Persiane, Lettres persanes), pubblicata anonima nel 1721 ad Amsterdam. Lo scambio epistolare fra due persiani che viaggiano in Europa, Usbeck e Rica, offre a Montesquieu l’espediente per pubblicare, in forma di lettere, brillanti saggi nei quali la società e le istituzioni (francesi innanzi tutto), sono descritte secondo moduli relativisti, adottando il punto di vista di esponenti di una cultura diversa da quella europea. Con satira sferzante, vi si traccia un quadro disincantato dell’assolutismo francese, della crisi finanziaria conseguente alla politica economica attuata da Luigi XIV, della crisi dei parlamenti e della società civile nel suo complesso. La critica dei costumi si estende anche alla polemica religiosa in cui si vede un segno di instabilità e decadenza che alimenta dispute e divisioni più che la fede. Veicolo potente dei temi relativisti e della critica alle istituzioni politiche e religiose durante tutta l’età illuminista, le L. p. rappresentano un testo in cui secondo l’auspicio iniziale dell’autore «il carattere e l’intenzione sono così scoperti» da non ingannare «se non chi vorrà ingannarsi da sé» (dalla Prefazione sul web).


Charles Louis de Secondat, Barone de La Brède et de Montesquieu

La Persia evoca territori sconfinati, leggende e meravigliose città. Il nome “Persia” evoca uno dei più grandi imperi dell’antichità, ci ricorda il Re dei re Ciro il Grande, che liberò gli Ebrei dalla cattività babilonese nel 525 ca a. C., e i successori di Ciro, Dario, Serse, che combatterono le pòleis greche e furono sconfitti.

“Persia” evoca Alessandro il Macedone che la conquistò, con le battaglie di Isso e di Gaugamela, arrivando con i suoi soldati fino alle porte dell’India a contemplare le acque turbinose del fiume Indo, che scendono dall’Himalaia.

“Persia” evoca ancora altre dinastie come i Sasanidi che lottarono con i basilèi bizantini, prima di essere travolti da popolazioni turcomanne e mongoliche.

“Persia” evoca una delle due grandi dottrine dell’Islam, quella sciita, che si ritiene la più vicina alle origini, tramite una parentela diretta con Mohamed, l’uomo della Profezia.

“Persia” ora evoca la rivoluzione delle donne, dopo quaranta tre anni di teocrazia.

Nei decenni passati non sono mancati i tentativi di liberazione del popolo iraniano, caratterizzato però dal solo impegno delle donne. Ora pare che le cose siano cambiate. L’occasione è stata la morte di Masha Amini, accusata dalla “polizia morale” di indossare il velo islamico in modo scorretto. E uccisa.

Due parole sul velo che, nella versione più “moderata” ricorda le nostre donne dei secoli passati, ma anche fino al Concilio Vaticano II. E anche le meravigliose Madonne di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini, che illustrano un fascino femmineo di grande spiritualità. Una meraviglia estetica e d’armonia coloristica.

Abbiamo l’hijab, un foulard normale che copre i capelli e il collo della donna, lasciando scoperto il viso. Nel Corano il termine è utilizzato in maniera generica, ma oggi è diffuso per indicare la copertura minima prevista dalla shari’a per la donna musulmana. Questa normativa prevede non solo che la donna veli il proprio capo (nascondendo fronte, orecchie, nuca e capelli), ma anche che indossi un vestito lungo e largo, in modo da celare le forme del corpo, che si chiama khimar, diversamente lungo e modellato.

Un altro nome di questa lunga veste è jibab, oppure abaya.

Nel Vicino Oriente e in Egitto sono diffusi i seguenti tipi di veli: abbiamo il niqab, che copre il volto della donna e che può (nella maggior parte dei casi) lasciare scoperti gli occhi. Il niqab può essere diffuso in due forme più specifiche: quella saudita e quello yemenita. Il primo è un copricapo composto da uno, due o tre veli, con una fascia che, passando dalla fronte, viene legata dietro la nuca. Il secondo è composto da due pezzi: un fazzoletto triangolare a coprire la fronte (come una bandana) e un altro rettangolare che copre il viso da sotto gli occhi a sotto il mento.

Se vogliamo specificare ulteriormente… l’abaya (sopracitato), diffuso nel Golfo Persico è un abito lungo dalla testa ai piedi, leggero ma coprente, lascia completamente scoperta la testa, ma normalmente viene indossato sotto ad un niqab.

Ed eccoci ai veli diffusi in Iran: abbiamo il chador, che è generalmente nero, ma può essere anche colorato (ricordo un chador che mi fece vedere la assai da me, e non solo, rimpianta, signora Cecilia Danieli, che andò spesso in Iran per ragioni commerciali dell’Azienda) e indica sia un velo sulla testa, sia un mantello su tutto il corpo.

Possiamo completare la carrellata con i veli diffusi in Afghanistan: quivi troviamo il burqa, che è perlopiù azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, e copre interamente il corpo della donna. Tecnicamente, assolve le funzioni del niqab e del khimar.

Tradizione, cultura, religione, politica: tradizione e cultura in senso storico-antropologico; religione in senso teologico normativo; socio-politico nel senso, inaccettabile, di costrizione.

Ho distinto i tre/ quattro sensi per individuare le ragioni della ribellione che sta prendendo sempre più piede nella grande Nazione persiana. Sembra proprio che l’occasione della morte di Masha sia per ora capace di suscitare proteste più vibranti e generali di quelle precedenti. Ho già scritto qualche giorno fa che non si tratta più solo di sporadiche manifestazioni di piazza limitate alla capitale Teheran e a qualche altra grande città come Isfahan, ma di manifestazioni diffuse in tutto il territorio nazionale, fino ai lontani monti Zagros che confinano con l’Afganistan e le repubbliche ex sovietiche d’Asia.

Si tratta di manifestazioni non-armate, perché le persone tengono in mano solo i veli che simboleggiano l’oppressione politico-normativa che è diventata insopportabile. Si coglie un sentimento diffuso di ricerca della libertà intesa come rispetto dei diritti delle persone, e si sente anche la fiducia che le varie polizie degli ayatollah non potranno uccidere o arrestare tutti e tutte.

Le carceri scoppiano di prigionieri politici e anche di donne, vi sono morti e feriti. Un accenno anche alla signorina Alessia Piperno, colà tenuta in prigione. A lei, come a qualsiasi altro giovane generoso, che pensa di potersi immergere nei luoghi più pericolosi del mondo senza riflettere più di tanto sui rischi, magari anche sostenuti dai genitori, porgo un invito a riflettere sulla congruità e sulla razionalità morale di scelte come la sua, che nulla apportano alla causa delle donne nel mondo, se non una testimonianza inutile e costosa per l’erario italiano.

Quella iraniana è una rivoluzione, non una jacquerie ribellistica à là Ciompi o Vespri siciliani. E’ una “cosa” pericolosa, che pare progressivamente assomigliare alla Francia del 1789. Spero di non sbagliare. Si tratta di seguirne le vicende in modo non inerte, come cittadini e Paesi democratici.

Work-Life Balance, alla ricerca di un equilibrio tra vita e lavoro

Sempre più si nota l’espandersi del fenomeno delle dimissioni, soprattutto di giovani, dai più vari “posti di lavoro” dei settori privati, fenomeno di tali dimensioni da meritare una prima riflessione, non solo di carattere socio-statistico, ma anche filosofico-esistenziale.

Se per decenni, anche osservando solo l’Italia, e forse da oltre mezzo secolo, si potrebbe dire dal boom economico dei primi anni ’60, l’acquisizione di un “posto di lavoro” (si notino le virgolette il cui significato spiegherò più avanti), è stata il primissimo risultato in positivo della vita di una singola persona, prevalendo su ogni altra scelta e considerazione, da qualche anno si nota una certa inversione di tendenza: il “posto di lavoro” non è più ciò che fa premio su tutto, ma comincia a fare i conti con il tema della “qualità della vita”, e dell’equilibrio tra vita e lavoro.

Si pone dunque con sempre maggiore evidenza il tema di un equilibrio diverso tra tempi di vita e tempi di lavoro. Dico subito che personalmente non mi tange, e quindi lo tratto osservandolo da una posizione essenzialmente “esterna” e forse definibile come “fortunata”.

Come mai questo, può chiedersi uno? Il fatto è che il mio lavoro, anzi i “miei lavori”, perché sono plurali, mi piacciono e dunque non mi pesano. “Fortunato sei”, potrebbe osservare lo stesso commentatore. “No”, risponderei io, “non fortunato, ma capace di costruire una vita di lavoro che sia anche una vita di… vita“.

Che significa? Che se riesci a mettere vicino studio, interessi, passione, competenze, allora arrivano incarichi e lavori che non “disturbano”, anzi sono gradevoli, tali da non indurti a cercare di evitarli, bensì all’incontrario, di ambirli, di acquisirli, di possederli. Mi spiego: quando, già in pensione, ho acquisito e mantenuto una situazione lavorativa costituita da numerose presidenze di Organismi di vigilanza dei Codici etici aziendali, da docenze accademiche semestrali, da progetti di libri da pubblicare, da attività di guida di associazioni culturali nazionali, sapendo che nessuno ti regala nulla, e che tutto è frutto di studio, lavoro e passione, ebbene, non si dà problema di work life balance, perché un equilibrio esiste già! Per me.

Tornando a un’analisi più generale, il work life balance, ovvero il buon equilibrio tra vita privata e lavoro, si conferma uno dei fattori maggiormente ricercati dai lavoratori italiani nella scelta di un’azienda. È quanto emerge dai risultati del Randstad Employer Brand Research 2022.

Questo aspetto è, infatti, ritenuto importante dal 65% del campione coinvolto dall’indagine – 6590 intervistati tra la popolazione attiva del nostro Paese – ed è in vetta alla classifica degli elementi più ricercati in un’azienda insieme ad un clima aziendale gradevole.

Con il termine work life balance, si intende letteralmente l’equilibrio tra la vita privata e il lavoro. Si tratta, dunque, della capacità di far convivere in maniera pacifica la sfera professionale e quella privata.

Si vede che, se è necessario studiare questo equilibrio, perché la maggior parte dei “lavori” e dei “posti di lavoro” non è gradevole, anzi spesso è fastidioso e annoiante.

Non è un concetto nuovo, perché si è iniziato a parlarne ancora una quarantina di anni fa, si può dire dalla rivoluzione tecnologica informatica e telematica. Paradossalmente, la messa in campo di macchine sempre più capaci di sostituire l’uomo riducendo la fatica del lavoro, soprattutto con lo sviluppo delle due tecniche sopra citate, applicate anche alla produzione di beni e servizi, ha mescolato sempre di più la sfera privata e quella lavorativa, perché il lavoratore non è più riuscito a “staccare” con chiarezza le due dimensioni, essendo reperibile, raggiungibile, “impegnabile” anche al di fuori dell’orario di lavoro.

Per il 65% dei lavoratori italiani intervistati in occasione della citata indagine, il work life balance è, insieme al clima piacevole sul posto di lavoro, l’aspetto prioritario nella scelta di un’azienda da parte di un lavoratore che, però, se lo possa permettere. Non è detto, infatti, che tali condizioni siano vincolanti per la maggioranza dei lavoratori e di chi è in cerca di lavoro.

L’indagine di cui sopra ha anche evidenziato un significativo gap tra le aspettative dei dipendenti e quella che, secondo loro, è la realtà dei fatti per quanto riguarda il datore di lavoro ideale. L’esito principale della ricerca mostra come le aziende, innanzitutto, non sappiano comunicare bene la qualità della vita lavorativa che si può sperare di avere lavorando all’interno. Sempre la medesima ricerca elenca gli item che i lavoratori ricercano per accettare un lavoro:

  • solidità finanziaria
  • ottima reputazione aziendale
  • sicurezza del posto di lavoro

Per quanto attiene al work life balance, la ricerca ha evidenziato, inoltre, una differenza di genere. L’equilibrio vita/lavoro, infatti, è un aspetto prioritario soprattutto per le donne, insieme all’atmosfera piacevole sul posto di lavoro, la retribuzione e i benefit.

Ovviamente emergono anche differenze connesse ai diversi livelli culturali, cioè di scolarità acquisita ed esperienziali e professionali. Il work life balance è un’esigenza primaria per chi non ha un alto livello di istruzione, proprio per quasi “pareggiare” la noiosità e ripetitività delle attività più standardizzate. Interessante è la presenza massiccia tra questi lavoratori degli ex cosiddetti baby boomers, cioè i nati nei primi anni ’60 del secolo scorso, persone che hanno tra 58 e 62 anni.

Un altro dato interessante, è quello che attesta come siano gli impiegati e i lavoratori stabili nella stessa azienda a ritenere importante un buon work life balance.

Un buon equilibrio tra vita privata e lavoro è certamente una questione di salute, sia fisica sia mentale. Studi scientifici molto attendibili hanno mostrato come i sovraccarichi di lavoro siano associati a un maggior rischio di incorrere in ictus e, in generale, in problemi cardiocircolatori.

Cito qui una ricerca pubblicata nel 2017 sull’European Heart Journal, che ha evidenziato come prolungati orari di lavoro sarebbero associati ad un più elevato rischio di fibrillazione atriale, la forma più comune di aritmia cardiaca.

A conclusioni molto simili è giunta anche un’altra indagine più recente pubblicata sull’European Journal of Preventive Cardiology, che avrebbe individuato una correlazione tra lo stress da lavoro e alcune patologie cardiache.

Occorre dunque dedicare del tempo ai propri interessi staccando dal lavoro, e ciò può essere fondamentale anche a livello psichico. Alcuni segnali, più di altri, sono indicativi del fatto che bisognerebbe calibrare meglio le abitudini quotidiane, ritagliandosi il giusto spazio al di fuori della sfera professionale:

  • sensazione di forte stress
  • mancanza di tempo per fare qualsiasi cosa
  • disturbi del sonno
  • irritabilità
  • difficoltà relazionali
  • difficoltà di concentrazione

Raggiungere tale equilibrio, al fine di prevenire gli stati e le condizioni sopra elencate, non è facilissimo. Occorre intraprendere azioni da ambo le parti, del singolo lavoratore, e dell’azienda.

Dalla parte dell’azienda, secondo le ricerche citate, la flessibilità degli orari di lavoro è la condizione più gradita e la ragione si capisce in modo intuitivo. Seguono, nella scala del gradimento, dei benefit, come quelli già praticati nei piani di welfare, e anche dei piani di carriera attendibili, praticabili, realistici e scanditi nel tempo.

Dalla parte del dipendente è gradito uno sviluppo del lavoro on-line, in fasce di orario flessibile, e una riduzione dello straordinario.

E’ chiaro che tali condizioni sono impraticabili per tutte le attività di produzione industriale di serie, che richiedono un presidio costante di macchine e impianti. E’ anche difficile un lavoro “a distanza” per posizioni e ruoli di gestione di processi e del personale.

Tenendo conto di questi limiti, sia le aziende, sia i singoli lavoratori possono decidere misure di buon senso e di saggezza. Ad esempio,

a) avere e sviluppare buone relazioni sociali, sul lavoro e fuori del lavoro;

b) pianificare e razionalizzare gli schemi e i flussi operativi, cercando di “ottimizzare” attività simili, quasi “industrializzandole”;

c) non trasformare il tempo libero in stress: molto spesso il tempo libero rischia di trasformarsi in una corsa a tutte le attività che non si sono potute fare nel corso della settimana lavorativa, perché il tempo libero (e liberato) deve essere caratterizzato dal relax, non da ansie da prestazione dopolavoristica;

d) saper dire qualche no;

e) riuscire a convincersi che è possibile anche ogni tanto “disconnettersi” dall’ambiente psicologico e pratico del lavoro: ad e. non accettare farsi interrompere un pranzo o una conversazione in corso, soprattutto perché oggi i cellulari ci accompagnano ovunque, anche in bagno… Si può sempre rinviare con educazione.

Spiego, alla fine, come promesso, anche la differenza concettuale, politica e morale tra “lavoro” e “posto di lavoro”. Il secondo è la posizione giuridicamente normata di un lavoro, per cui è dovuto un salario, un’assicurazione e il versamento di tasse e contributi a cura del datore di lavoro in quanto sostituto d’imposta. Dico subito che nei settori privati il “posto di lavoro” coincide con il “lavoro”, perché non sarebbe sostenibile che vi fossero dei costi in assenza di prestazioni reali e quindi di ricavi. Nessun “padrone” ti regala nulla, né può regalarti nulla, pena la sussistenza stessa dell’azienda.

Nel pubblico impiego, invece, essendo diversa la stessa “natura giuridica” del lavoro, può anche darsi che il “lavoro” non coincida sempre e comunque con il “posto di lavoro”. Sembra strano, ma è così. Spiego: nel Pubblico impiego il controllo dell’efficienza e dell’efficacia delle prestazioni non si dà nello stesso modo che è necessitato e obbligatorio nel privato, per cui a volte vi possono essere casi nei quali il lavoro, o è più scarso, o non esiste proprio, come nel caso limite, scoperto dai Carabinieri accaduto nella sede nazionale romana dell’Inps, laddove vi erano più cartellini di controllo delle presenze al lavoro, di quante non fossero le scrivanie disponibili. Questo insospettì l’Arma, che scoprì come vi fossero “posti di lavoro” a costo del pubblico erario, senza che corrispondessero a lavoro effettivamente prestato.

Non fosse che per questo caso limite è bene distinguere fra i due concetti di “lavoro” e “posto di lavoro”.

Si può fare, dunque. Si può riuscire a connettere con intelligenza il lavoro e la vita, tendendo, se posso dire, a costruirsi una vita nella quale le due dimensioni non confliggano troppo.

Con l’aiuto del Signore io ci sono abbastanza riuscito, e abbastanza presto nel mio tempo di vita e di lavoro.

Venticinquenni belli e forti ciondolano da una panchina all’altra in centro a Udine, con il cellulare in una mano e una Red Bull nell’altra

Qualche giorno fa ero a Udine per andare dal dentista, il bravo dottore P., parcheggio e mi guardo in giro. Occhi attenti mi scrutavano. Anzi, distratti. Sulle prime mi erano parsi attenti, ma poi, guardando meglio, mi sono accorto che osservavano oltre me, dietro a me, guardavano un po’ la mia auto che, anche se vecchia, è ancora attrattiva, perché è una berlinetta sportiva molto feroce, perché veloce, e un po’ guardavano amici e conoscenti loro che stavano arrivando.

sfaccendati italiani

Erano le cinque scarse del pomeriggio, un’ora in cui, dalle nostre parti, solitamente si è ancora a lavorare. Nessuno di quei venticinquenni robusti e anche belli in qualche caso, stavano in piazza a far nulla. Vivevano, e basta. Mi correggo: non è fare nulla, il vivere. Forse basta… il vivere.

Perché qualcosa si fa, sempre. Mi sono chiesto che scopo immediato, a breve, avessero quei ragazzi, che cosa si aspettassero dalla vita, qui e ora. Extracomunitari nordafricani, asiatici e qualche balcanico.

Mi sono chiesto dove fossero alloggiati, anche se più o meno lo so, e se hanno i cinque euro per la ricarica dello smarthphone (perché hanno tutti uno smarthphone, magari un Oppo da duecento euro, che funziona come un Samsung o un Iphone). E i tre euro per la Red Bull. Un rinforzo per vivere senza far nulla.

Questi giovani uomini arrotolano un giorno dietro l’altro così, in questo modo? Alzarsi svogliatamente, un po’ di toilette e poi immediatamente in rete. In giro per la città fino a ora di pranzo, che viene erogato regolarmente dove vivono tra le dodici e le tredici. Un po’ di pennica e poi di nuovo fuori, in giro, fino a ora di cena. E poi di nuovo in giro fino a che non si cade dal sonno. Mi sono chiesto anche a che ora suoni la sveglia (del cellulare)… Per giorni, settimane, mesi.

Sento due guardie della Polizia municipale che commentano ciò che vedo anch’io, ma, al contrario di quello che lo stereotipo potrebbe suggerire sul pensiero medio di due poliziotti, stavano dicendo cose come “quanto spreco di energie… possibile che non possano lavorare...”

Oddio, non è che il lavoro inteso all’occidentale, almeno dai tempi dei monasteri benedettini, cioè da un millennio e mezzo, sia leibnizianamente il “migliore dei mondi possibili”. Ma neanche il peggiore, mi pare, visti i risultati della nostra civiltà, checché ne scrivano i cancel culture e altri imbecilli dal dito inutilmente frenetico.

Ho cercato la declaratoria di sfaccendato sulla Treccani, eccola:

agg. [der. di faccenda, col pref. s- (nel sign. 2)]. – 1. Di persona, che non ha nulla di serio o d’importante o di immediato da fare: essere s.in questi giorni sono s. e lavoro un po’ in giardino; estens.: in mezzo alle macerie, rari abitanti si aggiravano con aria s. (C. Levi). 2. Con connotazione spreg., che non ha voglia di far nulla, ozioso, fannullone: non posso soffrire la gente s.; con questo sign. è più frequente l’uso sostantivato: sei uno s.una s.al bar c’erano i soliti s., che giocavano a carte dalla mattina alla sera.

Poi, in italiano troviamo anche altri aggettivi e sintagmi più o meno sinonimi (e anche i contrari) come sfaticati, pigri, nullafacenti, nati stanchi, morti-di-sonno, e altri aggettivi di campo semantico viciniore.

Il primo pensiero che, ragionandovi su, mi è venuto è stato quella della noia. Possibile che quei ragazzi non si annoino, almeno un po’. Poi, ricorrendo a qualche conoscenza di antropologia culturale mi sono fatto presente i modi che hanno, di vivere, le persone dei vari “sud” del mondo, dal Meridione italico, a quello levantino, a quello ispanico… e poi africano, sudamericano e anche balcanico. E’ abbastanza probabile che quei ragazzi siano fortemente condizionati dal quei modi d’essere. Il sole, il caldo, ora l’anticiclone africano qui da noi…

E poi c’è altro: l’inclinazione “naturale” di ogni essere umano ad approfittare di situazioni comode, garantite, anche se fino a un certo punto. Si pensi alla diseducatività del reddito di cittadinanza, così com’è congegnato ora, che è tecnicamente incapace di connettere disponibilità soggettive al lavoro e offerte di lavoro.

Il grave è che è stato congegnato, con la connivenza di governi destro e sinistrorsi, da chi ora pretende di mantenerlo così come è, i Cinque Stelle, i quali hanno avuto lo strano e abnorme risultato elettorale del 4 marzo 2018, molto per aver promesso un reddito garantito a chi non ce l’ha, non chiarendo mai bene che doveva essere collegato necessariamente alla disponibilità di accettare un lavoro, senza mantenere il reddito perfino con tre rifiuti di occupazione. E qui mi fermo in questa sede sul tema, perché non serve approfondire ulteriori tecnicismi.

Mi sono chiesto anche, guardando quei ragazzi, e mi chiedo ora, che tipo di rispetto di sé abbiano. Ovvero, se abbiano la nozione di “rispetto di sé”, nel senso di avere una autonomia di reddito, per badare e bastare a sé stessi.

Mi sono chiesto se quei ragazzi siano in grado di pensare al dovere, oltre ai diritti che gli vengono ben spiegati specialmente da una certa parte della politica, la mia, che non spiega però bene oramai da tempo anche la necessità di coniugare i doveri ai diritti, come insegnava il troppo dimenticato Giuseppe Mazzini, favorendo lo sviluppo di una pericolosa “cultura della pretesa”, che viene da molto lontano (dal ’68?), ma che ultimamente ha assunto connotati di estrema pericolosità pedagogica e morale.

Il lavoro pare non essere un punto fondamentale dei loro interessi, ma (non so) se anche, assieme al disinteresse per il lavoro, altrettanto disinteresse costoro nutrano per ogni eventuale fine esistenziale, o almeno per qualche scopo od obiettivo parziale.

Certamente, le leggi nazionali e le norme locali, come sopra esemplificato con la citazione del reddito di cittadinanza, non aiutano molto.

Il che fare, per andare oltre lo spettacolo poco dignitoso che qui ho raccontato, ma anche alle lamentazioni di molti imprenditori “che non trovano lavoratori”, è indispensabile che il Governo, qualsiasi esso sarà dopo il 25 settembre, si ponga l’obiettivo di facilitare al massimo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, i sindacati ci stiano su questo progetto, e gli imprenditori (mi riferisco a una minoranza, ché i più sanno benissimo ciò che segue) non pensino di fare i furbi con retribuzioni indecenti, ma credano che retribuire correttamente un dipendente è la condizione senza la quale non si può far intravedere un fine razionalmente perseguibile a chi non è abituato ad averne.

L’abbaiare alla luna, l’abbaiare di alcuni giornali come il travagliesco Fatto, e l’abbaiare alla Russia (di tale Stoltenberg, nomen omen), per contrastare, sbagliando, l’aggressione del fanatico-autoilludentesi-csar (“di tutte le Russie”)

L’immagine dei latrati della Nato verso la Russia, evocata (e attuata da Jens Stoltenberg, che non mi rappresenta) da papa Francesco in questi giorni, è potente. E opportuna. Così come è stata opportuna la smentita al segretario generale della Nato da parte del cancelliere Scholz (Macron consenziente).

Per nulla opportuni sono, di contro, i titoli travaglieschi de Il Fatto Quotidiano, che trasudano un compiacimento eticamente incomprensibile, oltre che maligno, per i problemi del mondo, quasi che il male diffuso possa dare maggior respiro alla sua lettura giornalistica. Una vergogna quotidiana per quel giornalaccio, di cui cito l’ultima stupidaggine: “Draghi solo” in una immagine con Salvini, Conte, Macron e anche Letta distanti da lui: un arbitrio concettuale e controfattuale, perché se Conte e Salvini sono anti-draghisti per gelosia, Letta e Macron la pensano come Draghi e viceversa, anche se si esprimono con parole diverse, in ruoli diversi, ma con i medesimi obiettivi: a) aiuto all’Ucraina, b) ogni sforzo diplomatico per ottenere prima una tregua e poi la pace.

I racconti e le favole sugli animali tramandano l’abbaiare alla luna dei coyotes della prateria, ma anche figure poetiche come quelle leopardiane (Il tramonto della luna) alla fine della sua vita, o felliniane (La voce della luna), alla fine del suo lavoro.

La metafora di papa Francesco sull’abbaiare della Nato verso la Russia è una metafora efficace. Non si comprende se non tramite una lettura di politica interna l’alzata verbale di Biden contro Putin, di cui non c’è bisogno di dire ogni giorno le sue caratteristiche di violenza antidemocratica e guerrafondaia.

Ma anche i vertici attuali della Nato si stanno rivelando improvvidi e scarsi sotto il profilo comunicazionale. Già ebbi modo di dolorosamente scherzare sul nome “paolino” di Stoltenberg qualche settimana fa, scherzo teologico che qui confermo. Sembra che alcuni capi dell’Occidente siano proprio stolti.

Come sempre, il dovere dell’onestà intellettuale impone di non essere manichei, cioè di non assegnare la patente di malvagità a un solo soggetto, ma di riconoscerla in ogni soggetto, nella misura razionale di un’analisi seria e competente. Che il leader della federazione russa sia il generatore assolutamente principale del male attuale è fuori dubbio, ma che questo male sia alimentato – nel tempo – anche da altri, è altrettanto fuori dubbio.

Né, altrettanto, si deve mettere in dubbio, che gli ex Paesi del Patto di Varsavia che hanno aderito all’Unione europea e alla Nato, l’abbiano fatto in assoluta libertà ed esercizio democratico. Nessuno li ha obbligati a un tanto. Il fatto è, come sosteneva Enrico Berlinguer fin dal 1973, che Bulgari, Romeni, Cechi, Slovacchi, Ungheresi, (Lituani, Estoni, Lettoni non ancora formalmente) e Polacchi, vorrei dire anche Valacchi e Moldovi, si sentono più sicuri sotto l’ombrello della Nato, cari pagliarulo, e orsini vari (uso le minuscole in questi cognomi, perché sono diventati nomi di una specie umana).

Però una delle idiozie legate alla guerra è l’aver tagliato fuori per sanzioni anche gli atleti russi da tutte le manifestazioni internazionali. Non tagliare fuori gli sportivi russi potrebbe essere un piccolo contributo al dialogo, visto che questi ragazzi e ragazze non peggiorano di sicuro il clima fra i contendenti.

Si prenda ad esempio la collaborazione spaziale, che non è stata fermata all’improvviso, ma sta continuando pure se tra dubbi e difficoltà.

Sono indignato verso due esagerazioni: la prima è quella di chi pretende di interpretare il diritto del popolo ucraino, frapponendo difficoltà e inciampi a una possibile trattativa diplomatica; la seconda è quella di sostenere di fatto il criminoso tentativo del presidente della federazione russa di decidere del destino dell’Ucraina, e forse di altre nazioni.

I primi sono gli arroganti dell’Occidente del mainstream, che non sbaglia mai, e che può fare-qualsiasi-cosa, anche sulle ali dei cacciabombardieri; i secondi sono i re-interpretatori della storia, i falsificatori, i sostenitori del falso in tutta la sua evidenza (perché anche il falso è evidente quanto il vero, quando è certo): nostalgici del sovietismo e della sua doppiezza, autoritari di ogni genere e specie, antidemocratici incalliti, patriarca “di tutte le Russie” compreso. Privi di cultura antropologica e storica,

che, in modo significativo, manca – però – anche ai primi.

Mi chiedo quali studi, che formazione abbiano avuto Putin (lo so, legge e servizi segreti) e Biden (lo so, legge), ma anche i capi dell’Intelligence Usa e dei Servizi segreti russi. Sono però certo che non hanno alba dei fondamenti filosofici della filosofia greca e delle dottrine cristiane, solamente (queste ultime) orecchiate, il primo da un blando protestantesimo metodista, il secondo da un’ortodossia formalista e stantia. Niente filosofia, niente religione sana, democrazia prepotente e democratura autocratica.

Male, maggiore a oriente, ma a occidente non latita.

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