Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

Domenica 26 Febbraio 2023 sceglierò BONACCINI, per impedire un’altra deriva “a sinistra”. Caro Stefano, occorre una nuova “antropologia” per un rilancio della partecipazione nella politica!

Scegliere questo candidato a mio avviso significa dare al PD ancora qualche speranza di muovere qualcosa a sinistra di ragionevole, di razionale e di socialista democratico, magari anche (perché no?) di qualcosa che sia memore della parte migliore del Partito d’Azione.

Filippo Turati

Il mio amico Claudio, insegnante di filosofia e di storia, conoscitore finissimo delle vicende del mondo slavo e caucasico, dell’ex Unione Sovietica e della Rus storica, e mio antico compagno di liceo, la vede in questo modo, offrendomi una sintesi di ragioni a me completamente consentanee:

La Schlein, se dovesse vincere, trasformerebbe il PD in un’arca di nostalgici ideologici e di minoranze Lgbtq+: non approderebbe da nessuna parte. Il diluvio continuerebbe, potendo eventualmente incontrare altri relitti 5 Stelle , e imbarcarli per aumentare la confusione.

Oggigiorno gli aiuti all’Ucraina sono necessari e la Schlein mi sembra molto ambigua. Alcuni anni fa ho letto il libro di Huntigton sullo scontro di civiltà. Allora molti lo hanno deriso e criticato. La guerra in corso mi sembra invece rientrare nella categoria dello scontro di civiltà: o la democrazia o le dittature più o meno mascherate. In Italia molti non lo hanno capito e piagnucolano perché sono stanchi della guerra (standosene ben pasciuti e al caldo), e pensano che Zelensky sia colpevole di tutti i guai che ci affliggono. Costoro vanno alle marce della pace, ma non hanno visione politica, anzi, aggiungo, hanno un atteggiamento immorale, nonostante i buoni propositi.”

Con il massimo rispetto per chi partecipa alle marce per la pace, condivido sostanzialmente la posizione di Claudio, che ha una lunga esperienza di insegnamento e anche di militanza politica in aree “insospettabili” per chi volesse insinuare che è un filo-bellicista.

Ai nostri tempi giovanili lui molto più “a sinistra” di me, ci siamo trovati, da uomini maturi, sul versante socialista democratico cui io appartengo fin dall’uso di ragione, come figlio della classe operaia, che, come sanno bene coloro che conoscono la Storia, è sempre stata gradualista e moderata.

…e riflessiva, perché naturaliter consapevole che le cose cambiano solo a partire dall’autoconsapevolezza dei limiti antropologici dell’essere umano, e da una paziente ricerca di sempre nuovi equilibri di democrazia e di giustizia nella libertà.

Sento dire in tv che Bonaccini sta chiedendo a Schlein di essere sostenuto nel caso lei non vinca, ottenendone, pare, prima una risposta positiva, risposta però, in seguito, recisamente smentita. Infatti, mi chiedo prima di tutto per quale ragione una candidata che spera di vincere, dovrebbe dare ex ante la disponibilità a collaborare con il suo “fiero vincitor” avallando in questo modo, implicitamente, la propria sconfitta e, in secundis, come si possa attuare una convivenza politico-gestionale positiva per un partito finalmente riformista (come avrebbero voluto in tempi e modi diversi Bettino C. e Walter V.), se i due progetti paiono essere così differenti.

Del resto, sono dell’idea che ogni organizzazione umana, partiti compresi, per quanto possano oggi – sociologicamente – essere chiamati “organizzazione”, necessiti di una leadership chiara e condivisa, non perché io sia un laudator dell’idealtipo “uomo solo al comando”, ma perché il leader, con la sua tipica personalità, deve incarnare con chiarezza e senza ambiguità una linea politica visibile per tutti. Così funziona tra gli uomini di questo mondo, non solo in base alla letteratura filosofica e psicologica fin dai tempi di Aristotele e fino a Freud e a Max Weber e oltre, ma anche nelle prassi che conosco direttamente, come nelle imprese economiche e nelle strutture della cultura, per tacere del sistema militare e di quello ecclesiastico.

In ogni caso, chiunque dei due vinca, a mio parere, dovrà iniziare da una revisione radicale dell’antropologia vetero-marxista che ancora permea quelle zone politiche, pena una nuova impasse, che sarebbe forse definitiva. Per fare ciò, per la verità, non vedo (purtroppo) preparato/ a né l’uno né l’altra. Chiarisco subito che un cambiamento di indirizzo antropologico presuppone immediatamente una revisione dell’ideologia politica storica sottostante e corrente.

Che cosa intendo per “revisione antropologica”? In questa sede ne ho parlato spesso e ora la riprendo, poiché mai come su questi temi e di questi tempi repetita juvant.

Con questo sintagma filosofico intendo che bisogna rinunziare solennemente all’utopia dell’homo novus, così come si legge ancora qua e là in articoli e pamphlettini nostalgici, in questo caso soprattutto dalle parti di Schlein o di ex militanti delusi dall’andazzo impoverito di idee e di entusiasmi di questi tempi post-rivoluzionari.

La “sinistra nuova” dovrebbe (necessariamente), studiare (studiare molto, perché ogni tanto mi capita di leggere che lo studio approfondito, scientifico, anche accademico, di un argomento, non serve o non servirebbe a molto), approfondire, prendere in mano e far propria un’antropologia che si fondi su una sorta di Realismo aristotelico-tomista declinato con il personalismo Novecentesco di un Mounier e di un Marc Bloch (socialista cristiano), che utilizza, assieme alla visione classica, intuizioni ed afflati che appartengono, solo apparentemente in modo strano e sorprendente, anche alla ricerca della fisica teorica più recente, che sta superando ogni riduzionismo deterministico nei suoi ultimissimi studi sulla coscienza-come-atto-in-divenire, non come stato-in-luogo determinato e immutabile (Giacometti 2022). L’uomo, nella sua struttura, non è emendabile per una via meramente socio-politica. Rassegnamoci (rassegnatevi Bonaccini e Schlein). L’uomo può solo essere trattato per come è, ed è in due modi.

E anche questi due modi ho spiegato più volte in questa sede, così: a) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di un corpo, di una mente e di una sensibilità spirituale, che tutti gli umani accomuna in dignitas e, b) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di genetica, ambiente e educazione, tali da rendere ognuno un unicum, irripetibile, irriducibilmente. Le due strutture, cari Candidati, convivono! e vanno considerate assieme, non in contrasto, per cui l’emendazione, la resipiscenza, il pentimento, il cambiamento interpellano singolarmente la struttura b) su cui bisogna lavorare ad personam, con il dia-logo e lo studio dei principi etici, mediante il modello filosofico maieutico di Platone e dei maggiori saggi d’ogni tempo e luogo, che vanno studiati in modo approfondito e non solo orecchiato negli attivi di partito o di circolo, come si usa dire oggi.

Ancora una volta, dobbiamo ammettere che l’unica “rivoluzione” possibile è quella del cuore, che, se avviene, può mettere in moto anche il cambiamento sociale. Il primo nemico della sinistra, e di tutto il genere umano, non è primariamente la classe-che-sta-di-fronte-come-avversario-o-addirittura-nemico, non è la “Democrazia cristiana” odierna, né il “Sistema delle multinazionali” guidato dagli Usa, ma sono l’egoismo, l’invidia, la superbia, la vanagloria, l’egocentrismo, il narcisismo, cioè i vizi morali che possono caratterizzare qualsiasi anima umana, e non solo come nevrosi bio-psicologiche da Manuale Medico diagnostico psichiatrico. Vizi morali presenti ovunque, in ogni territorio, in ogni tempo luogo, nazione, ambiente, famiglia, gruppo organizzato e partito. Ovunque.

Un altro nemico che il nuovo gruppo dirigente deve sconfiggere, rendendosi prma di tutto conto della sua pericolosità, è la chiacchiera vana e le discussioni poco o punto documentate su temi decisivi come l’Etica, che il più delle volte si sente citare a sproposito. L’etica non è una serie di prescrizioni morali legate al qui e ora, ma è la scienza del discernimento nel giudizio valutativo sull’agire umano, condividendo la nozione di ciò che sia bene e di ciò che sia male, che non è mai banale (cara Hannah Arendt!).

Infine, se quanto vengo dicendo è plausibile e condivisibile, solamente da una nuova Antropologia filosofico-morale può discendere una proposta politica di sinistra, capace di coniugare armonicamente libertà e giustizia sociale, proposta che riesca a parlare a vecchi e giovani, a militanti storici e di mezza età, a possibili simpatizzanti e – soprattutto – a chi non va più a votare e non partecipa alla politica, perché vinto da un formidabile scetticismo esistenziale e morale.

Un ultimo consiglio non richiesto a chi diventerà Segretario: rinnovi tutto il gruppo dirigente, senza astio, ringraziando con simpatia, e nel contempo invitando chi ha vissuto una stagione dirigenziale ad essere disponibile a viverne un’altra senza incarichi particolari, e soprattutto senza potere.

“La Ragione e il Sapere parlano, il Torto e l’Ignoranza urlano”

Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.

È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.

La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?

Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.

C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.

Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.

Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.

Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?

Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).

Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.

Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.

Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.

A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.

Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.

Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.

Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.

“Attentato alla laicità dello Stato”: con meraviglia leggo che questa affermazione di alcuni esponenti politici è legata alla presenza di un’immagine della Sacra Famiglia, Gesù, Giuseppe e Maria, nelle corsie un un ospedale veneto

Il fatto citato nel titolo mi ha rammemorato un altro analogo, quando una ventina di anni fa l’assessore regionale alla sanità del Friuli Venezia Giulia (era Beltrame?), voleva togliere le dizioni di Santa Maria della Misericordia e di Santa Maria degli Angeli, rispettivamente ai due grandi ospedali civili di Udine e Pordenone, sostituendoli con la mera burocratica dizione di Azienda Sanitaria n. X e Azienda Sanitaria n. Y, più o meno per le medesime “ragioni” del caso registrato in Veneto in queste settimane di inizio 2023.

Ragioni motivate dalla supposta non-laicità di quelle dizioni.

Tra l’altro, quell’assessore era del PD, come alcuni dei ricorrenti veneti (aiutati dai “valorosi” 5S), partito, il PD, che ho già a volte votato e che forse, molto forse, voterò ancora (soprattutto se il nuovo segretario sarà Stefano Bonaccini e non la improbabile parvenù italo-germanica).

Il primo pensiero che mi ispirano queste iniziative è quello che attesta una madornale ignoranza culturale, storica e religiosa degli autori. Costoro non hanno idea di che cosa abbiano significato le raffigurazioni sacre nei vari tempi storici, fin dalle iconografie catacombali, se ci riferiamo anche solo alla tradizione cristiana.

Dai tempi degli xenodokeia dei primi secoli dopo Cristo, che erano ricoveri atti ad accogliere viandanti e poveri che si trovavano nottetempo per strada (xenodokeion significa, in greco, “casa, rifugio per lo straniero”), esposti alle intemperie e ai banditi, tutta la tradizione europea e cristiana ha visto svilupparsi un sistema che correlava le strutture religiose con il soccorso e l’aiuto alle persone, senza distinzioni di qualsiasi genere e specie.

I monasteri e le chiese, così come i castelli medievali (molto meno) erano luoghi di soccorso, dove le immagini sacre, che sono sempre state la “Bibbia del popolo” analfabeta, erano diffuse ovunque. Pensare a un’Italia e un’Europa senza chiese e senza campanili, a un’Italia e un’Europa senza musica sacra, a un’Italia e un’Europa senza la sua iconografia sacra sarebbe un’assurdità antistorica. Ebbene, questi politici veneti se ne rendono conto? Oggi i tempi sono cambiati, potrebbero dire, ma… ad esempio, sono al corrente di ciò che significa il concetto di laicità, in san Paolo e di ciò che si debba intendere con il termine làos, che significa popolo, in greco, e in san Paolo?

Conoscere bene questi termini, permette di discernere tra laicità e laicismo, laddove il primo termine è semplicemente la sostantivazione astratta del termine “popolo” (làos), mentre il secondo è il peggiorativo. La laicità è non solo legittima, nella distinzione tra dimensione del religioso e del civile, ma obbligatoria, doverosa, mentre il laicismo è una sorta di deformazione polemica e inutilmente militante.

Torniamo alla pittura di soggetti sacri o religiosi, come nel caso citato: se abbiamo paura della Sacra Famiglia in nome del politically correct, oltre ad essere una pura idiozia, non conosciamo nemmeno l’opinione di chi potrebbe essere (o non) disturbato da quelle immagini, come i musulmani.

Ebbene, proprio in Veneto, nel Trevigiano, alcune famiglie musulmane hanno mostrato di amare il presepe, quando una preside non voleva ammetterlo nell’istituto comprensivo da lei gestito, comunicando che la vicenda della nascita di Gesù apparteneva anche alla loro tradizione. Così come il sistema delle Caritas non si ferma a un’attività intra-cattolica, ma è rivolta al mondo, come prevede il katà òlon, che vuol dire secondo-il-tutto, la cattolicità nel senso etimologico più profondo e vero, che perfino Fidel Castro capì molto bene, perché Gesù di Nazaret e l’Evangelo di lui appartiene a tutti, ed è fonte di ogni dottrina umanitaria.

Nel Corano, Maria di Nazaret è la donna (tra tutte le donne) più citata, specialmente nella sura 4. La leggano i detrattori della Sacra Famiglia del PD e dei 5Stelle!

Forse potrebbero imparare qualcosa di utile per sé stessi, e anche per la loro attività politica.

Arrestato MMD! E adesso?

MMD è sotto chiave. E adesso? Chi gli ha consentito di stare trent’anni in latitanza, visto che, se si vuole vivere un po’, si deve essere visibili, in qualche modo, almeno per qualcuno, a meno che non si trascorra il tempo in una grotta in mezzo ai boschi o in un luogo remotissimo di caccia pesca e raccolta, come i primi sapiens?

Non mi è piaciuta Meloni che è schizzata a Palermo come una furia per congratularsi con il comandante dell’Arma. Avrebbe potuto farlo il giorno dopo con il Presidente Mattarella alla riunione del Supremo Consiglio per la sicurezza. Mal consigliata o ansia da prestazione da insicurezza? Lei ripete sempre che ha paura di deludere chi si è fidato di lei. Cara Presidente, nessuno le garantirà mai di non deludere qualcuno: operando si sbaglia, è una regola aurea, conosciuta, forse, anche dai citati sapiens primitivi.

Le domande dei giornalisti, cronisti e da studio, come al solito, in generale, fanno pena. Il colonnello comandante dei ROS, alla domanda inopportuna (e stupida) su quanti militari fossero impegnati nell’operazione, ha risposto con garbo e precisione, evitando con eleganza di dare numeri. Ma come si fa, benedetto Iddio, a fare una domanda del genere? Ecché, forse vi può essere una risposta? Me lo chiedo e mi confermo nell’idea e nel giudizio circa la povertà culturale e professionale di questa categoria, aumentata negli ultimi decenni. Altra domanda inopportuna quella fatta all’oncologo che ha in cura quell’uomo nel carcere de L’Aquila: “Si dice (chi lo dice? ndr) che è curato in un modo privilegiato rispetto ad altri detenuti con patologie…”. Risposta: “No, si applica il protocollo per questo tipo di malattie“.

Come si fa a dire, a scrivere, o anche solo a pensare, che la mafia Cosa Nostra sia finita con questo arresto? sarebbe quasi come dire che finisce il genere umano. La mafia, così come la n’drangheta, la camorra e ogni altra organizzazione criminale è una delle manifestazioni del male nell’uomo. perché il Male è nell’Uomo. Insito, incistato, connaturale. Materialisti come Peter Berger, e altri, potrebbero dire che il male fa parte della struttura biologica elettrochimica del cervello umano, sulle orme estreme di Spinoza. Se ciò fosse del tutto vero verrebbe annullata la plausibilità del Diritto penale fin dai tempi del Codice di Hammurabi e del Decalogo biblico di Esodo e Deuteronomio.

E dunque è impossibile sconfiggerla? Finirla? Certamente, con le sole forze di polizia e della magistratura, . Ne sono convinto. Non basta scoprire e reprimere i reati e i loro autori, perché i reati sono peccati morali che nascono nel cuore dell’uomo. Nella mente, nell’intelletto agente, direbbe Tommaso d’Aquino. Il diritto classico prevede, in un brocardo o latinismo giuridico il principio di innocenza (o di colpevolezza) oltre ogni ragionevole dubbio, con la dizione in dubio pro reo: nel dubbio, piuttosto di condannare un innocente, è preferibile non contenere in carcere un colpevole.

MMD, con ironia, pare abbia detto qualche ora dopo l’arresto: “Fino a stamattina ero un incensurato”, poiché, a differenza dei due stranominati (e stramaledetti) predecessori Riina e Provenzano, non era mai stato ristretto nelle patrie galere, pur avendo già subito l’irrogazione di numerose condanne all’ergastolo (ostativo per definizione e da art. 41 bis). L’uomo, che si è vantato di tanti omicidi a da riempire di morti un cimitero, un serial killer razionale e perfettamente in sé, è un uomo comune. Intelligente, forse (anzi senza “forse”) anche garbato, gentile con i suoi carcerieri, capace di stare al mondo, amante delle cose di valore, che si è potuto permettere con i suoi crimini. Questo pare essere MMD.

La mafia, come altre strutture criminali analoghe, vive dentro un dato contesto sociale e culturale. La mafia vive e prospera per scelte di persone concrete, di giri solidali, di famiglie di esseri umani. Si tratta di persone che ritengono di essere speciali dentro un ambiente dove alcuni possono permettersi di esserlo, a differenza della maggioranza degli altri esseri umani, che “non capiscono”, oppure “non meritano”, oppure… niente: l’importante è che non si oppongano, che ubbidiscano, che stiano da parte. Altrimenti… sono morti. Perché il mafioso si sente speciale, diverso, addirittura virtuoso di una sorta di virilità particolare.

Anche in questo caso funziona un meccanismo psicologico e spirituale siffatto: superbia, presunzione, vanagloria, prepotenza, protervia, crudeltà. Costoro non hanno alba di morale comune, o meglio hanno una morale fondata sulla convinzione che vi siano persone con i loro diritti e quasi non-persone, inferiori, che devono limitarsi a no-opporsi. Queste seconde possono essere eliminate senza grandi preoccupazioni, come ostacoli sulla strada dei veri uomini. Omuncoli, ominiccoli, omarelli. Personalmente conosco non poche persone che, se messe-in-situazione, si comporterebbero come i sodali dei mafiosi, come l’autista di MMD, nel senso che di fronte a una leadership carismatica sono per sempre proni. L’uomo è fatto anche così.

Per i mafiosi ciò che è vizio diventa virtù e ciò che è virtuoso è indegno della loro grandezza. Si ricordino gli occhi protervi di Riina durante il processo: le parole negavano ogni responsabilità, ma il suo sguardo uccideva. Il male è nell’uomo. Nell’uomo comune di quella cultura e, purtroppo, anche di altre.

Non conoscono NIetzsche, ma se lo conoscessero ne volgarizzerebbero il concetto di volontà di potenza, e di Schopenhauer l’esigenza di esaltare la volontà erga omnes.

Oggi magistrati, media ed esperti parlano di borghesia mafiosa, opportunamente, sulla linea di una tradizione assai lunga, storica. La mafia e la camorra sono nate nei secoli passati, e sono cambiate nel tempo, ma il sostrato culturale e sociale è rimasto quasi sempre quello che era. E anche il sostrato valoriale (si fa per dire), pure nelle modificazioni sociologiche e territoriali registrate.

Su quest’ultimo aspetto certamente negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, in positivo, soprattutto tra i giovani, mentre nelle generazioni più attempate resta ancora un velo di omertosi silenzi. Basti osservare come rispondono i castelvetranesi più in età, dopo la cattura di MMD.

La scuola deve inserire momenti, modi e moduli formativi, prima ancora che a una cittadinanza sensibile ai valori etici umanistici à la don Ciotti, che non sono in grado di smuovere la pavida rassegnazione dei più (finora, almeno), di carattere filosofico, che diano gli strumenti intellettuali e conoscitivi agli allievi/e per approfondire il tema dell’uomo, della convivenza, della giustizia sociale, dell’equità nella distribuzione del lavoro e delle risorse, dell’equilibrio tra diritti e doveri (sono nauseato nell’ascoltare, dal Meridione, sempre i soliti lai quando accadono disgrazie, un “siamo stati lasciati soli” oramai per me inascoltabile, e datevi una mossa, perdio! come i Friulani dopo le alluvioni e i terremoti!).

Nel contesto temporale di questo arresto esplodono le polemiche sulle intercettazioni telefoniche, su cui la voce e le parole equilibrate del Ministro Nordio vengono travisate e mal riportate.

La lotta alla criminalità organizzata e alle mafie non si fa solo con le polizie e la magistratura, ma con la cultura che pazientemente va fatta crescere con l’impegno dello Stato e di insegnanti motivati e pagati il giusto.

Piccoli MMD non nasceranno e non cresceranno più solo se si opererà di concerto con la cultura, l’educazione civica, e certamente anche con la repressione e le sanzioni, unite a una corretta informazione sociale e mediatica.

Dolori “minori” della Seconda Guerra mondiale. Chi si ricorda dei bimbi mutilati, degli istituti dove furono curati e accuditi? E la storia nulla insegna e non cambia…

Se chiedessi a qualche mio lettore se si ricorda dei bambini rimasti mutilati in scoppi di bombe rimaste inesplose, o se il nome di don Carlo Gnocchi gli dice qualcosa, penso che forse solo qualcuno di una certa età potrebbe averne un’idea.

Possiedo, per ragioni familiari, una documentazione concernente uno degli istituti nei quali molti bimbi mutilati dallo scoppio di bombe e granate esplose durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, e anche una testimonianza diretta di chi operò in quell’istituto come operatrice assistenziale dei piccoli ospiti. Anni fa ho anche avuto modo di partecipare personalmente al ricordo annuale che si tiene nella sede storica di quell’istituto, a Buttrio, in Friuli, e li ho visti, quei bambini e bambine, diventati grandi, con i segni immodificabili della loro disgrazia, sui volti e negli arti.

Riporto di seguito un testo biografico commovente, come se fosse stato scritto (ed è stato scritto) dal “mutilatino” Ovidio Morgagni da Forlì:

“Sono Ovidio, ho tre anni e abito a Forlì con il mio babbo Giacomo e la mia giovanissima mamma Rosina, che ha compito da poco 22 anni. Sono un bimbo vispo e molto curioso. Qui a Forlì in questi giorni c’è il passaggio del fronte. Sulla riva del fiume Ronco i soldati tedeschi cercano di contrastare l’avanzata delle forze di liberazione che sono allineate dalla parte opposta. E’ da più di una settimana che dura il duello fra le opposte artiglierie; continue e ripetute sono le incursioni degli aerei sulla città. Il mio babbo ha deciso di trasferire la nostra famiglia in un posto più sicuro, nella frazione di S. Tomè, nel nostro podere di campagna dove ospitiamo altri 20 sfollati.

In mezzo a due case coloniche è stato ricavato un piccolo rifugio. Oggi 7 novembre 1944 è una bella giornata di sole. Sono le ore 13 inizia a suonare la sirena che avvisa dell’arrivo degli aerei, un suono cui ormai siamo abituati. Il babbo e la mamma mi chiamano a gran voce per portarci al riparo nel rifugio poco distante.

Improvvisamente all’orizzonte vediamo avanzare una formazione di 22 bombardieri che iniziano a sganciare bombe per snidare la batteria contraerea tedesca poco distante. La mamma mi prende in braccio, mi tiene la testa stretta al suo collo e con le mani cerca di proteggermi. Siamo a pochi metri dal rifugio, sento il cuore che batte forte ma non c’è più tempo. Il rumore assordante dei proiettili che lasciano una scia come code di cometa nel cielo, l’odore acre della polvere da sparo e poi torna un silenzio irreale. Intravvedo, in mezzo al fumo che si alza, il mio babbo con il volto rivolto verso terra vicino ad altri sei caduti. Io sono ancora abbracciato alla mia mamma che con il suo corpo mi ha protetto. Lei colpita alla schiena, esanime in mezzo alla polvere della strada non respira più. Una scheggia ha colto la mia mano che tenevo sulla sua schiena. Ho dolore e vedo uscire il sangue e piango. Gli aerei si sono allontanati. Accorrono persone e le sento esclamare il nostro nome.

Mi portano all’ospedale di Forlì, con la mano avvolta in un panno bianco. Arrivano altri feriti e poi altri ancora. Gli infermieri si affrettano a portarli al sicuro nei lunghi corridoi sotterranei dell’Ospedale dove sono anch’io, seduto su una sedia, in attesa che qualcuno si accorga della mia presenza. Arriva sera, ho dei brividi di freddo per la febbre che sale, una suora vestita di bianco mi avvolge in una coperta di lana color marrone e mi porta una tazza di latte caldo.

Ci sono feriti più gravi di me da curare, io ho solo una mano dilaniata da quella maledetta scheggia arrivata dal cielo.

Sono trascorsi due giorni finalmente arriva il mio turno. Il dottore che mi visita si accorge che la ferita è degenerata in cancrena. Mi portano in sala operatoria, non c’è tempo da perdere, occorre procedere all’amputazione del braccio per salvarmi almeno la vita.

Camillo, un vicino di casa, mi riconosce qui in ospedale e si incarica di avvisare i miei parenti che abitano nella campagna ravennate. Gli zii e i cugini partono immediatamente per prendersi cura di me, unico rimasto vivo della mia famiglia.

Sono le due del pomeriggio, la strada che da Ravenna porta a Forlì in questo momento è quasi deserta, il calesse corre veloce. Manca poco all’arrivo quando il cavallo calpesta una delle tante mine disseminate sulle strade dai tedeschi in ritirata. L’onda d’urto, l’assordante rumore della deflagrazione e i frammenti metallici investono i miei zii e cugini. Vengono tutti colpiti a morte, non si salva nessuno, neppure il cavallo con il calesse rovesciato nel fosso.

Ora sono rimasto proprio solo, abbandonato in una corsia di ospedale che, ironia della sorte, porta il mio stesso cognome: “Ospedale Morgagni”.

Mia zia con tre figli e il marito disoccupato non può occuparsi a lungo anche di me. Vengono interpellati diversi enti che si occupano di assistenza ai bimbi orfani e mutilati. Qualche anno dopo l’ONIG e l’ANVCG si prendono cura di me e mi trovano un posto dove posso crescere e studiare: il Collegio Friulano per i fanciulli mutilati di Buttrio di Udine. Qui sono il più piccolo e spesso una dipendente del collegio che si chiama Maria, quando mi vede piangere, viene a consolarmi. La domenica è un giorno di gran festa perché a pranzo c’è anche il dolce e al pomeriggio scendiamo dal colle di Buttrio per recarci al cinema parrocchiale giù in paese. Rimango nel collegio per 8 anni fino al 1956.

Ora, dopo tanti anni di lavoro negli Uffici della Provincia, sono qui nel mio appartamento, ho in mano l’album fotografico, lo sfoglio adagio, rivivo tutta la mia vita in quelle foto sbiadite dal tempo mentre la radio trasmette le notizie di guerra in Ucraina. Questa mattina i soldati russi hanno aperto il fuoco e crivellato di colpi un’auto civile con bandiere bianche e la scritta “bambini” uccidendo tutti i componenti di una famiglia in fuga dal loro villaggio.

La storia purtroppo si ripete.”

Non mi pare il caso di aggiungere altro.

La PRESUNZIONE è un sentimento che produce ogni tipo di VANTERIA, e si trova anche in persone celebrate, ad esempio in Umberto Eco, cui ho sentito dire, a suo tempo (le registrazioni video, come tutto ciò che appare sul web, possono diventare una maledizione), tra molte considerazioni interessanti e acute, anche alcune stupidaggini. Nessun uomo è esente da errori: la differenza morale la fa l’atteggiamento dell’uomo che sbaglia, verso i propri errori, accettandoli come limiti e cercando, se possibile, di rimediarvi

In questo pezzo mi occuperò di un famoso intellettuale italiano che non è più a questo mondo, il celebratissimo Umberto Eco, che in una famosa intervista di Rai Storia sento pronunziare kàiros, invece di kairòs cioè, in greco antico, “tempo opportuno” o “tempo spirituale”, in contrapposizione a krònos, che è il tempo fisico, cronologico, appunto. Accentazioni e termini consueti a chi frequenta assiduamente la filosofia. Accenti sbagliati da parte del professor Eco.

Tutti possono sbagliare? Certo, ma è meno plausibile che un filosofo o un matematico o un fisico errino usando termini che fanno parte strutturale del loro sapere e dei loro specifici linguaggio e lessico o, come si usa dire, dello statuto epistemologico della scienza alla quale afferiscono e di cui si occupano. E’ per questo che mi ha un po’ “scandalizzato” sentire Eco sbagliare l’accento di kairòs.

Lui è stato il semiologo semiotico del secolo scorso per eccellenza accademica e scrittoria. E notoria. Ed è stato romanziere di successo. Però, nella stessa intervista citata, lo ho sentito anche…

semiotica e semiologia

…dire acquoreo invece di equoreo, che vuol dire delle acque, del mare… dal latino;

…dare dell’imbecille a una persona che gli chiede se abbia scritto “Il nome della rosa” con il computer, pur avendo lui iniziato a scrivere il romanzo nel 1976, quando non c’erano i pc a disposizione. Mi pare che non occorra offendere chi fa una domanda mal posta, basta rispondere “no, allora non avevamo a disposizione il computer“, vero?

…definire “cattedrale” la Basilica di san Pietro. San Pietro non è propriamente una “cattedrale”, perché la cattedrale di Roma, dove risiede ufficialmente il Vescovo di Roma, è costituita canonicamente in San Giovanni in Laterano, mentre la Basilica di San Pietro, in Vaticano, ha giurisdizione formale e teologica sul katà òlon, cioè sulla cattolicità e sul mondo. Ne fa testo la classica benedizione “Urbi et Orbi”, cioè alla Città e al Mondo, che il Papa impartisce dal Palazzo apostolico;

…affermare in una intervista degli anni ’80 a Rai Storia che “il Medioevo non esiste“, perché sarebbe una convenzione storicistica, facendo esempi assurdi, come il dire che tutti i tempi sono stati “medioevo” rispetto agli evi precedenti e successivi. Se si insegnasse la storia in questo modo alle scuole medie e superiori sarebbe un disastro;

…definire banali coloro che si identificano con i personaggi delle storie raccontate. E studiare un po’ di psicologia generale, signor professor Eco? Nessun essere umano è banale, e tutti sono pari in dignità, anche se pochissimi arrivano al Premio Nobel;

…definire “banale meccanica” la gestazione umana, mentre invece la “gestazione di un libro” sarebbe molto più creativa (sempre nella citata intervista).

Mi pare che Eco non sia né un immenso filosofo, né un immenso intellettuale, ma un buon scrittore di thriller, molto inferiore a uno Stephen King, che ha scritto almeno dieci romanzi del livello de Il nome della rosa.

Mi dispiace di non poter più parlare con quest’uomo.

Qualche parola sulla semiologia, che è uno studio del segno, mentre la semiotica studia l’importanza dei linguaggi verbali e non-verbali. Si tratta di un sapere che ha assunto – solo molto recentemente – uno statuto epistemologico nel senso accademico moderno.

La storia recente di questa scienza può essere fatta risalire agli studi di de Saussure (sémiologie Semiotik), ovvero, in inglese semiotics. Oggi “Semiotica” è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell’ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente “semiologia”.

Ampliando lo sguardo, alcuni, come Ducrot e Todorov, sostengono che esista una “semiotica implicita” nella cultura intellettuale dell’antica Cina e dell’India, così come si attesta una semiotica implicita nella tradizione del pensiero greco, soprattutto nell’ambito del pensiero stoico. Già a quei tempi si riteneva che una specie di semiotica si potesse applicare anche al linguaggio non verbale.

Nel contesto della cultura antica e medievale, la teoria dei segni può essere anche definita come “teoria della rappresentanza”, come nomenclatura degli oggetti. Più tardi, in John Locke per esempio anche le “idee” come “segni delle cose”, e i “segni” propriamente detti come “segni delle idee”. fino alle teorie contemporanee degli studiosi di semiotica come Frege, Wittgenstein, Tarski e Carnap.

Per chi vuole studiare questa disciplina, può essere interessante un semiotico moderno, Charles Morris, che ha disegnato in appendice a SignsLanguage and Behavior (1946) la storia della semiotica dall’antichità a oggi.

Circa la natura e la struttura di segni e immagini, oltre alla semiotica dobbiamo tenere in considerazione anche altre discipline come la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, etc., tenendo comunque in conto che una vera e propria semiotica – come disciplina organica, sistematica e specialistica – si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del secolo XIX, e che i primi riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. XVII e XVIII, con Francis Bacon, Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz.

In definitiva, la semiotica può dirsi una scienza che si trova nell’intersezione tra la logica filosofica e la linguistica strutturale, e richiede il contributo, come ormai molti saperi contemporanei, di più discipline che lavorano in concerto, non in concorrenza, ma sempre al fine condiviso di aumentare la conoscenza dell’uomo e delle “cose” che l’uomo definisce, a partire dagli animali, fin dai tempi del comandamento genesiaco (Genesi 2, 18-20).

“Dante è di destra”: la enorme stupidaggine detta dal Ministro “della cultura” Gennaro Sangiuliano

Sinceramente non mi aspettavo da questo abile giornalista una defaillance così grave e altrettanto ridicola.

Giovanni Verga

Apprendiamo che il Ministro, a una convenzione del suo partito, Fratelli d’Italia, ha affermato che Dante Alighieri è il “padre” della lingua italiana e anche della Patria. Fin qui nulla di che. Siamo più o meno d’accordo tutti, uomini e donne pensanti e variamente studiosi.

Subito dopo, però, citando un libro che gli è stato regalato, il cui titolo e autore non abbiamo sentito specificare, afferma che “tutti” gli scrittori (non si capisce se si riferisca solo agli italiani o anche a tutti gli scrittori del mondo) “sono (non dice “sarebbero”: eventualmente, con il modo condizionale, avrebbe potuto smorzare un’affermazione così perentoria) di destra“.

L’affermazione ministeriale, oltre ad essere temeraria, è facilmente e altrettanto radicalmente criticabile sotto tre profili almeno: quello storico-politico, quello filosofico-teologico e quello letterario.

IL PROFILO STORICO-POLITICO

Circa il profilo storico, definire Dante come “uomo di destra” è innanzitutto un anacronismo che può comprendere, forse, anche uno studente di terza media di trent’anni fa, e oggi (forse) un liceale. Infatti, la dizione destra/ sinistra si deve far risalire alla Rivoluzione Francese (1789 – anni seguenti e conseguenze più generali): nell’emiciclo della Convenzione repubblicana le varie posizioni politiche si erano collocate in modo chiaramente distinguibile tra chi era più moderato, magari ancora monarchico, e chi invece si riteneva chiaramente repubblicano, democratico e anche proto-socialista. I Vandeani a destra e poi, gradatamente spostandoci, trovavamo le varie fazioni Giacobine, da quelle più moderate di Danton, a quelle più estreme di Robespierre e di Saint-Just. All’estrema sinistra stavano i cosiddetti Montagnardi, paragonabili alla Nuova Sinistra italiana degli anni ’70 del ‘900. Una sorta di Spartachisti o di Zeloti della Rivoluzione.

Negli anni, nei decenni e nei due secoli successivi, la dizione destra/ sinistra prese piede praticamente in tutti i Parlamenti del mondo, da quello più antico, che è la Camera dei Comuni inglese, a quello tunisino della Rivoluzione dei ciclamini del 2011.

Venendo a Dante, se anche volessimo fare una comparazione gadameriana (cioè ispirati dal filosofo Hans Georg Gadamer, che significa metterci nei panni dei suoi contemporanei con la mentalità e le nozioni nostre attuali), non potremmo – onestamente – definirlo “di destra”. Dante Alighieri è stato un uomo politico fiorentino in pieno Medioevo, ai tempi delle aspre lotte fra Papato e Imperatore del Sacro Romano Impero, e anche un buon cattolico, rispettoso della Chiesa, della Tradizione cattolica e del papato romano. Non dimentichiamo che svolse severi studi teologico-filosofici, sia presso i Padri Domenicani di Santa Maria Novella, sia presso i Padri Francescani di Santa Croce.

Epperò, in tutta la sua vita, fino ad essere condannato a morte in contumacia dagli avversari politici di Firenze, lottò, sia con la scrittura (si legga il De Monarchia), sia con l’attività politica, affinché il potere religioso-papale fosse distinto e distante dal potere politico. Pur essendo un “Guelfo” (vale a dire un cattolico militante), Dante sostenne con chiarezza che il Papa avrebbe dovuto occuparsi delle “cose spirituali”, non di quelle “terrene”. E pagò duramente, fino alla sua morte in esilio a Ravenna.

Continuiamo pure sulla dizione sangiulianesca: se volessimo oggi dare una patente politica al Poeta, dovremmo cercare piuttosto una comparazione verso il “centro politico cristiano/ laico”. Dante avrebbe potuto essere un democristiano moroteo, o un repubblicano lamalfiano, e perfino un socialdemocratico saragattiano, che è la stessa appartenenza che attribuirei a Tommaso d’Aquino.

IL PROFILO FILOSOFICO-TEOLOGICO

Sotto questo profilo, è assurdo dare del “destro” a Dante, poiché la sua visione etico politica era improntata in maniera fortissima all’Etica aristotelico-tommasiana, che sosteneva con chiarezza come i sovrani, o comunque i detentori del potere, non potessero fare-cio-che-volevano senza controlli di leggi o di assemblee, certamente non come quelle democratiche attuali, ma sempre in grado di contemperare i vari diritti e doveri, coniugando i poteri con le esigenze del popolo. Dante, come amministratore fiorentino, ebbe molto a cuore le esigenze del popolo, degli artigiani e delle varie categorie sociali, senza mai mettersi prono davanti al potere del tempo.

Anche sotto il profilo dell’etica della vita umana, Dante sosteneva l’esigenza di leggi rispettose della persona, a qualsiasi classe appartenesse, nel rispetto delle leggi e dei costumi del tempo, senza mostrarsi mai bigotto o estremista.

Come si fa, pertanto, a dire che Dante fu l’alfiere della “destra”, quando la destra, storicamente, in Italia e altrove, è non solo costituita da persone maturate come Meloni, ma anche da Hitler, da Mussolini, da Franco, da Salazar, e oggi da Putin e dai governanti di certe nazioni islamiche, che ai tempi del nazismo ad esso erano addirittura alleati?

IL PROFILO POETICO-LETTERARIO

Chiedo, digrazia, al signor Ministro: dove sta il destrismo di Dante? Nell’etica che traspare dal sistema di premi e punizioni presente nel gigantesco affresco della Commedia? E’ forse di destra giudicare “politicamente” le scelte dantesche sulla collocazione all’Inferno, nel Purgatorio e in Paradiso degli innumerevoli personaggi da lui citati e ivi collocati?

Tra i moltissimi esempi che si potrebbero fare, ne scelgo uno, presente nel Canto V dell’Inferno, la storia di Paolo e Francesca. Dove sta la cultura di destra in un episodio che contiene, invece, oltre all’altissima poeticità del canto d’amore, la forza tremenda della tragedia umana che si consuma nell’ambito dei costumi del tempo… e infine, è di destra l’immensa pietas che il Poeta fa trasparire nel racconto? Cosa c’entrano la destra e la sinistra con gli umani sentimenti?

Pertanto, “dare del destro” a Dante è, non solo anacronistico, falso e inappropriato, ma perfin ridicolo. Stupido.

Un solo cenno sull’affermazione ministeriale che riguarda gli scrittori che, secondo Sangiuliano, sarebbero tutti di destra. Ferma restando l’analisi storico-politica, che spiega l’anacronismo generale di tale affermazione, potrei fare un elenco sconfinato di scrittori e letterati che di destra non sono, restando, ovviamente nell’ambito degli ultimi due secoli. Vogliamo provare? Sono forse di destra Alessandro Manzoni (che era un possidente cattolico democratico-liberale), Giacomo Leopardi (che era un nobile apertissimo alle novità scientifiche e politiche), Charles Baudelaire, Victor Hugo, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Honorè de Balzac, Charles Dickens, Emile Zola, Gustave Flaubert, Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Boris Parternak, Osip Mandel’stam (che erano antistalinisti, ma non di destra), Leone Tolstoj, Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Gunther Grass, per tacere di centinaia di altri. E anche se volessimo individuare “scrittori (ritenuti) di destra”, potremmo citare Dostoevskij, che però non era di destra, ma era un cristiano russo dell’Ottocento, Giovanni Verga, che però scrisse degli “ultimi”, con efficacia ineguagliata, o Gabriele D’Annunzio, il cui “essere-di-destra” era di un tipo radicalmente diverso dal mussolinismo che lo sopportò, temendolo non poco. E magari anche Solgentsin, la cui “destra” non è mai stata fascista, ma teologico-nazionalista.

Mi auguro che Sangiuliano “si spieghi” e, se lo ritiene opportuno, “si corregga”, perché – da Ministro della Repubblica (e docente universitario) – ha fatto una figura pessima.

Della polemica suscitata da mons. Georg Ganswein sull’uso della lingua latina nelle liturgie, e sul suo ruolo perduto di Prefetto della Casa pontificia dopo la rinunzia di Benedetto XVI e l’elezione al Ministero petrino di Papa Francesco, o del diritto ad attuare lo “spoil system” da parte di chi governa, cioè di cambiare i più stretti collaboratori quando ci si assume un “ruolo direttivo centrale”, e le relative e connesse responsabilità verso la struttura interna e verso tutto il mondo

Sinceramente non mi aspettavo che questo intelligente prelato, mons. Georg Ganswein, neanche terminate le esequie di papa Benedetto XVI, abbia dato fuoco alle polveri di una polemica inutile e dannosa, che riguarda, da un lato la Santa messa in lingua latina, dall’altro il suo ruolo di Prefetto della Casa pontificia, venuto meno -a suo tempo -per volere del nuovo Papa.

E’ evidente che la “cosa” non è nata giovedì 5 Gennaio 2023, ma era latente da tempo e – simbolicamente – molto più profonda di quanto non appaia dalle narrazioni mediatiche, che raramente sono sorrette da un’informazione e da una conoscenza, non dico profonda, ma almeno sufficiente delle complicate questioni inerenti la Teologia cattolica, storica e attuale, la struttura e il funzionamento della Chiesa cattolica, e le tematiche concernenti le Liturgie, vale a dire i Riti e le modalità espressive del Cristianesimo cattolico, nella sua dimensione storica, organizzativa e “gestionale”.

il Cardinale guineano Robert Sarah

In questo pezzo non parlerò delle differenze teologiche tra i due papi, perché ciò richiederebbe un tempo e uno spazio (ed energie) che oggi non ho a disposizione, in ragione della loro complessità, ma prima di parlare dello spoil system, spendo alcune parole sui due temi sollevati da don Georg, quello liturgico e quello organizzativo.

Circa la Santa messa in latino, fu Paolo VI, a seguito delle decisioni assunte con il Concilio Ecumenico Vaticano II, ad ampliare le possibilità linguistiche nella celebrazione di questo Rito fondamentale e teologicamente rilevantissimo del Cristianesimo, soprattutto Cattolico e Ortodosso, perché nel mondo delle Riforme protestanti, salvo che nell’Anglicanesimo, rimasto molto simile al Cattolicesimo, non si può parlare propriamente di Messa, ma di Rito memoriale della cena del Signore, con l’avvio dell’utilizzo delle lingue nazionali e locali, senza proibire od escludere in via assoluta la lingua latina.

La decisione di papa Montini fu una scelta di carattere certamente teologico, con il riconoscimento del valore umano e culturale, ma soprattutto religioso e cristiano dei singoli idiomi umani inseriti nella storia dei popoli e caratterizzanti le varie culture, ma forse ancora di più pastorale, per avvicinare meglio e maggiormente le popolazioni, specialmente le più povere e disagiate alla Parola del Vangelo di Gesù, che è Gesù Cristo stesso.

Ricordo qui anche che la figura di Paolo VI, papa coltissimo e rispettoso della storia e della cultura umana (fu il primo papa a dialogare sistematicamente con gli artisti, seguito in questo da papa Benedetto XVI, ed istituendo la sezione contemporanea nei Musei vaticani, che invito il mio gentile lettore a visitare), era assolutamente aliena da ogni pensiero che escludesse la storicità, il valore liturgico, l’intensità semantica e la bellezza, a mio avviso, incomparabile della lingua latina dagli ambiti della Chiesa cattolica.

Bene, dalla metà degli anni ’60, le liturgie cattoliche si sono potute svolgere nelle singole lingue nazionali e locali. Che cosa fece su questo tema Benedetto XVI? Riprese a considerare la possibilità di un utilizzo liturgico del latino, senza nessun ritorno al passato, magari con la proibizione dell’utilizzo delle lingue nazionali. Papa Benedetto si limitò a ricordare che il latino aveva ancora piena cittadinanza nella Chiesa, e che quindi si sarebbe ancora potuto usare. E Francesco non smentì mai questa possibilità.

Non dimentichiamo che papa Benedetto era un Europeo a tutto tondo, con tutto ciò che tale appartenenza comporta, mentre invece Francesco è un Sudamericano, se pure di origine italiana, con una sensibilità culturale, quindi, molto diversa da quella del suo predecessore nel papato. Altro aspetto: Benedetto era un presbitero, per scelta di studi e per inclinazione dottrinale, “agostiniano”, con tutto l’enorme bagaglio teologico-filosofico che ciò comporta, mentre invece Francesco è totalmente un “gesuita”, con tutto l’enorme peso della politicità della lezione di sant’Ignazio de Loyola. Benedetto ha primariamente a cuore la Fede e la spiritualità, Francesco ha prima di tutto a cuore la Carità universale, che sono due termini teologici assolutamente non contrastanti, ma relati e reciprocamente necessari.

Si pensi che il termine Caritas è presente in tutte e due le principali Lettere encicliche di Benedetto XVI, nella prima, più teologica, Deus Caritas est, vale a dire “Dio è amore”, dall’espressione forse più famosa del Vangelo secondo Giovanni, e nella seconda, Caritas in Veritate, vale a dire “L’Amore nella Verità”, che si incentra sull’amore di Dio per l’uomo e sul collegamento necessario che tale amore esige, cioè che esista tra tutti gli uomini, come condizione per rendere Vero anche l’amore degli uomini per Dio stesso.

E vengo al tema organizzativo. Nel momento in cui Benedetto rinunziò al Ministero petrino e il Conclave elesse Jorge Mario Bergoglio papa, questi, chiamatosi “Francesco” per ragioni oramai molto note e comprese dai più, anche tra i non-credenti, trovò mons. Ganswein nella posizione di Prefetto della Casa pontificia, cioè supervisore del governo di tutto ciò che circonda il Papa dal punto di vista della vita pratica. Non dimentichiamo che Francesco scelse di non alloggiare negli appartamenti vaticani, che ospitano i papi da secoli, ma preferì l’alloggio più modesto nel monastero di Santa Marta. Benedetto e Francesco, da allora, vissero in due “case di preghiera” interne al Vaticano. Nel frattempo, don Georg continuava ad adempiere al ruolo di segretario particolare del Papa emerito.

E’ a questo punto che si verifica la separazione, perché Francesco non ha più ritenuto che il sacerdote tedesco dovesse mantenere anche il ruolo di Prefetto della Casa pontificia e ha scelto di congedarlo da quel ruolo.

Ora, si può ben capire che don Georg non prese benissimo la decisione papale, ma ovviamente obbedì, in silenzio, silenzio che ha ritenuto di rompere (a mio avviso inopportunamente per modalità e tempistiche) ora che Benedetto se ne è andato, esprimendo pubblicamente per iscritto sentimenti che tratteneva da tempo.

Due parole sullo spoil system, cioè sulla possibilità/ opportunità o perfino utilità/ necessità di cambiare i propri collaboratori più prossimi.

Posto che tutti, preti e laici, siamo esseri umani con i nostri pregi e difetti, non è assolutamente strano che Francesco abbia agito come ha agito con mons. Ganswein. Forse tale decisione sarà stata brusca e inaspettata, ma che fosse perfettamente legittima è fuori questione.

Lo spiego: in ogni struttura organizzativa, che richiede politiche gestionali, perché ivi sono coinvolte più persone operative, colui che ha le massime responsabilità, in quanto si trova obiettivamente nella posizione più elevata e difficile, della quale deve rispondere di fronte alla struttura e al mondo, ha bisogno di poter contare a occhi chiusi su chi gli sta più vicino, di avere una fiducia svincolata da ogni altro potere o autorità o carisma, che comunque, soprattutto per quanto attiene autorevolezza e carisma, restavano intatte nel Papa emerito, soprattutto nella percezione di don Georg.

Senz’altro Papa Francesco si è trovato in una situazione nella quale don Georg era e rimaneva l’uomo di fiducia di Joseph Ratzinger, il suo “servitore” (nel senso evangelico del termine) più fedele, che lo conosceva meglio di tutti. E ha deciso di cambiare.

Per esperienza in molti e complessi ambiti economici e aziendali e per ferma convinzione, nata nel tempo dalla mia constatazione che ogni tipo di potere alla lunga logora e fa peggiorare le persone, penso che tutti coloro che si trovano ai vertici di qualsiasi struttura, abbiamo il diritto di muoversi in questo modo, e che, anzi, ciò convenga anche a chi usufruisce del servizio, e nel caso, di ciò-che-è la struttura centrale della Chiesa cattolica, l’ambito delle funzioni del Vescovo di Roma, Primate d’Italia e Pastore della Chiesa universale.

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