Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Domenica 26 Febbraio 2023 sceglierò BONACCINI, per impedire un’altra deriva “a sinistra”. Caro Stefano, occorre una nuova “antropologia” per un rilancio della partecipazione nella politica!

Scegliere questo candidato a mio avviso significa dare al PD ancora qualche speranza di muovere qualcosa a sinistra di ragionevole, di razionale e di socialista democratico, magari anche (perché no?) di qualcosa che sia memore della parte migliore del Partito d’Azione.

Filippo Turati

Il mio amico Claudio, insegnante di filosofia e di storia, conoscitore finissimo delle vicende del mondo slavo e caucasico, dell’ex Unione Sovietica e della Rus storica, e mio antico compagno di liceo, la vede in questo modo, offrendomi una sintesi di ragioni a me completamente consentanee:

La Schlein, se dovesse vincere, trasformerebbe il PD in un’arca di nostalgici ideologici e di minoranze Lgbtq+: non approderebbe da nessuna parte. Il diluvio continuerebbe, potendo eventualmente incontrare altri relitti 5 Stelle , e imbarcarli per aumentare la confusione.

Oggigiorno gli aiuti all’Ucraina sono necessari e la Schlein mi sembra molto ambigua. Alcuni anni fa ho letto il libro di Huntigton sullo scontro di civiltà. Allora molti lo hanno deriso e criticato. La guerra in corso mi sembra invece rientrare nella categoria dello scontro di civiltà: o la democrazia o le dittature più o meno mascherate. In Italia molti non lo hanno capito e piagnucolano perché sono stanchi della guerra (standosene ben pasciuti e al caldo), e pensano che Zelensky sia colpevole di tutti i guai che ci affliggono. Costoro vanno alle marce della pace, ma non hanno visione politica, anzi, aggiungo, hanno un atteggiamento immorale, nonostante i buoni propositi.”

Con il massimo rispetto per chi partecipa alle marce per la pace, condivido sostanzialmente la posizione di Claudio, che ha una lunga esperienza di insegnamento e anche di militanza politica in aree “insospettabili” per chi volesse insinuare che è un filo-bellicista.

Ai nostri tempi giovanili lui molto più “a sinistra” di me, ci siamo trovati, da uomini maturi, sul versante socialista democratico cui io appartengo fin dall’uso di ragione, come figlio della classe operaia, che, come sanno bene coloro che conoscono la Storia, è sempre stata gradualista e moderata.

…e riflessiva, perché naturaliter consapevole che le cose cambiano solo a partire dall’autoconsapevolezza dei limiti antropologici dell’essere umano, e da una paziente ricerca di sempre nuovi equilibri di democrazia e di giustizia nella libertà.

Sento dire in tv che Bonaccini sta chiedendo a Schlein di essere sostenuto nel caso lei non vinca, ottenendone, pare, prima una risposta positiva, risposta però, in seguito, recisamente smentita. Infatti, mi chiedo prima di tutto per quale ragione una candidata che spera di vincere, dovrebbe dare ex ante la disponibilità a collaborare con il suo “fiero vincitor” avallando in questo modo, implicitamente, la propria sconfitta e, in secundis, come si possa attuare una convivenza politico-gestionale positiva per un partito finalmente riformista (come avrebbero voluto in tempi e modi diversi Bettino C. e Walter V.), se i due progetti paiono essere così differenti.

Del resto, sono dell’idea che ogni organizzazione umana, partiti compresi, per quanto possano oggi – sociologicamente – essere chiamati “organizzazione”, necessiti di una leadership chiara e condivisa, non perché io sia un laudator dell’idealtipo “uomo solo al comando”, ma perché il leader, con la sua tipica personalità, deve incarnare con chiarezza e senza ambiguità una linea politica visibile per tutti. Così funziona tra gli uomini di questo mondo, non solo in base alla letteratura filosofica e psicologica fin dai tempi di Aristotele e fino a Freud e a Max Weber e oltre, ma anche nelle prassi che conosco direttamente, come nelle imprese economiche e nelle strutture della cultura, per tacere del sistema militare e di quello ecclesiastico.

In ogni caso, chiunque dei due vinca, a mio parere, dovrà iniziare da una revisione radicale dell’antropologia vetero-marxista che ancora permea quelle zone politiche, pena una nuova impasse, che sarebbe forse definitiva. Per fare ciò, per la verità, non vedo (purtroppo) preparato/ a né l’uno né l’altra. Chiarisco subito che un cambiamento di indirizzo antropologico presuppone immediatamente una revisione dell’ideologia politica storica sottostante e corrente.

Che cosa intendo per “revisione antropologica”? In questa sede ne ho parlato spesso e ora la riprendo, poiché mai come su questi temi e di questi tempi repetita juvant.

Con questo sintagma filosofico intendo che bisogna rinunziare solennemente all’utopia dell’homo novus, così come si legge ancora qua e là in articoli e pamphlettini nostalgici, in questo caso soprattutto dalle parti di Schlein o di ex militanti delusi dall’andazzo impoverito di idee e di entusiasmi di questi tempi post-rivoluzionari.

La “sinistra nuova” dovrebbe (necessariamente), studiare (studiare molto, perché ogni tanto mi capita di leggere che lo studio approfondito, scientifico, anche accademico, di un argomento, non serve o non servirebbe a molto), approfondire, prendere in mano e far propria un’antropologia che si fondi su una sorta di Realismo aristotelico-tomista declinato con il personalismo Novecentesco di un Mounier e di un Marc Bloch (socialista cristiano), che utilizza, assieme alla visione classica, intuizioni ed afflati che appartengono, solo apparentemente in modo strano e sorprendente, anche alla ricerca della fisica teorica più recente, che sta superando ogni riduzionismo deterministico nei suoi ultimissimi studi sulla coscienza-come-atto-in-divenire, non come stato-in-luogo determinato e immutabile (Giacometti 2022). L’uomo, nella sua struttura, non è emendabile per una via meramente socio-politica. Rassegnamoci (rassegnatevi Bonaccini e Schlein). L’uomo può solo essere trattato per come è, ed è in due modi.

E anche questi due modi ho spiegato più volte in questa sede, così: a) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di un corpo, di una mente e di una sensibilità spirituale, che tutti gli umani accomuna in dignitas e, b) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di genetica, ambiente e educazione, tali da rendere ognuno un unicum, irripetibile, irriducibilmente. Le due strutture, cari Candidati, convivono! e vanno considerate assieme, non in contrasto, per cui l’emendazione, la resipiscenza, il pentimento, il cambiamento interpellano singolarmente la struttura b) su cui bisogna lavorare ad personam, con il dia-logo e lo studio dei principi etici, mediante il modello filosofico maieutico di Platone e dei maggiori saggi d’ogni tempo e luogo, che vanno studiati in modo approfondito e non solo orecchiato negli attivi di partito o di circolo, come si usa dire oggi.

Ancora una volta, dobbiamo ammettere che l’unica “rivoluzione” possibile è quella del cuore, che, se avviene, può mettere in moto anche il cambiamento sociale. Il primo nemico della sinistra, e di tutto il genere umano, non è primariamente la classe-che-sta-di-fronte-come-avversario-o-addirittura-nemico, non è la “Democrazia cristiana” odierna, né il “Sistema delle multinazionali” guidato dagli Usa, ma sono l’egoismo, l’invidia, la superbia, la vanagloria, l’egocentrismo, il narcisismo, cioè i vizi morali che possono caratterizzare qualsiasi anima umana, e non solo come nevrosi bio-psicologiche da Manuale Medico diagnostico psichiatrico. Vizi morali presenti ovunque, in ogni territorio, in ogni tempo luogo, nazione, ambiente, famiglia, gruppo organizzato e partito. Ovunque.

Un altro nemico che il nuovo gruppo dirigente deve sconfiggere, rendendosi prma di tutto conto della sua pericolosità, è la chiacchiera vana e le discussioni poco o punto documentate su temi decisivi come l’Etica, che il più delle volte si sente citare a sproposito. L’etica non è una serie di prescrizioni morali legate al qui e ora, ma è la scienza del discernimento nel giudizio valutativo sull’agire umano, condividendo la nozione di ciò che sia bene e di ciò che sia male, che non è mai banale (cara Hannah Arendt!).

Infine, se quanto vengo dicendo è plausibile e condivisibile, solamente da una nuova Antropologia filosofico-morale può discendere una proposta politica di sinistra, capace di coniugare armonicamente libertà e giustizia sociale, proposta che riesca a parlare a vecchi e giovani, a militanti storici e di mezza età, a possibili simpatizzanti e – soprattutto – a chi non va più a votare e non partecipa alla politica, perché vinto da un formidabile scetticismo esistenziale e morale.

Un ultimo consiglio non richiesto a chi diventerà Segretario: rinnovi tutto il gruppo dirigente, senza astio, ringraziando con simpatia, e nel contempo invitando chi ha vissuto una stagione dirigenziale ad essere disponibile a viverne un’altra senza incarichi particolari, e soprattutto senza potere.

“La Ragione e il Sapere parlano, il Torto e l’Ignoranza urlano”

Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.

È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.

La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?

Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.

C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.

Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.

Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.

Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?

Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).

Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.

Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.

Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.

A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.

Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.

Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.

Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.

“Gelosia” vs. “Invidia”: vizi? L’invidia senz’altro: secondo la dottrina morale classica è, dopo la superbia, il vizio più grave. La gelosia invece non lo è, se non quando è esagerata e può impedire la crescita di persone meno esperte, nel lavoro e nella vita, oppure quando pretende di avere il dominio su un’altra persona

Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.

San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).

Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.

Power Point

Emmanuel Macron-micron (un tempo al suo posto ci sono stati il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou, François Mitterrand), Olaf Scholz (un tempo al suo posto ci sono stati Konrad Adenauer, Willy Brandt, Helmuth Schmidt, Helmuth Köhl), Giorgia Meloni (un tempo al suo posto ci sono stati Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Bettino Craxi, Mario Draghi) etc., di un’Europa piccolina

Già ebbi modo di scherzare un pochino sull’etimologia greca del nome del Presidente della Francia Macron e sulle radici makromikro, grande-piccolo. Il suo nome, poi, Emmanuel, in ebraico Dio-con-noi, se viene collegato a makron dà il senso di un nomen-omen e di un de-stino, cioè di un ìsthemi, verbo greco, cioè stare, che è tutto un programma, come insegna Emanuele Severino. Un presidente della Francia scarsetto, che vive all’Eliseo come a loro tempo ivi vissero e presiedettero la Francia il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou e François Mitterrand.

Willy Brandt

Scholz, il Cancelliere, mi echeggia una parola friulana “discolz“, che significa scalzo, proprio senza scarpe. Ebbene, quest’uomo, socialdemocratico come Willy Brandt e Helmuth Schmidt, ma di statura ben più piccina, mi sembra veramente “scalzo”, rispetto alle enormità politiche che deve affrontare come leader politico della maggiore potenza economica europea. Scarso dialogicamente, scarso come presa sui problemi, incerto e debole nelle scelte che spesso rinvia o rende confuse. Comprendo bene che il “capo-della-Germania” abbia qualche problema storico-politico-psicologico quando si entra su temi militari, e in particolare quando si potrebbe trattare di inviare all’Ucraina, affinché possa difendersi meglio dall’aggressione russa, i potentissimi carri armati Leopard 2, il cui nome echeggia quello del grande e bellissimo felino africano. Dietro questi pensieri viene alla mente un altro nome, quello dei Tigre (questa volta il riferimento è al più grande e forte felino del mondo) al comando del Feldmaresciallo Von Manstein, che nel 1941 sbaragliarono l’Armata Rossa arrivando fino a trenta chilometri da Mosca, fino a Leningrado e a Sud fino a Stalingrado sul Volga.

Poi, sappiamo che furono respinti e sconfitti da Stalin a Est e dagli Alleati a Ovest.

Di Meloni dico questo: qualche mese fa auspicavo che non vincesse le elezioni, dopo che l’inqualificabile Conte aveva fatto cadere il Governo Draghi, sperando che si creassero le condizioni per un prosieguo di quel Governo, di fronte ai problemi che nel frattempo erano sorti, a partire dal 24 Febbraio 2022, il giorno in cui il folle cinismo putiniano aveva scatenato l’aggressione contro l’Ucraina, Europa. Nonostante anche la Russia sia “Europa” fino al midollo, pur essendo immersa nelle vastità sarmatiche dell’Asia.

In quattro mesi la donna politica destrorsa ha lavorato come poteva, cercando di tenere a bada i due alleati che si è ritrovata al fianco, e che spesso si muovono più a suo danno, che sorreggendola. Fermandomi a giudicare la politica di questo Governo di destra-centro, osservo senza alcuna esitazione che questa donna giovane, neanche laureata, una underdog, come lei stessa si è definita con un po’ di malizioso e un po’ snobistico understatement, è molto più capace di quello che si poteva pensare e soprattutto è preferibile, come comportamenti e atti, ai suoi due qui non citati (non occorre farlo) alleati. In altre parole, se la sta cavando abbastanza, anche quando i suoi le fanno sgradevoli scherzi (per modo di dire) come quello del signor Donzelli in Parlamento sul “caso Cospito”. Aggiungo, di giornata, che Meloni deve anche affrontare le conseguenze non di poco conto di ciò che il suo sodale Berlusconi ha ripreso a dire nelle ultime ore/ giorni circa la responsabilità dell’aggressione russa all’Ucraina… che Zelensky avrebbe aggredito il Donbass, non che Putin lo avrebbe fatto con l’intera Ucraina mandando i suoi carri armati fino alla periferia di Kijv e bombardando la grande Nazione ucraina fino ai confini moldovi e polacchi. Mi auguro che Tajani e qualche altro di buon senso riescano a moderare il Cav e a consigliargli di fare, finalmente, il nonno a tempo pieno.

Ma debbo, però, volgere lo sguardo anche a sinistra e… Je sui desolé! Come canta Mark Knoplfler senza i suoi Dire Straits.

Non voglio nemmen parlare del 5S che sono poca cosa, culturalmente e politicamente, anche se incontrano l’attenzione di poco meno del 20% degli elettori. Volgo la mia attenzione al PD, cioè al partito che dovrebbe guidare con saggezza l’altra parte della politica e la mia desolazione raggiunge un’acme che non avrei mai previsto. Ora, questo partito sta rinnovando la segreteria, alla quale concorrono due candidati di bandiera, uno dei quali è l’on.le Colonnello dei Dragoni Cuperlo, che rispetto e con il quale mangerei una pizza e farei una riunione cultural-politica, e l’altra è l’on.le De Micheli, che rappresenta il medium demostrationis sillogistico e la quinta essenza della mediocritas (per nulla aurea).

Sono poi scesi in agone (che agonìa!) il signor Stefano Bonaccini e la signora Elly Schlein. Il primo è un classico e solido amministratore emiliano, la seconda è una giovane donna di cui fino a quattro o cinque mesi fa non avevo avuto contezza né notizia. Andrò al Gazebo tra qualche giorno, pagherò i due euro o tre per partecipare, e sceglierò Bonaccini (e qui invito gentilmente i lettori che mi leggono e che si recheranno al gazebo, a fare come me). Sceglierò Bonaccini per le ragioni sopra esposte e non la Schlein perché non ho alcuna ragione per sceglierla, anzi, ho alcune ragioni che ho maturato in queste settimane per non sceglierla: troppo sapientina a fronte di conoscenze scarse e deboli della realtà sociale VERA. Ciò deduco ascoltandola, con un po’ di fatica e non malcelato fastidio.

Ho già scritto che lei avrà incontrato in tutta la sua vita meno imprenditori e lavoratori di quanti ne ho incontrati io in un giorno solo.

Pertanto, per logica consecutio, dovrei candidare me stesso alla Segreteria del PD. Se la cosa fosse plausibile farei un’operazione molto semplice: 1) proporrei di far riconoscere al Partito, oltre ogni plausibile critica e accusa di anacronismo, che nel 1921 a Livorno si fece un ferale errore a sinistra, con inalterato rispetto per Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Amadeo Bordiga, e 2) di chiamare il Partito: “Socialista Democratico”, questo farei.

E subito dopo: 3) proporrei di smetterla con il politicamente corretto, 4) di smetterla con i sospetti verso gli imprenditori “affamatori”, perché non siamo da tempo più nell’Ottocento e neanche nel Primo e nel Secondo dopoguerra, 5) proporrei di abbandonare la possibilità di attuazione pratica del marxismo filosofico-politico (mantenendo ammirazione, stima e rispetto per il Marx economista e sociologo), perché incapace di com-prendere una sana Antropologia filosofica, come si fece in Germania a Bad Godesberg nel 1959, quando la SPD fece altrettanto e governò quella grande Entità di popolo, nazione, cultura, lingua ed economia che è la Germania.

6) Proporrei di semplificare molte leggi, 7) proporrei di dividere le carriere in magistratura tra procuratori e giudici, 8) proporrei di attuare l’art. 27 della Costituzione rivedendo l’ergastolo come pena assoluta, per riuscire a distinguere caso per caso, e poter assumere decisioni proporzionate a ogni caso, là dove la resipiscenza possa essere strumento moralmente pratico per un reinserimento sociale di chi ha commesso anche gravi reati/ peccati… E molto altro, in questo senso.

Questo farei se la sorte, il destino, la vita mi avessero portato alla candidatura alla segreteria di ciò che resta della tradizione progressista della Storia italiana dell’ultimo secolo.

Male e Bene in TV: a) mega stupidaggini e stupidità televisive fino al nihil universale della influencer regina, da un lato; b) il nobile giovane volto del dottor, tenente e compagno Cesare Battisti, dall’altro

Ogni volta che mi pongo all’ascolto di qualche tg comincio a inorridire ancora prima che inizino a parlare, già in attesa di errori e mezzi sproloqui. Refusi sostanziali e formali, di pronunzia, per toni e timbri sbagliati o sgradevoli: almeno una metà dei “lettori/ lettrici” di notizie (sono giornalisti/e costoro?) non è all’altezza. Qualcuno è addirittura nelle condizioni oggettive di dover fare, per deontologia professionale, un corso breve pratico di respirazione e dizione. Tra costoro ho in mente un “lettore” del tg2 delle 20.30, più “cagionevole” di altri, che per caritas paolina non citerò per nome.

Ricordo, di contro, le meravigliose dizioni della tv a canale unico e in bianco e nero, e la chiarezza espositiva, degli Ottavio Di Lorenzo, dei Gianni Bisiach, dei Demetrio Volcic, dei Ruggero Orlando e dei Piergiorgio Branzi, tra altre decine di valorosi professionisti della notizia comunicata. Persone che facevano il concorso Rai, lo vincevano ed entravano nei ranghi, al massimo dotati di diploma di scuola superiore. Fino agli anni settanta del secolo scorso i giornalisti laureati in Rai erano pochissimi. Oggi sono tutti laureati e, nonostante ciò (ma sappiamo che un diploma di laurea non è sufficiente ad attestare una buona cultura e una conseguente proporzionata professionalità), si mostrano spesso come spiego sopra, nel loro lavoro.

I commenti televisivi alla stampa quotidiana sono spesso faziosi e schierati, e non tra-le-righe (come una certa qual eleganza vorrebbe), ma in tutta evidenza, quasi a far pensare che il commentatore possa essere pilotato… Sono ingenuo?

Poi vi sono degli animatori o conduttori o mezzi-comici (più “mezzi” che comici) come Fiorello, che non capisco come faccia a piacere, se non interpellando la campana di Gauss che mi ricorda dell’80% dei tipi umani che sono utenti delle tv.

amenità in tv

Vi sono poi gli immarcescibili, incapaci di smettere, come Morandi “capelli tinti” e Vanoni rifattona. Uno di costoro, anche se immensamente meritevole per la sua capacità divulgativa, fino alla sua dipartita, è stato Piero Angela. Anànke stènai, insegnava Aristotele: bisogna sapersi fermare. In tempo. Appunto. In quel caso non è stato il caso.

Ha evidenza immensa la regina delle influencer italiane, Chiara Ferragni, che miseramente sfarfalleggia sulla scala festivaliera sanremese che fu di Wanda Osiris, capace di ben altre e più rarefatte eleganze.

Cito solo, per la loro sgradevolezza e inopportuna militanza, le Littizzetto e le Gruber, così come qualche colto (colto?) ingannatori à là prof Orsini. E non confondiamolo con il prof Orsina, di tutt’altra tempra.

Di politici tipo Conte ho già scritto fin troppo e non mi ripeto. Mi auto-annoierei.

E poi i detti e gli scritti giornalistici. L’ultimo, ancora “apocalisse” per descrivere il terribile catastrofico terremoto anatolico-siriaco-caucasico di questo febbraio 2023. Non ce la fanno a non-scrivere “apocalisse”, che non significa disastro o catastrofe o ecatombe (lett.te “Strage dei cento buoi”, evidente metafora), ma significa “rivelazione”. Rivelazione di cosa, il terremoto? Dei movimenti della terra, irresistibili e imprevedibili? Cui l’uomo (in questo caso Erdogan) presta la sua insipienza e incultura e inciviltà costruttiva.

Per rifarmi l’anima , sollecitato da un bel servizio dato su Rai Storia, propongo un breve racconto mio della vicenda di Cesare Battisti (Trento 1875-1916), italiano, irredentista moderato, autonomista, studioso di diritto e di geografia, tenente degli Alpini, compagno socialista riformista. Impiccato con un ghigno soddisfatto dal boia imperiale Josef Lang, venuto appositamente da Vienna, dopo 48 ore dall’arresto in divisa di tenente degli Alpini sul Monte Corno (ora Monte Corno-Battisti) nel massiccio del Pasubio. Ex Deputato a Vienna e nella Dieta provinciale di Trento. Involontario omonimo di un criminale.

Cesare Battisti (1875-1916)

Colpisce vedere la foto di un Battisti giovane tra altri giovani liberali, socialisti e cattolici verso la fine dell’800, che manifestano a Innsbruck, capoluogo del Tirolo, per ottenere dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria una Facoltà di Giurisprudenza in Lingua italiana. Tra le file si riconoscono Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, che poi furono arrestati e fecero qualche giorno di carcere per manifestazione non autorizzata.

Colpisce ascoltare la lettura di una lettera che Battisti, direttore del quotidiano trentino Il Popolo, scriveva al “compagno” Mussolini che nel 1909 si trovava a Trento, come giornalista del Giornale del Lavoratore. Gli chiedeva se conoscesse qualche giovane bravo e motivato politicamente per aiutarlo nel giornale da lui diretto.

Colpiscono queste due situazioni, la prima con colui che sarebbe stato il principale ricostruttore dell’Italia post fascista (De Gasperi), la seconda con colui che l’Italia aveva distrutto (Mussolini). La Storia. I suoi paradossi e le scelte che portano ciascun essere umano a stare da una parte o dall’altra. Ci si chiede come mai le strade dei due socialisti si divisero radicalmente, mentre le strade di Battisti e di De Gasperi, sia pure in modo diacronico, si sarebbero ritrovate nell’Italia democratica e repubblicana.

Qualcosa su Cesare Battisti, sulla sua figura. Sulla parte migliore di questa nostra Patria Italia.

Sull’attuale gravissima “crisi-del-pensiero-critico” e della qualità del dibattito politico: il “caso Cospito”. Alcune riflessioni sull’Anarchia, sullo “Stato di Diritto”, sull’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana e sul carcere

Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).

Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.

Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).

Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza +
ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).

Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?


François-Marie Arouet – Voltaire

Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).

Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismo rivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.

Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.

Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.

Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.

L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.

Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.

A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.

Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).

La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.

Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.

La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.

E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.

Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.

Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.

Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.

Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.

Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.

In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.

A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.

Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.

Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…

Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.

Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!

Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.

E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.

L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.

Incomprensibili piaggerie o forme di sostegno para-simil-“massonico”? O altro che non capisco?

Mi chiedo, gentile lettore, la ragione (se vi è una ragione) per cui in questi giorni i cronisti radiotelevisivi, quando raccontano degli attentati anarchici alle auto delle Ambasciate e ai Consolati italiani di Berlino e Barcellona, citando il prodromo dell’attentato all’auto della Consigliera d’ambasciata italiana ad Atene dottoressa Susanna Schlein, debbano sempre aggiungere “la sorella di Elly Schlein“.

il prof. Emanuele Severino

Provo a immaginarne il (o i) perché: a) la signora Elly è già famosa, mentre sua sorella no, e quindi per focalizzare la seconda si cita la prima. Obiezione: per quale ragione c’è bisogno di citare la prima se il fatto riguarda la seconda? b) forse che, se si cita la politica, il fatto che riguarda la funzionaria assume una valenza più grave? Obiezione: mi sembrerebbe, sia strano, sia inopportuno, perché ogni fatto ha una sua consistenza oggettiva sotto il profilo giuridico-penale. c) forse che, in vista, di una sempre maggiore esposizione mediatica della politica Elly, ove fosse eletta Segretario (a?) del PD (Dio non lo voglia!), il fatto di averla abbondantemente citata nel periodo precedente al Congresso fa “prendere punti” verso una figura potenzialmente importante, a futura memoria per la carriera del cronista? Obiezione: che squallido arrivismo, e oltremodo miope, da parte degli addetti ai media. d) forse che qualche suggeritore un pochino occulto consiglia a una parte degli addetti alla comunicazione di citare citare citare (repetita juvant, come insegnavano i saggi latini) la Schlein politica, per qualche ragione non del tutto trasparente? Auto-obiezione: dietrologie mie… forse.

Certo è che mi infastidisce parecchio sentire la cantilena “(omissis) come successo ad Atene alla sorella di bla bla...” Come se la sorella, peraltro la maggiore tra le due, vivesse di luce riflessa, una luce, peraltro, tutta ancora da mostrare, se c’è.

La buona metafisica insegna, da Aristotele ad Emanuele Severino, che vi sono due modi di apparire-all’essere: vi è a) un apparire dell’apparire senza essere, e vi è b) un apparire dell’essere. Non è vero che il contrasto logico-metafisico è tra “apparire” ed “essere”, ma tra i due modi prima esposti.

Per ogni ente-che-è (il soggetto) vi deve essere-un-apparire. Ma bisogna che vi sia l’ente, peraltro provvisto di un’essenza, in questo caso “politica”. Che nel caso, a mio avviso, è ancora tutta da mostrare, oltre le banali amenità che ho finora sentito dire dalla candidata alla Segreteria del PD. Con buona pace della su citata politica, poiché – secondo Severino – nella realtà gli enti sub forma essentium (cioè, gli enti sotto forma di essenti) che una volta appaiono alla realtà sono… eterni, e quindi vi è nientemeno che l’eternità davanti alla aspirante segretaria.

Per il grande filosofo, docente storico a Ca’ Foscari, il participio presente del verbo essere – ente/ essente – rappresenta la forma dell’eternità di ciò che anche solo una volta si manifesta (phàinetai) alla realtà.

Tornando ai media, potrei citare innumerevoli casi nei quali si evidenzia una piaggeria insopportabile nei confronti dei potenti di turno, che tornano immediatamente nell’oblio non appena il loro potere cala o svanisce, oppure qualcosa d’altro, che non capisco bene che cosa sia. Ho memoria dell’appartenenza di persone come il giornalista intrattenitore tv Maurizio Costanzo (poi pentitosi) alla P2, e di altre persone della comunicazione stampata o radiotelevisiva.

Io stesso ho sperimentato la piaggeria di molti quando mi sono trovato in evidenti posizioni di potere, come la responsabilità di un soggetto socio-politico o un’elevata posizione aziendale. Il meccanismo è sempre stato questo: a) non sei nessuno, perché non appari in tv, e nessuno ti bada; b) cominci a essere-qualcuno perché la tua figura comincia ad apparire (ecco il solito apparire!) in tv, e parecchi cominciano a salutarti con sempre maggiore deferenza, man mano che la tua presenza mediatica cresce; c) sei sempre più presente sui media, e allora in molti ti cercano per un favore o anche solo per farsi vedere con te in qualche locale centrale della città a bere un bicchiere di vino; d) le tue presenze mediatiche calano fino a scomparire e quelli che ti cercavano e ti salutavano per primi, fanno a volte finta di non averti visto per strada, perché non sei più utile.

Eppure tu sei sempre lo stesso. A me è capitato almeno tre volte di salire e scendere la “scala” della notorietà (e di un potere dato) in ambienti differenti (politica, economia, cultura) osservando i fenomeni sopra descritti. Ora sono stabile in una buona posizione.

Provo una gran pena per chi ti giudica dal tuo apparire, senza curarsi che il tuo apparire sia un apparire dell’essere quello che sei.

Carisma e leadership. Lo sviluppo del “potenziale” di una persona dalla “latenza” all’evidenza e all’efficienza/ efficacia dell’agire

Dal punto di vista psicologico si considera il potenziale come “l’insieme delle energie, delle capacità e delle attitudini presenti in un individuo, ma che non sono richieste dalla posizione che egli al momento ricopre”; dal punto di vista organizzativo il potenziale rappresenta “il confronto tra le caratteristiche proprie di un individuo e le caratteristiche richieste per ricoprire al meglio una posizione o comunque per offrire all’organizzazione il massimo apporto in termini di crescita del valore della stessa”;
dal punto di vista culturale il potenziale può essere considerato come “il confronto tra la cultura dell’organizzazione, intesa come sistema di valori, di modalità comunicazionali e di schemi di riferimento comportamentali , e la cultura dell’individuo”.

(Questa definizione si trova nell’Enciclopedia Treccani)

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Max Weber Max Weber 21.04.1864-14.06.1920+ Sociologist, socio-political advocate, Germany – around 1917 (Photo by Archiv Gerstenberg/ullstein bild via Getty Images)

Max Weber è stato un illustre sociologo e filosofo tedesco, le cui teorie sono la base di molte ricerche socio-organizzative contemporanee. Luigino Bruni propone alcune idee interessanti sui temi del titolo, per cui le utilizzerò.

“La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati leadership sono in realtà molto antiche.” (L. Bruni)

Temi, questi, presenti fino dalle opere dei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber,

Le dottrine economiche hanno più che altro utilizzato questi studi senza ritenerli molto strategici, ma le cose stanno cambiando. Sempre più nelle strutture economiche organizzate, a partire dalle imprese, specialmente quelle industriali, si discute di “capacità di conduzione e di motivazione delle persone”, espressione sintetizzabile con il termine leadership.

Si riscoprono anche autori come Vilfredo Pareto, che ha scritto molto sulle ideologie che “producono” i leader, salvo poi farli decadere (lui aveva presenti quelli della prima metà del XX secolo, esempi spesso deleteri). Lo sviluppo delle scienze sociologiche e del management hanno permesso di comprendere – sulle linee disegnate da Weber e Pareto – anche le varianti, che sono sempre degli sviluppi delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere, aspetti necessari (che-non-cessano) della convivenza umana presenti fin dall’antichità, ancora prima della stanzializzazione dei nomadi primevi provenienti dal Rift africano e diretti verso la Mezzaluna fertile.

Si fanno corsi e si pubblicano libri, spesso nella forma banalizzata dell’instant book, molto promosso per gli utenti viaggiatori (spesso figure di manager aziendali) nelle grandi stazioni ferroviari e negli aeroporti. Titoli come “Diventare leader in 36 ore”, oppure “Il management in 24 ore” contengono sproloqui ingegnerizzati scopiazzati qua e là, o dai testi dei grandi sociologi sopra citati, oppure da maestri di psicologia sociale di scuola americana come quella di Paolo Alto. Anche le facoltà economiche si sono attrezzate per vendere corsi e seminari a costi elevatissimi, del tipo: due fine settimana per il capo o per il Ceo a 4000 euro, dove docenti universitari un po’ scarichi impressionano i capi azienda con brillanti dissertazioni, presenza di testimonial della leadership, come campioni sportivi o anche attori e cantanti, cioè persone che sanno “stare in scena” da protagonisti, non da deuteragonisti, perché essere-secondi non basta. Bisogna essere necessariamente primi.

Vilfredo Pareto

Ma senza i “secondi” una struttura organizzata non va da nessuna parte. Là dove One Man Manages (un uomo solo al comando, come Fausto Coppi) occorrono anche le seconde linee per mandare avanti il lavoro quotidiano, per gestire i gruppi di lavoro, spesso organizzati come insegnava san Benedetto con la sua Santa Regola (magari senza che costoro lo sappiano).

Qualcosa di diverso sta comparendo, però, anche nelle business school, nelle facoltà di ingegneria, di economia e di scienze umane: l’esigenza di recuperare, oltre alla frequentazione delle teorie psicologiche contemporanee, i pensieri classici sull’uomo, quelli dell’antropologia filosofia, della filosofia morale e perfino quelli teologici. E ciò accade anche nelle aziende. Gruppi di ingegneri e di controller finanziari ascoltano con interesse ciò che pensava dell’uomo Aristotele, o il sistema di vizi&virtù di sant’Agostino, di san Gregorio Magno e di san Benedetto, o ciò che serva per la scelta buona secondo Kant, declinando la libertà come un dover-essere per un dover-fare, motivando e gestendo altre persone.

C’è, però, un problema nell’impostazione di questi corsi, quando ancora non si rivolgano ai saperi classici: la divisione rigida tra leader e follower, tra capi e seguaci, o gregari. Mi spiego meglio: appena sopra ho rilevato l’importanza dei gruppi di preposti che stanno attorno al leader, mentre qui sto criticando il sistema leader/follower.

La ragione sta nel fatto che, in mancanza di una fondazione antropologica chiara, il rischio di trasmettere in questo modo e sistema messaggi demotivanti, è grande. Scrivere nella pubblicità di questi corsi semplicemente questo: “il corso si rivolge a manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader“. Per cui, il messaggio sotteso è che se non riesci a diventare leader sei un po’ un fallito.

L’antropologia filosofica insegna, invece, che ogni persona possiede ontologicamente una dignità la cui eguaglianza tra tutti è insuperabile e imprescrittibile, perché basata sui tre elementi fondativi di fisicità, psichismo e spiritualità, e di contro spiega come ognuno abbia una propria individuale personalità, che gli consente di essere anche variamente (si capirà dopo l’importanza di questo avverbio di modo nel mio pensiero) leader nella vita e nel lavoro. Di contro, genetica, ambiente ed educazione fanno la singola persona, la costituiscono, la persona che riuscirà ad essere sempre in qualche modo leader nella propria posizione, per creatività e impegno, anche se non sovraordinata ad altri.

Questa nuova visione è anche più adatta a comprendere i cambiamenti che il capitalismo ha generato dal proprio interno, con l’inserimento di giovani, almeno diplomati e sempre più spesso laureati, che non ci stanno a fare solo gli “obbedienti”, ma desiderano contare, essere partecipi, avere una qualità del lavoro più elevata. Si tratta di una cultura che potremmo definire “postatriarcale”, laddove nelle aziende vi sono ancora i “patriarchi”, che a questo punto devono accettare il cambiamento, se desiderano che le loro aziende proseguano oltre la loro carismatica e irripetibile esperienza. Anche il concetto (e virtù benedettina) di obbedienza può e deve cambiare l’attuale accezione contro-intuitiva, recuperando il suo etimo originario, che è il verbale latino ob-audire, cioè ascoltare, mentre e cosicché accanto all’ascolto vi può essere anche un accorgersi-di-qualcosa (dal latino ad corrigendum, vale a dire verso-un-correggersi), per cui l’ascolto permette l’accorgersi e il successivo correggersi.

Se l’esercizio del potere mediante l’autorità riconosciuta dalla tradizione e dalle leggi civilistiche è fuori questione (un padrone c’è sempre, ma è bene che sia “visibile”, non invisibile come nel caso dei “Fondi d’investimento”), affinché l’organizzazione sia più veloce ed efficiente, occorre che le persone si sentano sinceramente coinvolte, senza strappi e fughe avanti o a lato. Nel nuovo contesto anche l’autorità massima di un’azienda, il Ceo, il Direttore generale, il Presidente, l’Amministratore unico, il Titolare, a seconda di come l’azienda è organizzata, deve sapere che il compito suo maggiore più difficile, è la scelta dei collaboratori, e la loro valorizzazione. Gli aspetti gerarchici, che comunque rimangono importanti, saranno così inseriti in un contesto psicologico e morale di collaborazione continua e coinvolgente. Nel mondo delle teorie organizzative anglosassoni, sempre molto importanti, il verbo to involve è tra i più gettonati, anche più di to lead o to manage. Ma senza un’immersione nei citati saperi filosofici classici tutto ciò rischia di restare freddo, sterile e ostile, insopportabile per i caratteri che vogliono esprimere tutto il proprio potenziale aspirando a di più…

I nuovi stili di direzione e comando debbono pertanto tenere conto dei cambiamenti che vengo descrivendo, accettando che il carisma del fondatore/ amministratore/ titolare possa essere condiviso nel tempo anche da chi non appartiene a quella che Giorgio Bocca, ancora negli anni ’70, chiamava “razza padrona”, riferendosi agli Agnelli, ai Pirelli, ai Danieli e ai Cefis, che ora si declina e opera in dimensioni più ridotte e diffuse. Personalmente conosco e opero positivamente con diversi esempi di questo tipo di governance d’impresa, mantenendo la mia autonomia e il mio giudizio. Ed è per questo che vengo apprezzato, e anche se questi Capi azienda sanno di non avere sempre e comunque un consenso da parte mia, mi affidano la responsabilità di presiedere Organismi di vigilanza previsti per Legge.

Aggiungiamo che i carismi, come insegnava san Paolo, molto prima degli studiosi contemporanei, può essere nascosto, latente, e pertanto bisognoso di un “ambiente” consono a portarlo all’evidenza e all’esercizio di una funzione pubblica. Il capo carismatico, lo insegna anche la sociologia classica di un Auguste Comnte, è indispensabile nella fase di avvio e di primo sviluppo di una struttura, sia essa politica, economica o religiosa; nel momento in cui la struttura si auto-sostenta occorrono altre figure, ed è necessario creare le condizioni perché altri carismi emergano e si mettano a disposizione.

Riporto qui ancora, per discuterne, alcune tesi e giudizi sulla leadership moderna del filosofo Luigino Bruni: “(omissis) Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché quella di oggi è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima volta che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.”

Do ragione a Bruni se penso alle leadership della politica italiana attuale, nella quale leader mediocri come Conte e Salvini si circondano di cantori follower, capaci solo di recitare come in una filodrammatica di paese la lezioncina imposta dall’alto (se è qualcosa di “alto” il loro leader). Potrei fare dei nomi, ma la pena per loro mi trattiene. Do, invece, torto, a Bruni, se penso ai fenomeni che stanno avvenendo nelle aziende, che forse lo studioso non conosce molto direttamente: nei luoghi dell’economia funziona in modo diverso che nella politica, ed è possibile, colà, vedere emergere persone che possiedono veri meriti.

E’ quasi impossibile che un carismatico padrone affidi a degli incapaci poteri e responsabilità, pena un rischio mortale per la propria azienda. Con ciò non voglio dire che tutti i i dirigenti e preposti siano figure di specchiata virtù e buon potenziale, ma che se non valgono quasi sempre (dico “quasi”), vengono smascherati e spostati dal ruolo. O espulsi dal sistema.

Ciò che si può dire è che le leadership attuali sono molto meno influenzate dal modello del leader carismatico-profetico, che riusciva a incantare le masse, perché era un medium tra esse o addirittura peggiore di esse. Si pensi ai carismi assassini dei responsabili delle tragedie del ‘900, che hanno ancora imitatori pericolosissimi, ma non della stessa micidiale caratura (speriamo).

Ancora, proprio per ragioni dialogiche, riporto un passo di Luigino Bruni: “I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.

La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.

(omissis) È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).

Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.” (Fine testo di Bruni)

Sono in parte d’accordo con Bruni quando propone il contrasto tra i termini vincenti e perdenti, specie se nella comune vulgata i perdenti sono trattati con disprezzo, e mette in questione il termine successo, quando questo termine smette del tutto di essere il participio passato del verbo succedere e costituisce meramente l’unica linea guida di una vita… ché poi basta una malattia o un rovescio inaspettato per far crollare tutto l’impianto di superbiosa grandezza di una persona-di-successo.

Non sono d’accordo con lui quando critica in modo un po’ indifferenziato le “scuole di leadership” aziendali, perché anche tra queste bisogna distinguere, come ho cercato di fare supra.

Infatti, se proponendo degli studi seminariali sulla leadership in azienda, la si imposta partendo da una sana antropologia filosofica e da un’etica ben declinata, dove si sintetizzano diritti e doveri, rispetto delle persone e perseguimento del business, si fa un’operazione utile, opportuna, necessaria e, direi, perfino, obbligatoria, se si vogliono, da un lato evitare le storture paventate da Luigino Bruni, e dall’altro dare valore al contributo diverso e sempre più colto e professionale delle giovani generazioni che si affacciano al lavoro.

La differenza tra me e Bruni è questa: lui svolge delle valorose ricerche accademiche per un tempo superiore al mio; io faccio quasi altrettanto, ma ben immerso nella realtà effettuale delle aziende e del mondo economico.

Le mie sono Teoria e Prassi utilmente in relazione, che sono sempre disponibile a condividere, come peraltro sto facendo con la Facoltà teologica cui afferisco, e con gli altri soggetti formativi, accademici e aziendali, con i quali collaboro.

Gli imbrattatori (illi illaeque qui virtuose docendi populo credunt)

Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.

Babbei e babbee

Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.

Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.

Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.

Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.

Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.

Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.

Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.

Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?

Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.

Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.

Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.

Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.

Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.

Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.

Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.

I “partigiani della pace”, brutta e scadente categoria antropologica

Fu Stalin il loro primo mèntore, trovando seguaci in tutto il mondo occidentale, tra cattolici e laici, protestanti e a-tei. Furbo, volpino, Giuseppe Stalin, ovvero Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), il Georgiano. Come Lavrentj Berija.

Stalin, il partigiano per la pace (figuriamoci!)

I nuovi furbi-ingenui- falsi pacifisti sono i Moni Ovadia, che scrive al presentatore Amadeus, chiedendogli di impedire la trasmissione di un video di Zelenski durante il prossimo festival di Sanremo, in compagnia di Salvini, Gasparri e qualche altro, trasversalmente ai partiti, l’oramai obsoleto prof (e de che?) Orsini, le Littizzetto, i Santoro, i Travaglio, i Conte, del giornalismo e dello spettacolo, e della politica come furbo avanspettacolo (senza offesa per il geniale modus theatralis popularis). Faccio notare che a Sanremo spesso la vita “vera” ha fatto una giusta intrusione tra lustrini e paillettes! Tutti costoro sono, obiettivamente, seguaci di Stalin, anche se non lo vogliono.

l ritratto più conciso e impietoso del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”.

La colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, sotto sotto (neppur tanto), del capitalismo come negazione della libertà nella giustizia, che sono le vere premesse per una pace onesta. 

Perché costoro non vanno ad abitare nella Russia putiniana se tanto gli piace?

Li definisco “orrendi” perché in loro si sintetizza tutto ciò che di falso e di fuorviante appartiene all’attuale trista stagione della disinformazione, comunque generata, o da ignorantia vulgaris, o da insipientia intellecti, oppure da deiectio animae. Brutti.

Sono come una deiezione logica del pensiero razionale, come ciò che esita dall’alimento animale e contribuisce alla fertilizzazione del campo da arare e seminare, ma velenoso. Sono brutti perché malvagi e impuri di cuore.

Come si fa a dire che il Presidente dell’Ucraina è solo un guitto che ha trovato la sua occasione della vita?

Si vergognino! Nel mio piccolo farò, finché avrò la forza per farlo, di tutto per smascherarli.

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