Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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“Dante è di destra”: la enorme stupidaggine detta dal Ministro “della cultura” Gennaro Sangiuliano

Sinceramente non mi aspettavo da questo abile giornalista una defaillance così grave e altrettanto ridicola.

Giovanni Verga

Apprendiamo che il Ministro, a una convenzione del suo partito, Fratelli d’Italia, ha affermato che Dante Alighieri è il “padre” della lingua italiana e anche della Patria. Fin qui nulla di che. Siamo più o meno d’accordo tutti, uomini e donne pensanti e variamente studiosi.

Subito dopo, però, citando un libro che gli è stato regalato, il cui titolo e autore non abbiamo sentito specificare, afferma che “tutti” gli scrittori (non si capisce se si riferisca solo agli italiani o anche a tutti gli scrittori del mondo) “sono (non dice “sarebbero”: eventualmente, con il modo condizionale, avrebbe potuto smorzare un’affermazione così perentoria) di destra“.

L’affermazione ministeriale, oltre ad essere temeraria, è facilmente e altrettanto radicalmente criticabile sotto tre profili almeno: quello storico-politico, quello filosofico-teologico e quello letterario.

IL PROFILO STORICO-POLITICO

Circa il profilo storico, definire Dante come “uomo di destra” è innanzitutto un anacronismo che può comprendere, forse, anche uno studente di terza media di trent’anni fa, e oggi (forse) un liceale. Infatti, la dizione destra/ sinistra si deve far risalire alla Rivoluzione Francese (1789 – anni seguenti e conseguenze più generali): nell’emiciclo della Convenzione repubblicana le varie posizioni politiche si erano collocate in modo chiaramente distinguibile tra chi era più moderato, magari ancora monarchico, e chi invece si riteneva chiaramente repubblicano, democratico e anche proto-socialista. I Vandeani a destra e poi, gradatamente spostandoci, trovavamo le varie fazioni Giacobine, da quelle più moderate di Danton, a quelle più estreme di Robespierre e di Saint-Just. All’estrema sinistra stavano i cosiddetti Montagnardi, paragonabili alla Nuova Sinistra italiana degli anni ’70 del ‘900. Una sorta di Spartachisti o di Zeloti della Rivoluzione.

Negli anni, nei decenni e nei due secoli successivi, la dizione destra/ sinistra prese piede praticamente in tutti i Parlamenti del mondo, da quello più antico, che è la Camera dei Comuni inglese, a quello tunisino della Rivoluzione dei ciclamini del 2011.

Venendo a Dante, se anche volessimo fare una comparazione gadameriana (cioè ispirati dal filosofo Hans Georg Gadamer, che significa metterci nei panni dei suoi contemporanei con la mentalità e le nozioni nostre attuali), non potremmo – onestamente – definirlo “di destra”. Dante Alighieri è stato un uomo politico fiorentino in pieno Medioevo, ai tempi delle aspre lotte fra Papato e Imperatore del Sacro Romano Impero, e anche un buon cattolico, rispettoso della Chiesa, della Tradizione cattolica e del papato romano. Non dimentichiamo che svolse severi studi teologico-filosofici, sia presso i Padri Domenicani di Santa Maria Novella, sia presso i Padri Francescani di Santa Croce.

Epperò, in tutta la sua vita, fino ad essere condannato a morte in contumacia dagli avversari politici di Firenze, lottò, sia con la scrittura (si legga il De Monarchia), sia con l’attività politica, affinché il potere religioso-papale fosse distinto e distante dal potere politico. Pur essendo un “Guelfo” (vale a dire un cattolico militante), Dante sostenne con chiarezza che il Papa avrebbe dovuto occuparsi delle “cose spirituali”, non di quelle “terrene”. E pagò duramente, fino alla sua morte in esilio a Ravenna.

Continuiamo pure sulla dizione sangiulianesca: se volessimo oggi dare una patente politica al Poeta, dovremmo cercare piuttosto una comparazione verso il “centro politico cristiano/ laico”. Dante avrebbe potuto essere un democristiano moroteo, o un repubblicano lamalfiano, e perfino un socialdemocratico saragattiano, che è la stessa appartenenza che attribuirei a Tommaso d’Aquino.

IL PROFILO FILOSOFICO-TEOLOGICO

Sotto questo profilo, è assurdo dare del “destro” a Dante, poiché la sua visione etico politica era improntata in maniera fortissima all’Etica aristotelico-tommasiana, che sosteneva con chiarezza come i sovrani, o comunque i detentori del potere, non potessero fare-cio-che-volevano senza controlli di leggi o di assemblee, certamente non come quelle democratiche attuali, ma sempre in grado di contemperare i vari diritti e doveri, coniugando i poteri con le esigenze del popolo. Dante, come amministratore fiorentino, ebbe molto a cuore le esigenze del popolo, degli artigiani e delle varie categorie sociali, senza mai mettersi prono davanti al potere del tempo.

Anche sotto il profilo dell’etica della vita umana, Dante sosteneva l’esigenza di leggi rispettose della persona, a qualsiasi classe appartenesse, nel rispetto delle leggi e dei costumi del tempo, senza mostrarsi mai bigotto o estremista.

Come si fa, pertanto, a dire che Dante fu l’alfiere della “destra”, quando la destra, storicamente, in Italia e altrove, è non solo costituita da persone maturate come Meloni, ma anche da Hitler, da Mussolini, da Franco, da Salazar, e oggi da Putin e dai governanti di certe nazioni islamiche, che ai tempi del nazismo ad esso erano addirittura alleati?

IL PROFILO POETICO-LETTERARIO

Chiedo, digrazia, al signor Ministro: dove sta il destrismo di Dante? Nell’etica che traspare dal sistema di premi e punizioni presente nel gigantesco affresco della Commedia? E’ forse di destra giudicare “politicamente” le scelte dantesche sulla collocazione all’Inferno, nel Purgatorio e in Paradiso degli innumerevoli personaggi da lui citati e ivi collocati?

Tra i moltissimi esempi che si potrebbero fare, ne scelgo uno, presente nel Canto V dell’Inferno, la storia di Paolo e Francesca. Dove sta la cultura di destra in un episodio che contiene, invece, oltre all’altissima poeticità del canto d’amore, la forza tremenda della tragedia umana che si consuma nell’ambito dei costumi del tempo… e infine, è di destra l’immensa pietas che il Poeta fa trasparire nel racconto? Cosa c’entrano la destra e la sinistra con gli umani sentimenti?

Pertanto, “dare del destro” a Dante è, non solo anacronistico, falso e inappropriato, ma perfin ridicolo. Stupido.

Un solo cenno sull’affermazione ministeriale che riguarda gli scrittori che, secondo Sangiuliano, sarebbero tutti di destra. Ferma restando l’analisi storico-politica, che spiega l’anacronismo generale di tale affermazione, potrei fare un elenco sconfinato di scrittori e letterati che di destra non sono, restando, ovviamente nell’ambito degli ultimi due secoli. Vogliamo provare? Sono forse di destra Alessandro Manzoni (che era un possidente cattolico democratico-liberale), Giacomo Leopardi (che era un nobile apertissimo alle novità scientifiche e politiche), Charles Baudelaire, Victor Hugo, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Honorè de Balzac, Charles Dickens, Emile Zola, Gustave Flaubert, Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Boris Parternak, Osip Mandel’stam (che erano antistalinisti, ma non di destra), Leone Tolstoj, Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Gunther Grass, per tacere di centinaia di altri. E anche se volessimo individuare “scrittori (ritenuti) di destra”, potremmo citare Dostoevskij, che però non era di destra, ma era un cristiano russo dell’Ottocento, Giovanni Verga, che però scrisse degli “ultimi”, con efficacia ineguagliata, o Gabriele D’Annunzio, il cui “essere-di-destra” era di un tipo radicalmente diverso dal mussolinismo che lo sopportò, temendolo non poco. E magari anche Solgentsin, la cui “destra” non è mai stata fascista, ma teologico-nazionalista.

Mi auguro che Sangiuliano “si spieghi” e, se lo ritiene opportuno, “si corregga”, perché – da Ministro della Repubblica (e docente universitario) – ha fatto una figura pessima.

Di un “ego” (io) debordante fin nella vanagloria… cosicché, alla fine, chi è il più ricco di quel “cimitero” di tanti ego?

Una specie di “seminario” del lunedì mattina, oramai da anni mi impegna piacevolmente con l’Amministratore delegato di una grande azienda, l’amico dottor G. (non è Giorgio Gaberschek!). Si parla certamente dell’Azienda stessa e delle consociate, ma anche di millanta altri temi, soprattutto di etica e di politica, siccome in quel posto di lavoro presiedo l’Organismo di vigilanza previsto da una legge dello Stato.

Osservando la fine di alcuni esimi personaggi, come il grande calciatore Pelé e Joseph Ratzinger, a fronte di personalità così rilevanti ci si è chiesti se l’ego di quelle persone sia stato importante per la loro affermazione personale. Abbiamo condiviso il sì, ma in un certo senso, perché non risulta che, né il grande campione brasiliano, né il teologo tedesco diventato papa fossero mai stati caratterizzati da notori comportamenti egocentrici o superbi, nonostante avessero raggiunto i massimi livelli nei loro rispettivi “campi”. Pelé è stato quasi l’opposto civile e morale di un Maradona, sempre esagerato e retorico-populista; Ratzinger è stato sempre mite e quasi dimesso, nei tratti del suo modo di essere e di porsi con gli altri. Di Messi non parlo, perché assai mediocre come tipo umano, mentre Cristiano da Madeira mi sarà utile per esemplificare un’ipertrofia dell’ego.

Si tratta del tema dell’ego, dunque, secondo Sigismondo Freud, che lo colloca in una triade che comprende il superego, ovvero la coscienza morale, e lid o es, vale a dire l’inconscio; dell’io secondo René Descartes che ritiene di-essere-cosciente-di-essere-al-mondo e del mondo solamente-in-quanto-lo-pensa, e non in-quanto-esiste anche quando dorme o quando è privo di coscienza, quindi indipendentemente dalla sua (di Descartes) stessa esistenza; dell’io secondo Immanuel Kant, che caratterizza la conoscenza e la limita; dell’io secondo Friedrich Schelling etc., e dell’io secondo la filosofia classica di Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano, Evagrio Pontico, Gregorio Magno, Agostino di Ippona.

Al fine di non scrivere un saggio tremendo e faticoso trattando di ciascuno dei pensatori sopra citati, prendo solo Schelling, il più romantico e soggettivista filosofo dell’Idealismo tedesco ottocentesco, che a me piace molto. Agli altri dedicherò qualche cenno.

Schelling ragiona in questo modo, andando oltre il suo contemporaneo Fichte: l’Io pone il non-Io, ovvero il soggetto (lo spirito) pone l’oggetto (la natura), attraverso un processo, di remota ascendenza neoplatonica, tutto interno all’Io, dal momento che fuori di esso non vi è ancora nulla.

Tuttavia, precisa Schelling, se la natura nasce dallo spirito, significa che la natura ha la stessa essenza dello spirito, ovvero essa è lo spirito stesso che si manifesta in modo diverso.

Per Schelling la natura è spirituale, esattamente come l’io-umano, di cui è prodotto. sottolineando che la natura è un prodotto dell’Io (la cui prerogativa è la spiritualità). Egli afferma che la natura altro non è che spirito pietrificato. La natura, è come una semiretta, il cui punto di partenza è l’Io che pone il non-Io, da cui parte con slancio infinito. La filosofia di Schelling è una Filosofia dello Spirito e della Natura: come in Fichte, vi è l’Io (spirito) che pone il non-Io (natura), verso cui infinitamente tende, fino alle tecno-scienze (mio arbitrario aggiornamento di Schelling, abbiate pazienza, e soprattutto tu, Giorgio, che sei di Schelling uno dei maggiori studiosi italiani). Il professor Giacometti è il mio successore alla Presidenza di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza FIlosofica.

Con l’Idealismo tedesco siamo alla manifestazione massima dell’Io filosofico, dopo di che inizia un periodo di riflessione su questo “io”, fino alla constatazione che la sua centralità può generare pericoli non da poco.

La sua esaltazione porta poi, nei cent’anni successivi alle esagerazioni di tutte le forme di egocentrismo, dal culto del capo, nei fascismi e nello stalinismo, nel dannunzianesimo, nel futurismo e in tutte le teorie e le prassi vitalistiche che hanno posto al centro di tutte le cose del mondo e delle vite individuali l’io umano, etc..

Per quanto riguarda gli autori classici sopra citati si può dire che si riferiscono alle antropologie platoniche e aristoteliche, che prevedono l’apprezzamento dell’io individuale come soggetto agente moralmente responsabile delle azioni libere. Tale visione è però “irrorata” del personalismo evangelico, assente nella filosofia greca, così come sviluppato dagli stessi Padri, e soprattutto da sant’Agostino.

…e dunque l’egoismo, l’egotismo, l’egocentrismo, e perfino l’egolatria, che è una sorta di adorazione dell’io, dell’ego.

Prima di parlare di questo ego, è bene ricordare i vizi connessi a queste modalità di sua “debordanza”: la vanagloria, l’orgoglio spirituale e la superbia, che in modi differenti generano le deformazioni dell’io.

La vanaglòria s. f. [dalla locuzione latina vana gloria «vanteria vuota»]. – Sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui si ambisce la lode per meriti inesistenti o inadeguati; nella teologia morale cattolica è definita come l’immoderato desiderio di manifestare la propria superiorità e di ottenere le lodi degli uomini: peccare di vanagloria.

L’orgoglio è la stima, l’amore disordinato di se stesso, che porta la persona a disprezzare gli altri e attribuire a se stesso quello che è di Dio. 

Nell’Antico Testamento, la prima manifestazione dell’orgoglio umano appare nel tentativo dell’uomo di essere come Dio, presente nella Genesi, nel racconto del peccato originale (cf. Genesi 3,1-13) (cf. Dizionario biblico universale. Pg. 572)

La superbia è la pretesa di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Essi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo.

E’ Caput vitiorum, inizio e fomite di tutti i vizi, poiché il superbo ritiene che, solamente a lui stesso, sia consentita ogni azione, indipendentemente dai riflessi che essa può avere sugli altri. Il superbo è anche presuntuoso e arrogante, e talvolta prepotente fino alla protervia e alla crudeltà. Non mancano una miriade di esempi nella storia umana.

Proviamo a chiederci se conosciamo qualcuno che mostri un ego debordante fino alla vanagloria, in qualsiasi settore della vita umana. Pensando al gioco del calcio, mi/ ci è venuto in mente, tra non pochi altri, Cristiano Ronaldo, che ora va a insegnare calcio in Arabia Saudita pagato cifre inaudite (per noi e la gente comune), ma da lui ritenute forse appena sufficienti per premiare il suo valore auto-percepito.

Il pensiero successivo venutoci è quello relativo al tempo che passa, che quel calciatore sembra non accettare… e subito dopo abbiamo pensato al

cimitèro (antico e poetico cimitèrio, anticamente ceme-tèr[i]o) sostantivo maschile [dal latino tardo coemeterium, greco κοιμητήριον (coimetèrion)«dormitorio, cimitero», derivato di κοιμάω (coimào) «mettere a giacere»]. – Luogo destinato alla […] sepoltura dei morti sia per inumazione sia per tumulazione (detto anche, quando indica i cimiteri dei cristiani, camposanto): i viali, le tombe, la cappella del cimitero; cimitero monumentale, con sepolture costituite in genere da cappelle e monumenti…

Mi pare che a questo punto sia utile un po’ di sano realismo aristotelico-tomista contro la vanagloria dell’io, che non crea il mondo, che esiste senza e nonostante l’io, come insegnano Martin Buber (ebreo austriaco) ed Emmanuel Lévinas (ebreo lituano di formazione francese), con le loro rispettive teorie dell’io e del tu, e del vòlto dell’Altro. L’io e il tu, e il volto dell’Altro sono state le immagini scelte dai due pensatori per sottolineare la fondamentale importanza della Relazione inter-soggettiva per la vita nell’umano consorzio in tutte le sue dimensioni.

Io esisto e sono certamente di-per-me, ma anche in-relazione, caro Cristiano da Madeira.

Altrimenti, se non realizzi questo, tu sarai solo il più ricco del cimitero dove un giorno (questo è sicuro) riposerai.

Avere un figlio è soprattutto un “dono”, non un mero “diritto”, a mio avviso

Prima ancora che si registri lo scontro espressivo e semantico, presente nel dibattito politico e sui media, fra le espressioni genitore 1 e genitore 2 e madre e padre, faccio notare che la differenza radicale tra le due impostazioni giuridiche e burocratiche è eminentemente filosofica, mentre la divisione tra gli schieramenti politici di destra e sinistra è meramente di convenienza politica. E trovo che tutto ciò sia abbastanza assurdo, oltre che culturalmente di poco momento e molto sciatto.

La sinistra ritiene che avere un figlio sia un diritto, mentre la destra su questo non si esprime chiaramente, perché nell’area convivono delle impostazioni, si può dire, ancora quasi clerical-fasciste, assieme a pezzi di buona cultura liberale, talora mischiate in un bailamme non facilmente dipanabile. Gli obblighi delle alleanze mettono spesso vicine persone e gruppi politici tra loro non “intonati”, non componibili e di fatto impossibilitati ad avere una linea politica chiara, coerente e ben distinguibile, tra le altre politiche. Un esempio: si pensi a quanto poco “tenga vicino” la cultura politica di un ministro Nordio, coerentemente liberale nell’anima e nella sua biografia, e quella di un Salvini (se per quest’uomo si può parlare di una qualche “cultura politica”).

Dopo varie vicende normative, ora tornano in vigore nei documenti pubblici le dizioni “naturali” di padre e madre, mentre nel contempo, non v’è dubbio – a mio avviso – si deve confermare pacificamente la legittimità morale e giuridica di famiglie variamente “declinate”, e in sovrappiù sono note e ineludibili le difficoltà burocratiche per coloro che costituiscono famiglie cosiddette “arcobaleno”.

Di fronte a questo “ritorno al passato” nei modelli documentali il mainstream radical chic pare essere desolato, come mostra la sociologa Chiara Saraceno, la quale, o non capisce, o non è interessata alla filosoficità del tema, oltre alla sua dimensione politica e sociologica.

Anche giornalisti in gamba come (e qui mi delude) il bravo Vicaretti di Tg24, quando commenta ironicamente la tesi filosofica di Stefano Zecchi, che è analoga alla mia, e poi propone le riflessioni di Saraceno, condividendole, stanno nel mainstream. Trovo che la deontologia di un commentatore stampa di un canale pubblico dovrebbe astenersi dallo sposare così chiaramente una tesi invece di un’altra. Anche questo signore, che è giovane e bravo, avrebbe forse bisogno di ampliare il suo sguardo giudicante a una visione filosofica del tema “diritto & dono” di un figlio.

Per sostenere che avere un figlio non sia meramente un diritto, bisogna, come sempre, utilizzare la logica filosofica, assieme con le scienze linguistiche della filologia e della semantica, prima ancora di interpellare un’etica generale della vita umana solida.

Che cosa significa la parola “diritto”? Innanzitutto un qualcosa che deve appartenere all’uomo(-donna) per il fatto stesso di essere al mondo. Sto parlando dei diritti fondamentali alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro etc. Immediatamente si coglie la storicità ineliminabile di questi diritti, che sono stati variamente intesi, riconosciuti e praticati nella storia dei popoli del mondo. Ad esempio, anche il diritto alla vita, che per noi occidentali contemporanei sembra (ed è, da noi, fattualmente) fuori discussione, al netto dei crimini e delle guerre, non è sempre stato incontestabile e assoluto, Perfino nella civilissima antica Roma tardo repubblicana o imperiale, ad esempio, gli schiavi erano semplici “oggetti”, la cui morte violenta causata da un cittadino libero, non era nemmeno punibile, se non con una ammenda.

Se allarghiamo lo sguardo ai tempi e ad altri territori, anche mantenendoci nella contemporaneità, questo diritto inalienabile è pienamente in discussione in molti stati e nazioni. Anche qui un esempio: come è garantito il diritto alla vita in un contesto civile di libertà nell’Iran di questi anni? E in Sudan? E in Eritrea? Propongo solo alcuni esempi tra decine di casi e situazioni dove i diritti fondamentali sono, non solo non riconosciuti, ma vilipesi e calpestati.

Bene, se i diritti fondamentali sono un qualcosa di essenziale e di non “contrattabile” o negoziabile, almeno in teoria, tutto ciò che non attiene alla salvaguardia della vita umana, come la venuta o meno al mondo di un figlio, non può configurarsi logicamente come un “diritto” fondamentale, ma come un desiderio, un auspicio, un dono, appunto. Vogliamo chiamarlo un diritto-dono?

In questo caso un’etica della vita umana sana segue la logica.

Inoltre, non è accettabile che la dizioni madre e padre siano considerate “di destra”, perché sono semplicemente dizioni “di natura”.

Burocraticamente, la soluzione è semplice: basta prevedere che sui moduli vi siano le dizioni madre, padre e genitore (1 e/o 2, che possono essere coppie omosessuali, e anche nonni e zii adottanti), e uno barra quello che è (o che si sente, come amano dire i fautori della cultura Lgbt etc., verbalità che non condivido, sia concettualmente, sia per le sue estremizzazioni legislative presenti in molti paesi). Mi dà fastidio anche che su questi temi troviamo fanatismi collocati sulle estreme: da una parte, ad esempio, la legislazione australiana e neozelandese che riconosce circa una ventina di gender, e, dall’altra parte la coppia Putin-Kirill!

Circa l’amore per i figli, quanti bambini abbandonati, poveri, indifesi che si trovano in giro per il mondo chiedono di essere adottati? E qui si può tornare al discorso dell’adozione da parte di coppie omosessuali: per ragioni pedagogiche e socio-culturali non mi piacciono, ma questa mia opinione è anche per me superabile, se si riesce a rendere equilibrata l’educazione di un bimbo/ a adottato in una famiglia di diversa naturalità, se così si può dire senza offendere nessuno.

Infatti, vero è che moltissimi sono cresciuti, e bene, con un solo genitori, con i nonni o con gli zii. Ciò mostra che differenza la fa sempre la qualità della socializzazione e dell’affettività presenti in famiglia, di qualsiasi tipo sia.

Decliniamo allora il concetto di “diritto”, nel caso dei figli, proprio come “dono”, che richiede soprattutto disponibilità di apertura all’altro e di abbandono di ogni forma di egoismo.

I vari tipi di “bastian contrario” e la “piaggeria” o “adulazione”, come suo… contrario. Questo “domenicale”, come ama chiamare i miei pezzi il mio caro amico Pierluigi, è particolarmente dedicato a un altro caro amico, che sta per candidarsi alla carica di Sindaco di Udine, per ragioni facilmente evidenti a chiunque stia un pochino attento alle relazioni umane

Nella mia vita ho conosciuto molte persone del primo tipo e anche persone del secondo tipo. Dico subito che mi danno più fastidio le seconde, perché le prime sono costantemente polemiche e spesso prolisse, ma “debellabili” abbastanza facilmente, mentre le seconde si insinuano con melliflua perseveranza nelle relazioni umane.

Vi sono infinite variazioni sul tema, come negli spartiti musicali: da 1 a 100 uno può essere più o meno “bastian contrario”, oppure “piaggione”.

Brontolo

IL “BASTIAN CONTRARIO”

Spesso i “bastian contrari” sono tali per partito preso più che per ragioni legate a opinioni diverse dalle tue, mentre i laudatores a prescindere, se decidono di non smetterla, ti circondano con una ragnatela di complimenti, che dopo un po’ suonano esagerati.

Nel 1819 Ludovico di Breme scrisse su «Il Conciliatore» n.ro 52, organo di stampa “ufficioso” dei carbonari milanesi: “Ai Signori associati al Conciliatore il compilatore Bastian-Contrario“. Un secolo dopo, più o meno, Alfredo Panzini, nella terza edizione del suo Dizionario moderno, cita l’espressione popolare e dialettale Bastiàn contrari come «detto di persona che contraddice per sistema»; e, a partire dalla settima edizione (del 1935), continua sul tema in questo modo: «Bastiàn cuntrari: pop. detto nelle terre subalpine di persona che contraddice per sistema. Fu in fatti un Bastiano Contrario, malfattore e morto impiccato, il quale solamente in virtù del cognome diede origine al motto».

Si può dunque ammettere che l’espressione risale a circa un paio di secoli fa, e che fu utilizzata primariamente tra il Piemonte e la Lombardia. Anche i vocabolari del dialetto piemontese lo registrano da quei decenni, mentre negli altri dizionari altrettanto non si riscontra.

Il grande linguista Bruno Migliorini ne parla nella sua monografia Dal nome proprio al nome comune (Genève, Olschki, 1927, p. 230). In ogni caso il sintagma bastian contrario (o bastiancontrario) ha circolato nell’uso in italiano ovunque, perdendosi nel più ampio contesto linguistico della nostra lingua nazionale.

Una storia su un certo brigante chiamato Bastian Contrario narra che, su incarico del Duca Carlo Emanuele di Savoia, avrebbe condotto dal 1671 un’azione di disturbo nelle zone di confine con la Repubblica di Genova (ipotesi che valorizza l’origine piemontese); altri studiosi, di contro, propongono che l’espressione si debba far risalire al processo di “fiorentinizzazione” dell’espressione (si pensi alla manzoniana metafora “sciacquare i panni in Arno“, che Don Lisander pronunziò, quando spiegò la ragione per la quale fu in Firenze per un periodo al fine di colà rivedere molto del suo italiano usato per Fermo e Lucia, Renzo e Lucia e infine per I promessi sposi), pensando al pittore fiorentino Bastiano da San Gallo, a causa del suo “peculiare carattere…”.

Un caso di antonomasia, dunque? “Bastian contrario” come sinonimo (quasi) di caparbio o di ottuso…?

LA PIAGGERIA O ADULAZIONE

Vediamo nella Enciclopedia Italiana Treccani: piaggerìa, sostantivo femminile [derivato di piaggiare], letteralmente – Atto, comportamento, o atteggiamento abituale, d’adulazione, di lusinga nei confronti di qualcuno, specialmente al fine di ottenerne favori: era alieno da ogni piaggeria; è sensibile a ogni tipo di piaggeriaha fatto carriera con la piaggeria; si scansò per farlo passarema per un senso di rispetto non per piaggeria.

Etimologia: derivato di piaggiare, lusingare, adulare, derivato da un significato figurato di piaggiare, cioè navigare vicino alla spiaggia, ma anche destreggiarsi, assecondare. La piaggeria non è una semplice lusinga: essa connota un comportamento o un atteggiamento con sfumature lievemente più complesse.

La piaggeria è una lusinga portata avanti in maniera esperta, calcolata – anche se non per questo meno viscida. Si barcamena assecondando la conformazione dell’ego, al modo di un piccolo cabotaggio; non si sbilancia mai, non tocca terra né affronta l’alto mare. Notiamo che è una parola raffinata, che si sente di rado, e non solo perché di rado l’adulazione è accorta, ma perché spesso è semplicemente sconosciuta o nascosta… dall’adulatore. Nell’adulazione si nasconde sempre del veleno verso la persona adulata, questo è certo.

Provo a pensare, senza citarne i nomi ad alcuni “bastian contrari” che conosco. Nessuno di loro lo è proprio del tutto, perché chi mi conosce sa che parlo solo di ciò che conosco bene, non azzardandomi a lanciarmi in giudizi temerari o in ragionamenti improvvisati su temi a me ignoti o per me poco conosciuti.

Pertanto, non è proprio facilissimo contraddirmi, prendendomi, come si dice, “in castagna”. Io parlo solo di ciò che conosco, e di solito lo conosco bene, diciamo “scientificamente”, o almeno come “cultore della materia”. Posso dire che – scientificamente – ho profonda conoscenza di Filosofia, Teologia, Antropologia filosofica, Etica, Sociologia e Politologia; come cultore della materia, anche a livello pratico, di Diritto, Psicologia, Storia, Antropologia culturale, Letteratura e Poesia, Arte e Musicologia. Poco so di Biologia, Fisica, Chimica, Ragioneria, Finanza, Medicina (solo ciò che mi è utile), Ingegneria. Discretamente (quasi a livello buono) di Matematica.

Se intervengo sulle prime sei discipline è difficile che ci si azzardi a contraddirmi frontalmente. E’ ovvio che, da filosofo, accetto, anzi prediligo, il dialogo nel quale altri competenti possono sostenere anche tesi diverse o contrarie alle mie sulle sei discipline del primo gruppo. Sul secondo gruppo di discipline si discute anche animatamente, e accetto tranquillamente di cambiare opinione se ascolto qualcuno che ne ha competenza scientifica, o comunque superiore alla mia.

Se mi capita di intrattenermi su materie del terzo gruppo, ascolto chi sa, con grande rispetto e quasi con devozione. Mi fa a volte arrabbiare che non accada altrettanto quando si parla delle discipline del primo gruppo da parte di persone non competenti.

In generale, però, dialogo anche con “bastian contrari” che sanno della mia ritrosia a parlare di cose-che-non-conosco, e, sulle cose di cui sono esperto, intervengono praticamente solo perché desiderosi di mettere la loro “ciliegina sulla torta”, più o meno. Quindi, hanno l’istinto del “bastian contrario”, ma si fermano prima, senza andare fino in fondo. Li conosco, di solito, e li prevedo, a volte anticipandone l’espressione differenziante con un “Ma tu potresti dire che…“, e allora si continua pacificamente. L’avversativa aiuta il dialogo, in questo caso, mentre a volte lo disturba. Dipende.

In ambito filosofico, qualcuno (intendo il mio successore e attuale Presidente di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica) è molto più bravo di me ad accettare il contraddittorio, qualcuno che ha modi che potremmo definire non solo inclusivi, ma addirittura “ecumenici”. Io spesso non ce la faccio: se sento dire che quando si è giunti a un dato pensiero filosofico storicamente dato, non occorre più quasi guardare indietro ai grandi classici, esplodo dicendo che sul pensiero umano, come attività psico-spirituale, è stato detto quasi tutto dai magni Greci di due millenni e mezzo fa (Platone e Aristotele), aiutati poi dal pensiero medievale (Agostino e Tommaso d’Aquino), e dai filosofi moderni e contemporanei (da Descartes e Leibniz a Kant e Hegel, ma sì anche fino a Heidegger, Husserl, Jaspers e Wittgenstein) e che ora possiamo osservare e considerare solo le integrazioni delle psicologie cliniche e delle delle neuroscienze, che possono clinicamente aggiungere qualcosa, come fece il francese Libet con le sue tesi sull’anticipazione neurale di coscienza (tema che qui non sto ad approfondire, perché lo ho già fatto su questo sito qualche tempo fa), oppure se vogliamo trattare del tema della dissonanza e della consonanza cognitive, che Leon Festinger propose una sessantina di anni fa, per dire che a volte ci auto-inganniamo nel fare ciò che non crediamo positivo o viceversa (anche questo tema ho trattato qui, se pure non specialisticamente, alcuni mesi fa).

Qualcun altro, invece, poco attento alla comunicazione telematica, che rischia di generare lo stracapimento e il fuorviamento significativo e del senso voluto, tende a fare il “bastian contrario”, magari inconsapevolmente, a distanza. Pericoloso, proprio perché, se contraddici qualcuno di persona, questi può replicare, possibilmente con gentilezza, alle tue tesi, ma se usi i potenti mezzi social, perdi espressioni, vocalità, prossemica e fisicità dell’altro, e quindi la strada dell’equivoco e dello stracapimento è aperta. Il resto lo fanno pregiudizi e precomprensioni sbagliate che puoi avere sviluppato sul pensiero dell’altra persona.

Circa i “piaggioni” ne ho ampia conoscenza. Sono più pericolosi dei “bastian contrari”, perché un eccesso di lodi ti indebolisce, mentre la misura giusta ti rinforza. Conosco situazioni nelle quali un eccesso di critiche da parte genitoriale hanno favorito lo sviluppo (purtroppo!) di personalità incerte e poco coraggiose, mentre nel mio caso posso dire di non essere stato mai contrariato dai miei genitori, che mi hanno sempre mostrato fiducia, e io grazie a questa educazione certamente sono stato in grado di scegliere anche percorsi impervi e faticosi nella mia vita e nella mia formazione, credendo fermamente di potercela fare. E ce l’ho fatta, posso dire con umiltà.

Altri, che conosco, no, non ce l’hanno fatta.

A questo punto un’ultima osservazione e un consiglio: tra i “bastian contrari” e i “piaggioni” si trova il maggior numero di esseri umani, come illustra la campana di Gauss (la sua parte centrale), ed è di costoro che bisogna stare particolarmente attenti.

Una situazione esemplare è la seguente: c’è una persona in una posizione di potere; ebbene, molto difficilmente sceglierà qualcuno che possa fargli ombra se questi deve lavorare molto vicino ad essa, nel timore di essere sorpassato in qualità e capacità. L’uomo o la donna di potere si terranno alla larga dai potenziali veri, ma ciò facendo non creeranno un futuro per la struttura che governano, perché la condanneranno al declino. Non aggiungo altro.

Invece segnalo un’altra dinamica: il rischio che corrono quelle stesse persone di potere, quando preferiscono essere circondate da yesmen, piaggioni di professione, a volte untuosi “uria heep”, che sono ben capaci di ingraziarsi il potente, ma solo per le proprie convenienze. Costoro sono poi anche i primi a tradire. C’è un famoso giornalista televisivo e scrittore di instant book che può rappresentare la quintessenza di tale idealtipo weberiano. Caro lettor mio, riesci a indovinare chi intendo con questo accenno?

Queste ultime righe sono dedicate in particolare all’amico che ho citato nel titolo, ma tutto il pezzo è per chi conosco e apprezzo, per chi stimo e a cui voglio bene, m a volte mi permetto, io che non sono né “bastian contrario”, né “piaggione”, di criticare.

E, siccome in greco “critica” significa giudizio razionale, ben vengano le critiche che, in questo caso e modo, sono sempre costruttive.

Auguro un sereno Natale nel ricordo del Rabbi Jesus ben Josef ben Nazaret, che nacque a Betlehem o a Nazareth circa 2022 o 2028 anni fa (secondo la data del censimento ordinato dall’Imperatore Augusto, sotto il Procuratore di Siria e Palestina, Quirinio), di nostro Signore Gesù Cristo, il Vivente.

Que viva Argentina, ma che brutta la vestaglietta di Messi! “Sport-washing” di bassa lega, e che brutti i comportamenti, avuti dopo la conquista del titolo mondiale, del “Dibu” Martinez, portiere argentino dell’Aston Villa, un gran maleducato. Punti persi per la gloriosa Nazionale argentina, cui io tengo, subito dopo l’Italia!

E’ come se fosse “andato a posto” un evento naturale, e perfino razionale, della storia del calcio, che abbia vinto l’Argentina il mondiale di calcio, pure se in… Qatar, cioè in uno dei posti attualmente più sbagliati del mondo, forse battuto nel genere solo dalla Corea del Nord, dall’Iran, dalla Somalia, dalla Libia, dall’Eritrea e compagnia disumana. E naturalmente dalla Russia, che comunque aveva avuto il suo mondiale, (in coabitazione con l’Ucraina!) nel 2018.

Avenida 9 de Julio, Santa Maria de los Buenos Aires

Sono contento che abbia vinto la Albiceleste, in assenza dell’Italia, anche perché l’Argentina è una mezza Italia, a partire da Lionel Messi Cuccittini e da Angel Di Maria, perché ci sono anche Pezzella, Tagliafico, Scaloni, Musso, Rulli, etc.

E perché ha nei suoi “geni” momenti di gioco ammirevole: a volte assomiglia all’Italia e a volte al Brasile nei loro giorni migliori. Dell’Italia ha la ferocia tattica mentre del Brasile ha una parte della sublime arte prestipedatoria (avrebbe detto il magno Gioan Brera fu Carlo).

Sono stato in Argentina a trovare i nostri emigranti qualche decennio fa, e ho parlato friulano a Santa Maria de los Buenos Aires, a Cordoba, a Rosario, a Salta e Colonia Caroja. Mi sono sentito, io già grande, come quando ero bambino, perché l’Argentina è come l’Italia di cinquanta anni fa, o come il Friuli di prima del terremoto, per ricchezza nazionale e per reddito pro capite.

La Francia ha perso perché ha giocato un po’ peggio, soprattutto nel primo tempo, ma non è più debole, forse è vero il contrario. E sul tema calcistico qui mi fermo.

Parlo d’altro: prima dei gesti insulsi, degni del peggior campetto di periferia, da parte del portiere Martinez, che sono parsi squallidini, anzichenò. Ogni tanto emergono in quel tipo di giocatori i peggiori tratti della cultura meridional-ispanica, ma anche italiota, quelli che non sanno dove abiti la lealtà, che pure era insegnata dai filosofi della Magna Grecia, visto che qualche giornalista ha scomodato perfino il paradosso di Achille piè veloce e della tartaruga di Zenone di Elea, per dire che “Achille (Messi) ha finalmente raggiunto la tartaruga (il titolo mondiale)”. Suggerirei a quel giornalista di lasciar perdere i paradossi di Zenone, che non hanno assolutamente il senso elementare che ha voluto intravedere. A ognuno il suo mestiere, come sempre.

Sto parlando dell’hispanidad di quando la grande potenza di Carlo V imperava sui mondi e anche nell’Italia meridionale e a Milano. Penso all’hispanidad del puntiglio di frate Cristoforo giovane che uccide chi non gli dà il passo perché lui è un hidalgo e l’altro è un c.zo qualunque (come disse qualche secolo dopo il marchese del Grillo, Alberti Sordi voce), nel racconto del nostro grande Don Lisander de Milàn.

Non dell’orgoglio di quella cultura che è grande, perché è una declinazione fondamentale della latinità, capace di epiche imprese insieme con dannate vicende coloniali. Ecco: della migliore cultura ispanica mi sembra che Diego Armando Maradona sia un rappresentante inimitabile, magari assieme con don Cristobal Colòn, non a caso un genovese ispanizzato, così come don Diego è stato un argentino napoletanizzato, en el bien y en el mal. Paragoni e paradossi.

Messi non-è-Maradona come uomo. E questo è scontato. Non ha di Diego la sanguigna capacità di appartenenza al popolo e ai capipopolo, come capopolo; Messi è popolare, ma non parla la lingua del popolo; il suo castellano-argentino idiomatico è incerto, la sua voce quasi afona, non esprime concetti percettibili e intelliggibili; fino a questi mondiali non avevo presente il timbro della sua voce, come peraltro di quella di dom Cristiano de Madeira.

La cosa che meno mi è piaciuta di lui, alla consegna del trofeo, è stato l’indossamento prono della orrida vestaglietta da festa nero-trasparente, il così chiamato bisht, che il potente Emiro gli ha porto con autoritaria autorevolezza, in base, pare, alla tradizione saudi-emiratina. Don Diego non l’avrebbe mai accettata, perché l’avrebbe rifiutata con un gesto autorevole senza essere sprezzante, tornando a gioire con la sua maglietta bianca e celeste sporca di fango, perché nel 1986 in Mexico i campi di calcio erano anche fangosi.

A parziale giustificazione di Leo potrei ricordare la seguente parabola matteana 22, 10-14:

(…) 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Ecco, forse Messi ha inconsapevolmente rispettato questo costume vicino-orientale, presente nella Bibbia ed echeggiato nel Corano. Forse… anche perché l’Emiro è anche il suo “datore di lavoro a Paris”.

La Dieci albiceleste per Maradona era come una seconda pelle, come l’azzurra del Napoli Football Club, dove aveva la sua seconda casa del cuore.

Il calcio non è solo un gioco oramai miliardario, che interessa tutti i popoli del mondo, ma è anche un fenomeno da studiare sociologicamente e con gli strumenti della psicologia sociale, dandogli la giusta importanza, per la capacità che ha quel mondo di svelare, non solo gli intrighi qatarini con i loro riflessi brussellesi, ma anche la verità di persone vere, forti, autentiche, come Sinisa Mihajlovic, che Dio l’abbia in gloria.

Esempi, ancorché imperfetti (come è umano che sia), per i giovani.

Un’ultima considerazione per chi ha raccontato il mondiale del Qatar: accanto a narrazioni bellissime e ai riflettori sui diritti umani calpestati in quel luogo e tutt’intorno, anche dalla FIFA (che il signor Infantino si vergogni e con lui Michel Platini, suo predecessore e tutti quelli che hanno “venduto” il mondiale), non dimentico e condanno le esagerazioni cronachistiche e dei commenti. Una per tutte: la vergognosa similitudine di tale signor Gabriele Adani, che ha paragonato le azioni calcistiche di Messi a ciò che viene raccontato nel capitolo secondo del Vangelo secondo Giovanni, dove si narra del miracolo di Cana. Poveretto. Non blasfemo, solo misero.

procedere, precedere, decedere, decidere, recedere, retrocedere, accedere, concedere, incidere, incedere, intercedere, uccidere,… cedere: concetti che stanno dentro il “dialogo”, il “colloquio” e la “conversazione” (che sono tre diversamente utilizzabili modalità comunicazionali e relazionali) tra gli esseri umani… e poi, su un versante diverso: “mettere a terra”, “portare a bordo”, “occorre un cambio di passo”, “quant’altro”, “tanta roba”, metafore modaiole, inefficaci e per me infastidenti, così come l’abusatissimo verbo “implementare” (che mi piace assai poco)

La radice verbale latina “caedere” (tr. tagliare, uccidere, colpire, es. caedere victimas: sacrificare vittime). costituisce il centro di significato e di senso di svariati verbi italiani, che si differenziano per il prefisso diverso: pro, pre, re, de,retro, ad, con, in, inter, uc,… i quali prefissi danno significati profondamente differenti a ciascun verbo.

Tratto di un altro esempio, come quello recentemente commentato in questa sede, dell’ablativo assoluto, che attesta come la lingua latina sia in grado, assolutamente più di altre lingue, di sintetizzare concetti, termini, lemmi, parole, espressioni, magari utilizzando il modo di esprimersi filosofico.

Ad esempio, si pensi alla profonda differenza che si dà in italiano fra i due verbi “decidere”, che significa scegliere, e “decedere”, che è sinonimo di morire. Si tratta comunque di un “tagliare”, “separare”, “dividere”: una scelta o l’altra, la vita e la morte. Un altro esempio: inter-cedere, che letteralmente significa camminare-in-mezzo, metaforicamente assume un significato diverso: intervenire (presso un potente) a favore di qualcun altro. Constatando ciò si può affermare che il latino è un idioma capace di contenere parecchi significati nel medesimo etimo radicale, in modo polisemantico e tale da poter favorire lo sviluppo di una letteratura precisa ed efficace in molti settori, da quella poetica a quella giuridica, da quella storica a quella filosofica.

In latino si potrebbe anche pensare di scrivere di tecno-scienze moderne, in-ventando (cioè “trovando”: si tratta di una derivazione lessicale dal verbo latino invenire) costrutti adeguati. Si pensi alla bicicletta, che ovviamente ai tempi dell’Impero Romano non esisteva, ma che oggi potremmo chiamare “birota”, cioè due-ruote. E si potrebbe continuare.

Accanto a questa duttilità del latino, mi viene da constatare come nella comunicazione contemporanea si indulga spesso in costrutti retorici, come le metafore, che in generale sono molto utili e sinteticamente espressive, ma a volte diventano una moda, che non fa risparmiare energie al parlante, o sono addirittura banali e inefficaci.

Due esempi: trovo che si stia abusando della metafora fattuale “mettere a terra”, volendo dire “realizzare” concretamente un progetto, un’idea, un compito assegnato. Una volta ascoltata alla tv o sul web, uno e poi due e poi tre persone cominciano ad usarla, e il quarto pensa che faccia-figo utilizzarla, per cui la propala geometricamente.

Dopo un po’ di tempo il centesimo utilizzatore (ma anche prima, forse il trentesimo) non si fa più nessuna domanda sull’espressione metaforica e la usa senza alcuno spirito critico, magari decidendo che la si può anche evitare, scegliendo di utilizzare il verbo “realizzare”, cioè “rendere-cosa un’idea”, dalla radice latina “res”, che significa cosa. Si pensi alla res-publica, la repubblica. “Realizzare” in tutte le sue modalità temporali e modali, di cui l’italiano è ricchissimo, come il latino e il greco antico, mentre invece l’inglese ne è largamente privo. Di tali modi, si pensi al rapporto tra modo congiuntivo e modo condizionale nelle frasi ipotetiche e concessive, possiamo proporre esempi innumerevoli. Un esempio: “se tu me ne dessi le possibilità, potrei realizzare questo progetto“; proviamo a “metterla giù” con la metafora di cui sopra: “se tu me ne dessi le possibilità, potrei mettere a terra questo progetto“. Bruttino, no? Oppure vi piace?

Diamo uno sguardo all’altra frase sopra citata, quella del “prendere a bordo”. Invece di proporre questa metafora acquatico-marinaresca, usare il verbo “coinvolgere” è più rapido e anche più elegante. O no? Soprattutto nel lavoro organizzato e gestito delle imprese, il coinvolgimento è il primo motore della partecipazione del lavoratore al progetto aziendale. Il verbo “coinvolgere” (tradotto nell’ottimo verbo inglese to involve), contiene l’etimologia dell’avvolgere, cioè del prendere-dentro, altroché “a bordo”.

“Prendere dentro” è più potente del “prendere a bordo”, o no? Ed è anche più rispettoso intellettualmente e moralmente, poiché interpella la psiche e lo spirito dell’altro senza la direttività di un ordine, che sembra quello del capitano al mozzo sulla nave “da corsa” inglese di Sir Francis Drake o di quella di Walter Raleigh, ambedue corsari di Elisabeth Tudor the First. O no?

Terza metafora, molto amata solitamente dai politici quando vincono le elezioni e devono per forza disprezzare ciò che hanno fatto i predecessori, per cui gli viene bene di dire che “occorre un cambio di passo”, significando che il passo di chi li ha preceduti è stato tardo e lento, e dunque inefficace. Salvo poi non essere diversi da costoro. Diffido sempre da chi usa questo modo di dire, perché non gli credo.

Quarta espressione che mi sento di criticare anche per l’indubbia pigrizia in essa sottesa: “quant’altro”. Politici e persone dei media (pronunzia mèdia, parbleu!) indulgono nell’uso continuo di questo sintagma che significa esattamente… NULLA! Infatti, se tu dici: “Ho provveduto a segnalare questi pericolosi comportamenti, espressioni errate e quant’altro“, che cosa si intende con “quant’altro”? Comportamenti, espressioni? Qualcosa di analogo che attenga all’agire umano? Ma se è così allora è meglio descrivere questi altri aspetti concreti specificandoli, e non lasciando supporre qualsiasi cosa con l’infelice espressione, o no?

Ultimo, fastidiosissimo modo di dire attuale: “tanta roba”, per dire che una cosa è importante, grossa, complicata… E allora si dice “tanta roba”, un’espressione che attesta una enorme pigrizia espressiva. E ciò basti.

Circa l’abusatissimo verbo “implementare” che cosa posso dire? Che mi dà un po’ fastidio anche se lo utilizzo anch’io, appunto, ma con una punta di fastidio quasi inspiegabile. E’ certamente un verbo latino, da impleo, implêre, della seconda coniugazione, che significa “riempire”. Non dovrebbe infastidirmi, dunque, stante la sua storicità e significanza, ma si potrebbe forse utilizzare più armoniosamente un altro verbo il luogo di codesto. Ad esempio: “completare (assieme)”, che ha la stessa radice di “implementare”, ma contiene il più significativo prefisso “con”, che dà il senso di una collaborazione tra più persone.

Vedi, caro lettore, come sia utile riflettere sempre su come parliamo, sulle parole che utilizziamo, sulle frasi con le quali ci esprimiamo, sulla comunicazione che pensiamo di realizzare (non di mettere-a-terra), che è non solo lo strumento comunicazionale che tutti conoscono, ma che è anche “performativo” (cf. Wittgenstein 1922, Habermas 1970, Ocone 2022), cioè trasformativo e possibilmente migliorativo, non solo dei concetti che “significano” cose o espressioni, ma anche della Qualità relazionale. La regola è la seguente: più si cura ciò-che-si-dice, sapendo che non conta tanto ciò-che-si-pensa-di-aver-detto-o-scritto, ma soprattutto ciò-che-l’altro-ha-percepito, e più ci si fa, prima comprendere, e poi capire.

Il come-si-parla è fondamentale. Solo un esempio attualissimo: si pensi ai colpevoli strafalcioni di Giuseppe Conte, quando parla di guerra civile mentre dice di “difendere solo il reddito di cittadinanza”.

Vigilare sui detti, sugli scritti e sul parlato è fondamentale per la difesa della nostra cultura, della nostra economia e anche della nostra democrazia parlamentare.

La riflessione logica, l’ideologia sua nemica e il ballerino di quarta fila

Riflessione significa specchiamento, piegamento del pensiero su sé stesso.

La riflessione può essere superficiale o radicale. A me non interessa quella superficiale che può essere chiamata anche solamente “chiacchiera”, attività aborrita da Martin Heidegger (cf. Sein und Zeit, 1927), di cui è pieno ogni angolo del mondo e delle vite di ciascuno. Personalmente ritengo la chiacchiera una delle attività umane più idiote e sgradevoli, mentre di ben altra caratura morale e utilità sociale è il colloquio o il dialogo rispettoso e civile tra due o più persone!

A me qui interessa particolarmente la riflessione radicale, cioè quella che riguarda la gnoseologia, ovvero la critica della conoscenza, che è strumento indispensabile per analizzare le cose e i fatti nostri e del mondo, al fine di scoprirne realtà e verità (anche se non mai assoluta, ma concreta e locale, salvo che nei principi primi del rispetto assoluto per l’integrità psico-fisica di ogni essere umano).

Le cose spesso non sono come immediatamente appaiono, per cui sarebbe bene ricorrere sempre agli strumenti della logica argomentativa, come il sillogismo di primo tipo, che Aristotele propose duemila e quattrocento anni fa, che ho citato in questo mio sito non meno di alcune diecine di volte. Due esempi, caratterizzati dalle due premesse e dalla conclusione necessaria: a) Socrate è un uomo, b) gli uomini sono mortali, c) Socrate è mortale, oppure: a) l’uomo è razionale, b) chi è razionale è libero, c) l’uomo è libero.

Inconfutabili: vi è un’affermazione iniziale a premessa, vi è una seconda affermazione a rinforzo generale della prima, si dà infine una conclusione che deriva dalla logicità “inespugnabile” del rapporto tra le due premesse. Bene.

Si pensi all’ideologia politica, sia essa di destra sia essa di sinistra. Spesso, per una logica ferrea, entrambe esprimono conclusioni assolutamente illogiche. Attenzione, non le metto sullo stesso piano sotto il profilo etico, ma le comparo solo sotto il profilo logico. Un esempio: come si fa a sostenere che l’uguaglianza (amata dalla sinistra) ha una valenza politica e morale senza difetti? Molti, i più che militano a sinistra, lo fanno. Dimostro che logicamente l’uguaglianza non sta in piedi: a) l’uomo ha diritto all’uguaglianza, b) ogni uomo è diverso da ciascun altro, c) se applico un’uguaglianza tra diversi, sono ingiusto, iniquo…

Come si risolve questa aporia logica? uscendo dalla logica stricto sensu,e applicando le differenziazioni che ci sono suggerite dall’antropologia filosofica realista-personalista, che va da Aristotele fino a Emmanuel Mounier, passando per Tommaso d’Aquino. Anche questa esemplificazione è presente in molti pezzi precedenti e ne tratterò presto in uno specifico testo in via di pubblicazione. Si tratta di distinguere tra “struttura di persona”, che attesta la pari dignità fra tutti gli esseri umani, in base alla compresenza – in tutti – dei tre elementi della fisicità, dello psichismo e della spiritualità, e “struttura di personalità”, che attesta l’irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro, in base alla compresenza di tre altri elementi, la genetica, l’ambiente di crescita della persona e l’educazione avuta.

Proseguendo: se ciò è fondato e quindi è vero, anche il concetto di uguaglianza tipico della sinistra va corretto con il concetto di equità-tra-diversi, nel quale titolo morale si riassume, sia l’irriducibile differenza, sia la pari dignità di ogni persona, e anche, sia un reddito di cittadinanza per chi non può sostentarsi, sia una retribuzione adeguata e differenziata per il merito professionale e la propensione al rischio.

E infine, caro lettore, ti propongo l’esempio del ballerino di quarta fila. Scommetto che lo sapresti riconoscere anche se non lo citassi per nome. E non lo citerò, per noia. Si tratta di un parvenù della politica che fino a quattro anni e mezzo fa nessuno conosceva e che poi è stato imposto dai fatti e dai numeri di una pessima legge elettorale. Il suo piglio è quello del re inaspettato rapidamente (mai troppo, a mio avviso) defenestrato, fatto che non accetta, e allora si arrabatta, peraltro con un certo successo nella parte di pubblico che la “gaussiana” colloca tra chi-non-ci-arriva e chi-ci-arriva-molto, auto-contraddicendosi ogni momento, confidando nella scarsa o nulla memoria di molti Italiani.

Per quanto concerne la logica obbligatoria nella riflessione radicale, questo signore ne è completamente alieno. Lo mostro, con un suo tipico sillogismo implicito (fo’ per ridere): a) la guerra è cattiva, b) gli Italiani fanno la guerra (anche se per interposta nazione), c) gli Italiani sono cattivi (e guerrafondai).

Salvo dimenticarsi di dire che lui è stato fra questi “guerrafondai” fino a qualche decina di giorni fa. Ed era la stessa guerra, che si chiama, scientificamente, in politologia e scienza militare: “aggressione della Federazione russa all’Ucraina”; d’altro canto, in Etica generale e nel Diritto positivo ogni aggressione prevede la giusta e proporzionata reazione, anche armata, per una legittima difesa.

Il rigorosissimo codice morale di Tommaso d’Aquino ammette pacificamente che la persona aggredita, se difendendosi uccide l’aggressore, non è imputabile di omicidio, e per tale reato condannabile a una grave sanzione, perché ha solamente applicato la forza necessaria per impedire di essere ucciso. La morte dell’aggressore, nel caso, si configura come effetto secondo non voluto, per il cui esito non si dà, dunque, alcuna responsabilità morale, né penale. E’ chiaro il concetto logico-morale, allora, cari semplificatori e banalizzatori di un pacismo idiota, delirante e insensato?

Il pacifismo razionale ed eticamente fondato è radicalmente altro: è la ricerca diuturna, con la massima pazienza, di una possibilità di interruzione delle ostilità, prima di tutto, di un armistizio successivamente, e infine di una pace che non sia umiliante per l’aggredito (in altre parole, nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina, evitando un consolidamento dei referendum farlocchi celebrati senza controllo alcuno nelle regioni del Don).

Ci sono degli esempi virtuosi da imitare? Sì, me ne viene in mente uno che ci interessa. Ci ricordiamo degli attentanti degli anni ’50 e ’60 in Alto Adige/ Sud Tyrol effettuati da un nazionalismo germanizzante armato? La soluzione politicamente intelligente e moralmente ineccepibile fu, da parte dell’Italia e dell’Austria, di ri-conoscere agli abitanti di quel territorio caratteristiche particolari con la quali si applicò un bilinguismo tedesco-italiano perfetto nella Pubblica amministrazione, negli obblighi disciplinari scolastici, nell’organizzazione sociale, etc., dando ai parlanti-tedesco gli stessi diritti sociali, politici e culturali degli abitanti del Tirolo Settentrionale facente capo ad Innsbruck, ma all’interno della Repubblica Italiana.

Analogamente si potrebbe proporre per il territori afferenti il fiume Don e la Crimea: rimangano ucraini con caratteristiche prevalenti russe. Se si vuole si può. Un passo indietro Putin e un passo di lato Zelenski. Si tratta, peraltro, di una proposta che venne formulata nel 2014 in un gruppo di lavoro transatlantico composto da Obama, Hollande, Merkel, Cameron e Renzi, ma non gli si diede seguito.

Circa il conflitto provocato dai Russi putiniani in Ucraina attualmente si può solo auspicare e lavorare perché sia fermato immediatamente. Circa la sua genesi remota e prossima, al di là delle incontestabili responsabilità dirette degli attuali capi della Russia, saranno gli storici a dipanarne gli intrecci e gli intrighi.

In questa sede non ho fatto la fatica di riportare anche le illogicità della cultura di destra perché ora non mi interessa affaticarmi anche su quel versante. Mi basterebbe che la Destra dichiarasse, per bocca di Meloni, che il 25 Aprile è anche la loro festa, e il discorso sarebbe chiuso, a mio avviso.

La sinistra avrebbe invece bisogno di riflettere – utilizzando la logica razionale – sui “danni” dell’egualitarismo puro sapendo declinare i termini dell’equità, (in un post precedente ho già in parte approfondito questo tema) come insegna la tradizione del socialismo gradualista e del cristianesimo sociale.

1) “repetita iuvant”, 2) “Caesare imperante”, 3) “obtorto collo”, 4) “his stantibus rebus”, 5) “mutatis mutandis”, ovvero dell’insuperabile sapienza logica e potenza sintetica ed espressiva della lingua latina

Innanzitutto la traduzione delle quattro espressioni latine del titolo: “le cose ripetute giovano“; “sotto il comando di Cesare“;”(lett.te) con il collo storto, ma significando la fatica di accettare una decisione sgradevole“; “essendo le cose così come sono“; “essendo state cambiate le cose che avrebbero dovuto essere cambiate“.

È una costruzione molto comune in latino ed è alternativa al cum + congiuntivo e al participio congiunto: ha funzione di proposizione subordinata temporale, causale, concessiva, ipotetica. .

Contiamo le parole numerando le espressioni: 1) due in latino, quattro in italiano; 2) due in latino, quattro in italiano; 3) due in latino, quattro in italiano, ma sette nel significato demetaforizzato; 4) tre in latino, sei in italiano; 5) due in latino, addirittura dieci in italiano (con la possibilità di ridurle a cinque in questo modo: “cambiate le cose da cambiarsi”, costrutto molto, forse troppo, ellittico, però).

Primo commento: in latino servono esattamente la metà delle parole utilizzate in italiano per dire le medesime cose.

Certamente, tale “risparmio” è particolarmente comodo con l’utilizzo del costrutto grammaticale dell’ablativo assoluto che, con un sintagma composto da un participio verbale e da un nome, basta a rappresentare un’azione o una situazione che si volge nel tempo.

E’ utilizzata anche in luogo di frasi costruite per rappresentare azioni temporali, concessivo-ipotetiche, avversative oppure continuative, che avrebbero necessità di essere espresse con un numero ben maggiore di termini.

In italiano, l’ablativo assoluto può essere reso in forma implicita con il gerundio o il participio, con una proposizione di vario tipo, ma talvolta può essere reso anche con un sostantivo. Alcuni esempi:

diis iuvantibus
me absente
regibus exactis
mortuo Caesare

con l’aiuto degli dei
durante la mia assenza
dopo la cacciata dei re
dopo la morte di Cesare

lett. «aiutandoci gli dei»
lett. «mentre ero io assente»
lett. «cacciati i re»
lett. «morto Cesare»

PARTICOLARITA’

  • Un tipo particolare di ablativo assoluto è quello costituito da due nomi o da un nome (o eventualmente, un pronome) e un aggettivo. In questo caso il participio presente del verbo sum (che non esiste) viene considerato sottinteso. Alcuni esempi:

Cicerone consule
Hannibale duce
diis invitis
caelo sereno
natura duce

sotto il consolato di Cicerone
sotto il comando di Annibale
contro il volere degli dei
a ciel sereno
sotto la guida della natura

lett. «essendo console Cicerone»
lett. «essendo comandante Annibale»
lett. «essendo gli dei contrari»
lett. «essendo il ciel sereno»
lett. «essendo guida la natura»

«Hostibus victis, civibus salvisre placida, pacibus perfectis, bello exstincto, re bene gesta, integro exercitu praesidiisque… (Plauto)»; trad. it. mia: Essendo stati vinti i nemici, salvati i cittadini in una situazione tranquilla, perfezionati gli accordi di pace dopo la fine della guerra come una cosa ben gestita, e infine con l’esercito e i presidii militari salvaguardati…: 16 parole latine vs 38 italiane!

In greco, con funzioni pressoché analoghe, vi è il genitivo assoluto.

Come potremmo negare la potenza sintetica ed espressiva di questi antichi costrutti, che potrebbero giovare – quantomeno nel loro “spirito” – a migliorare le qualità espressive contemporanee, che invece spesso indulgono nella banalizzazione terminologica, nell’uso improprio ed inutile di forestierismi e in cedimenti alla cancel culture della lingua condita di politicamente corretto, come nei casi che qui ho più volte citato, e che non richiamo per evitare di innervosirmi ultra!

C’è un’Italia bella ed “efficiente”, e un’Italia mala e “deficiente”

Non pensi il mio lettore che io sia inopinatamente caduto, nonostante i miei testi e dichiarazioni contrarie, nell’antica eresia manichea, che tormentò il giovane Agostino. No.

Ma la frana di Ischia mi ha indotto a proporre una riflessione apparentemente semplificata. Dico “apparentemente”, perché il titolo potrebbe condurre a pre-comprensioni, giudizi sommari o pregiudizi sulla realtà.

Un breve elenco di bellezze, virtù dianoetiche (direbbe Aristotele) ed efficienze: Delle prime gli Italiani non possono vantare alcun merito, perché si tratta solamente della sorte di essere nati in un territorio, che è il più vario e bello del mondo, per consolidata opinione universale. Lo ammettono perfino i Francesi, e se lo ammettono loro, figurarsi gli altri, dagli Inglesi in poi, fino all’adorazione smisurata dei Giapponesi.

Delle seconde, le virtù dianoetiche, cioè le capacità creative, certamente gli Italiani hanno di che “vantarsi”, anche se con moderazione: non serve qui riportare l’infinito elenco delle creazioni artistiche e dei valori culturali prodotti dal genio italico (così si usava dire fino al fascismo, sintagma poi negletto, per l’abuso fascista dello stesso).

Se poi vogliamo citare le “efficienze”, ebbene, ancora troviamo gli Italiani fra i primissimi del mondo, primi in diversi campi: intendo l’economia generale, quella aziendale, quella dei servizi, a partire da quel mix di virtù dianoetiche e di efficienze che sono le produzioni afferenti al Made in Italy, cioè moda, mobilio, calzature, estetica automobilistica, architettura, etc., senza trascurare alcun settore produttivo.

E veniamo all’Italia delle deficienze. Qui l’elenco è immenso, ed è quello che azzoppa l’Italia, come se la “troppa fortuna” della prima parte esigesse una nemesi, una compensazione.

Intendo, in generale, la politica e principalmente la politica nazionale, interpretata da pessimi attori, salvo rare eccezioni. Un’accolita di legulei freddi ed opportunisti, vanamente contrastati da pochi galantuomini che non vivono di politica, ma che credono nella politica.

Non farò nomi, per non dimenticarne alcuno, e anche per non fare la dispendiosa e fastidiosa fatica di ricordare personaggi che non stimo. Spesso i peggiori sono a capo dei partiti, e in due casi di questo periodo questo è certo.

Lettor mio, sai bene a chi mi riferisco.

A latere di costoro c’è la pletora dei burocrati e dei grand commìs di stato che comandano – nel quotidiano – tutti i servizi. Uno di questi ha addirittura pubblicato un illuminante pemphlettino anonimo che conferma quanto vo dicendo. Questi personaggi, che troviamo dal piccolo dei comuni al grande dei ministeri, variamente diffusi, sono impegnati, innanzitutto, a difendere la propria rendita di posizione, e poi ad attuare le deliberazioni della politica. E allora, non poche volte, si mettono di traverso, non perché hanno rilevato che qualche procedura non è rispondente alla legge, ma perché gli “conviene” rallentare la pratica, o perché temono di mandarla avanti per un remotissimo rischio che qualcuno li quereli.

Dopo queste categorie su cui ho espresso giudizi poco lusinghieri tocca ricordarne un’altra, e non meno importante. Un detto in qualche modo veritiero e nello stesso tempo nefasto recita “ogni popolo ha i governanti che si merita“. Ebbene, se critico politici e burocrati non posso trascurare chi quei politici elegge: il popolo. Il popolo non è quell’entità quasi “sacrale” che qualcuno tenta di far passare come verità, ma una congerie sconfinata di persone ognuna delle quali ha i pregi e i difetti tipicamente umani: anche la pigrizia, l’egoismo, a volte l’incapacità di analisi, l’ignoranza.

Tutte queste deficienze si aggregano a quelle dei due soggetti sopra descritti e succede il patatrac, che consiste in atteggiamenti che favoriscono malversazioni e malgoverno, comprese decisioni su condoni et similia, che sono la prima ragione, ed è solo un esempio, del dissesto idrogeologico non-gestito, oltre che di un altro elemento di inciviltà, l’evasione fiscale, con il suo corollario astuto dell’elusione. E i populisti sono i “coltivatori” pericolosi e indegni dei peggiori “istinti” popolari.

Una piccola cosa capitata a me. Incaricato di un progetto culturale in un comune veneto, e concordato il compenso, ho dovuto penare le pene dell’anima per potere avere un acconto, perché “di solito noi paghiamo gli esterni alla consegna del progetto“. Solo che in quel caso avrei dovuto lavorare per due anni (ovviamente non a tempo pieno) senza vedere un euro. Poi riuscii ad avere il 50% dopo il primo anno di lavoro. So che funziona così, da tante testimonianze di professionisti e imprese che lavorano per il pubblico: una forma indiretta ed iniqua di finanziamento del settore pubblico, a rischio dei legittimi e concordati compensi di chi lavora nel servizio commesso o appaltato.

Per la parte dell’Italia deficiente potrei citare ora la tristissima, cialtronesca e vergognosa vicenda afferente l’onorevole Aboubakar Soumahoro (che finora sembra non essere stata presa sul serio dai suoi supporter politici), ma evito di farlo, perché fatto oramai notissimo e per non aumentare i miei umori negativi.

Vengo alla tragedia di Ischia. In modo chiarissimo si sono manifestate le “due Italie”. L’Italia della deficienza si è mostrata nelle parole di Conte, che ora nega l’evidenza di un condono (la parola “condono” è presente in più parti del Decreto “Ponte Morandi etc.”) che lui firmò da capo del Governo nel 2018 (allora eterodiretto dal genio di Dimaio), decreto che allora fu votato dalla maggioranza gialloverde e (ahi ahi, Meloni!) da Fratelli d’Italia. Meraviglia questo suo negare? No, zero. Basti pensare alle sue posizioni sull’aggressione russa all’Ucraina, che definire ondivaghe e mero e triste eufemismo.

L’Italia dell’efficienza invece si trova nelle parole del Presidente della Campania De Luca, che – tra altro di saggio – ha detto che non esiste concettualmente “l’abusivismo di necessità”, ma solo l’abusivismo, e che si deve intervenire subito attuando le demolizioni decise per legge, oltre a tutto quanto è già stato progettato e finanziato per affrontare il dissesto idro-geologico strutturale dell’Italia.

Le persone devono mettersi in testa che l’acqua torna sempre dove è già stata, e se non trova spazi se li crea. Lezione, non del professor Mario Tozzi, ma del contadino di Glaunicco di Camino al Tagliamento (che conosce il grande fiume alpino a regime torrentizio) Gjovanin dai Manis. Quindi non ci sono scuse, né son credibili le pietose geremiadi che si sentono ululare dopo ogni disastro.

La politica e la scuola hanno il dovere di fare capire che non si può sanare tutto e sempre, ma si deve sanare soprattutto il modo di ragionare degli Italiani. Allora la pars deficiens comincerà ad essere sostituita da quella efficiens.

Pensieri, parole e opere per una “sinistra nuova”, evitando – per quanto possibile – le omissioni

Sono interessato a dare un contributo, nel mio piccolo, alla ricerca di temi, argomenti, priorità, ma soprattutto valori etici e politici per una “sinistra nuova”, non per una “nuova sinistra”, sintagma che potrebbe creare qualche ambiguità o fraintendimenti. Mi piacerebbe che questa mia riflessione arrivasse anche nelle stanze dove in molti si stanno dando da fare per farsi eleggere nuovi capi del Partito Democratico. Senza false modestie, penso che potrebbe essergli utile (se non opportuno o addirittura necessario, visto che da anni (o decenni? dai tempi di Veltroni?) – da quelle parti – non si producono concetti e pensieri di filosofia socio-politica, vero Franceschini, Bersani, Orlando, Zingaretti et co.?, evitando di citare i giovani alla Provenzano, che assomigliano maledettamente ai quattro citati prima.

Storicamente, in Italia, sia la sinistra comunista sia la sinistra socialista, anche se con modalità e in misura diverse, hanno avuto come stella polare il discorso e il valore etico-politico-sociale dell’uguaglianza.

Tale valore ha poi dialogato, almeno dalla seconda metà del XIX secolo, non mancando di confliggere, anche con il mondo cattolico, che per parte sua ha sempre tenuto in evidenza il sentimento e il valore della fratellanza universale tra tutti gli uomini, ispirandosi innanzitutto al biblico versetto 1,26 di Genesi “(Egli, Dio stesso) fece l’uomo a sua immagine“.

L’entimema (sillogismo abbreviato) Dio uomo genere umano, ha ispirato per millenni teorie (dottrine) e prassi dei movimenti religiosi ispirati dal Cristianesimo nelle sue tre principali declinazioni del Cattolicesimo, dell’Ortodossia orientale e del Protestantesimo, anche se quest’ultima modalità storico-religiosa si è distinta abbastanza chiaramente dalla visione cattolica (soprattutto), la quale ha conservato, nel rispetto del nome “cattolico” (che nel sintagma greco katà òlon significa secondo-il-tutto), una valenza morale pratico di universalità.

In altre parole, il Protestantesimo, come si evince dai fondamentali studi di Max Weber (cf. soprattutto L’Etica protestante e lo Spirito del capitalismo), ha evidenziato come la Grazia divina tenda a “privilegiare” (termine oltremodo impreciso) chi si dà da fare nella vita confidando nella Grazia stessa: teologicamente, sulle tracce della lezione paolina e di sant’Agostino, primo ispiratore di frate Martin Luther.

La visione egualitaria delle sinistre storiche si è dunque incontrata con la visione universale del cristianesimo cattolico, costruendo un’alleanza di fatto, soprattutto nelle prassi sociali e sindacali di tutto il ‘900, spesso addirittura in concorrenza per acquisire più adepti tra i lavoratori e nella società civile.

Esemplifico: dopo l’avvio della Guerra fredda negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, la CGIL unitaria (come rappresentanza generale della sinistra sociale), ritrovatasi, dopo il ventennio fascista, con il Patto di Roma del 1944 (mentori il grande e compianto Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore) si spaccò, prima in due parti, con la nascita della CISL (sindacato cattolico) nel 1948, e poi in tre parti, con la nascita nel 1950 della UIL, punto di riferimento delle forze laiche, come socialdemocratici, socialisti e repubblicani (nomi definitivi dopo un periodo di altre denominazioni acronimiche).

Negli anni successivi vi fu concorrenza soprattutto tra la CGIL, che era costituita da tutti coloro che nel mondo del lavoro facevano riferimento al Partito Comunista Italiano e alla maggioranza dei Socialisti (anche dell’area più radicale di Unità proletaria), e la CISL, e il maggiore tema nel quale si dialogò e ci si scontrò era il tema dell’uguaglianza salariale. In quegli anni, solo una parte della FIOM (Federazione Impiegati ed Operai Metallurgici) e la UIL sottolineavano anche l’importanza dell’inquadramento per livelli, con il quale andare a riconoscere capacità professionali diverse e a retribuirle in proporzione.

Tant’è che il mondo dei media coniò anche un termine abbastanza sgradevole nei toni e negli intendimenti per definire la comune sensibilità egualitaristica tra la maggioranza della CGIL e la CISL: andò in auge il termine “cattocomunisti”.

Solo per citare un altro fenomeno intrinseco alla sinistra politica: nei decenni tra gli anni ’60 e gli anni ’80/ ’90, si mossero anche forze di estrema sinistra, variamente denominate, che “nutrirono” gli ulteriori estremismi dell’Autonomia organizzata di un Toni Negri (cattivissimo maestro), fino alle organizzazioni della lotta armata delle Brigate Rosse e di Prima Linea (mentre a destra operava lo stragismo orrendo dei Nar e altri, una cum i servizi segreti deviati). L’onestissima “ragazza del XX secolo”, Rossana Rossanda, riconobbe negli estremismi citati un album di famiglia della sinistra italiana, che non è stata sempre – nella storia – gradualista e parlamentare.

Una nota mia personalissima: nei decenni successivi al massimo fulgore delle organizzazioni di estrema sinistra, mi sono visto sorpassare a destra da innumerevoli ex militanti duri e puri che mi consideravano, essendo io socialista gradualista, più o meno una “spia dei carabinieri”. Ricordo che quando andavo a trovare qualche amico mio, a cui volevo bene anche se non condividevo nulla della sua posizione politica, in quei “centri sociali”, che furono anche fucina di scelte individuali armate, appena mi vedevano si davano la voce (sottovoce): “attenti che arriva Renato, cambiamo argomento“.

Ovviamente si dovrebbe (dovrei) meglio specificare questi fenomeni e questi schieramenti (ad esempio, andrebbe fatto un discorso a parte sui sindacati del Pubblico impiego, dove la Cisl esercitava una sorta di egemonia, con una cultura di stampo corporativistico e conservativo, stante la concorrenza del sindacalismo autonomo), perché la realtà era molto più frastagliata, variegata e complessa. Non dobbiamo dimenticare che tra lavoratori del Pubblico e lavoratori del Privato sussistevano differenze (peraltro ancora presenti) radicali a livello legislativo ricorrenti agli ultimi due decenni del secolo precedente, quando il capo del Governo Francesco Crispi definì giuridicamente il ruolo dell’impiegato pubblico.

Proseguendo in questa analisi sintetica ricordiamo i regi decreti del 1922 sulla distinzione tra qualifiche di operaio e di impiegato, e l’istituzione di Inps e Inail nel 1933, e poi passiamo al secondo dopoguerra.

Negli anni ’60 si tentò l’unità sindacale tra le tre maggiori confederazioni, ma il progetto non riuscì, confermando una sorta di incapacità delle forze sociali di auto-riformarsi, potendosi dire che la fine del comunismo post 1989 non ha generato quasi alcun cambiamento nel sindacato, mentre alcuni partiti della sinistra sono stati smantellati dai giudici ai tempi di tangentopoli. Solo il PCI-PDS se la cavò…

Vengo al nucleo concettuale cui desidero continuare a dare spazio, sulla traccia di post immediatamente precedenti. Se storicamente le sinistre hanno sostenuto prevalentemente il valore dell’uguaglianza nella sicurezza, ora dovrebbe essere in grado di comprendere l’importanza dell’equità nella libertà, che le giovani generazioni mostrano di preferire, stanchi dell’egualitarismo collettivistico delle sinistra storiche.

Se la sinistra non riuscirà a dare centralità a questa “riforma etico-culturale”, l’importanza di un pensiero “di sinistra” sarà sempre meno significativo se vogliamo parlare più in generale dell’economia e della società italiana.

Riassumendo, l’Italia è la 3a potenza economica d’Europa, è 1a o 2a nella manifattura, 1a nel settore metalmeccanico, ma è penultima dell’aumento del Pil e ha lasciato i salari fermi da almeno trent’anni.

Mi chiedo: quante responsabilità ha la sinistra politica (i partiti) e quella sociale (i sindacati) in questo deliquio retributivo?

I lavoratori italiani, a differenza dei loro colleghi delle principali Nazioni, sono gli unici ad avere perso potere d’acquisto, nonostante il meraviglioso sistema del Made in Italy.

Le persone, e i lavoratori in primis, temono il futuro e, anche quando hanno mezzi economici, non spendono, e dunque la domanda interna crolla, mentre sul versante pubblico mancano gli investimenti e una seria riforma per la sburocratizzazione del sistema.

Può la sinistra suggerire un pensiero politico economico nuovo, di rilancio dello sviluppo? A mio parere sì, ma non deve continuare a pensare e a muoversi come sta facendo ora.

Può essere ancora attuale un pensiero socialista democratico che faccia chiarezza sul valore intrinseco delle imprese in un bilanciamento tra diritti e doveri, sia degli imprenditori sia dei lavoratori?

Domanda retorica: io ci credo, mi piacerebbe ci credessero anche quelli che stanno preparando il loro Congresso, tra dichiarazioni presuntuose e paura del cambiamento! E altri tutt’intorno.

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