Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

Tag: scienza (page 1 of 37)

Il radicalismo “sbagliato” e quello “giusto”

Un titolo così netto pone immediatamente problemi gnoseologici, intellettuali e storico-politici. Tento ugualmente una sintesi, soprattutto rivolta ai lettori miei più giovani, ma non solo a loro.

Giulio Alessio


Innanzitutto ci si deve chiedere: che cosa è in generale il Radicalismo politico? Si può tentare una risposta sotto due profili, come sempre accade quando si tratta di descrivere movimenti socio-politici o culturali: a) il radicalismo storico, e b) quello meta-storico e u-cronico.

In altre parole, si può parlare, innanzitutto, come si definisce supra: a) di radicalismo pensando al Partito radicale ottocentesco che si presentò con successo anche al Parlamento savoiardo e in altri consessi di nazioni europee, dove i sovrani stavano lentamente venendo costretti a “concedere” Leggi costituzionali atte a superare il modello autocratico del potere monarchico in vigore da secoli, e al radicalismo novecentesco, di stampo – dici potest – cultural-liberale; inoltre, b) si può anche pensare al radicalismo politico come estremismo.

Il radicalismo storico è caratterizzato dalla sua posizione intransigente in ordine a una serie di principi umanisti, razionalisti, laici, repubblicani e anche anticlericali, e per una visione più socialmente e culturalmente più avanzata della società da una prospettiva “liberale” progressista, con particolare attenzione ai diritti civili e ai diritti politici.

Nella seconda metà dell’Ottocento i “radicali” erano l’ala più estrema del liberalismo, come una sorta di sinistra liberale. Le proposte politiche del movimento tendevano all’egualitarismo politico, a partire dal sistema elettorale, circa il quale sostenevano il suffragio universale, superando prima di tutto le distinzioni di censo, cioè economiche, l’abolizione dei titoli nobiliari dell’aristocrazia, e il sistema istituzionale repubblicano. Non poco. Per i radicali, inoltre, era fondamentale la libertà di opinione e di stampa e la separazione netta delle prerogative dello Stato da quelle della Chiesa cattolica.

Il radicalismo storico è intransigente circa l’affermazione di principi umanisti, razionalisti e laici, fino a un anticlericalismo spesso molto spinto. D’altra parte si trovavano ancora di fronte i papi-re, alla Pio IX soprattutto, ma anche à la Leone XIII. Per i radicali dovevano dunque essere affermati e perseguiti nuovi diritti civili e politici. Questo accadeva, in particolare in Italia, mentre altrove questa cultura politica si sviluppava in modo diverso.

Ad esempio, negli Stati Uniti, dove la cultura e i partiti di ispirazione socialisteggiante non potevano trovare spazio, si sviluppò una cultura politica di tipo radicale denominata liberal, che diede origine storica a uno dei due grandi partiti americani, il Partito democratico, un partito, si può dire, di stampo socialdemocratico, se vogliamo utilizzare una definizione “europea”. In America, dunque, i liberal erano socialdemocratici, mentre il termine radical già significava un qualcosa di simil-marxista, area che si sviluppò poi nel Novecento con i movimenti giovanili, di genere (Angela Davis) e nella militanza antirazzista (Malcolm X).

Tonando alla storia italiana contemporanea, il radicalismo ottocentesco traeva la sua linfa etico-politica dal mazzinianesimo, laico e repubblicano, e dal retaggio garibaldino, con riferimento, tra altri, al federalista repubblicano Carlo Cattaneo, e al mazziniano Carlo Pisacane.

Tra i radicali della seconda metà dell’Ottocento si poteva anche annoverare una fascia relativamente più moderata, che accettava un transizione democratica più lenta e implementabile anche con l’accettazione della monarchia regnante, visto che l’unità d’Italia era avvenuta sotto i Savoia.

I punti fondanti del programma della sinistra radicale, l’unica che aveva deciso di distinguersi dai moderati, si possono sintetizzare in questo modo, così come furono proposti e approvati nei loro Congressi di Roma del novembre 1872 e del 13 maggio 1890:

  • la completa separazione tra Stato e Chiesa;
  • il superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
  • la promozione dell’ideale federale degli Stati Uniti d’Europa così come proposti da Carlo Cattaneo;
  • l’opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo;
  • l’indipendenza della magistratura dal potere politico;
  • l’abolizione della pena di morte;
  • la tassazione progressiva;
  • l’istruzione gratuita e obbligatoria;
  • l’emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
  • il suffragio universale per uomini e donne;
  • un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
  • sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
  • la riduzione dell’orario di lavoro e del servizio di leva. …non sembra essere poco, vero? Obiettivi che sono stati raggiunti, e certamente non del tutto, solamente solamente con la Repubblica democratica fondata sul lavoro di cui alla Costituzione del 1948!

Tornando brevemente alla storia, Il Partito Radicale Italiano si costituì ufficialmente in partito politico nel corso del I Congresso Nazionale a Roma il 27-30 maggio 1904. All’epoca il presidente del partito era Ettore Sacchi, che progressivamente lo condusse alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell’età giolittiana (1903-1914). Contemporaneamente un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, fu per molti anni alla presidenza della Camera dei Deputati (1904-1919).

Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all’invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla presidenza della Camera. Dopodiché tra il 1904 e il 1905 parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II. Successivamente non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche contribuirono alla sua caduta.

I radicali si scissero poi sul sostegno dei due governi guidati da Alessandro Fortis (1905-1906), antico militante radicale. Infatti anche se la maggioranza del gruppo parlamentare si schierò all’opposizione, accusando il governo di poca chiarezza programmatica e di trasformismo (malattia endemica della politica italiana. Se chiedessi al mio gentile lettore se riesca a individuare un campione contemporaneo del trasformismo più bieco, sono convinto che anche i meno frequentanti i discorsi politici non avrebbero dubbi nell’indicarlo nell’avvocato Giuseppe Conte, capace di tutto e del suo contrario, non tanto nell’agire, ma nel dire e disdire), due deputati radicali vi entrarono come sottosegretari.

Dopo la caduta di Fortis, Sacchi strinse un accordo con il presidente della destra storica Sidney Sonnino per la formazione di una maggioranza antigiolittiana, sia pure eterogenea. Il governo Sonnino I nacque con il sostegno dei radicali, del Partito Socialista Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Nel successivo governo presieduto da Giolitti i radicali si schierarono nuovamente all’opposizione. Nel 1910 vi entrarono invece nel governo Luzzatti, con Sacchi come Ministro dei Lavori pubblici e nel 1911 (Governo Giolitti IV) e Francesco Saverio Nitti come Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio.

Nell’imminenza delle lezioni politiche del 1913 il Partito Radicale riuscì a fare approvare dal Parlamento una delle sue istanze prioritarie, il suffragio universale, sia pur soltanto maschile. Le elezioni successive in cui il partito conseguì il massimo numero di deputati della sua storia (62) furono tuttavia segnate dalla svolta della politica giolittiana impressa dal Patto Gentiloni (dal nome dell’avo dell’attuale politico del PD Paolo Gentiloni, conte Silveri), cioè l’accordo elettorale del partito di governo con le gerarchie cattoliche in funzione anti radicale e anti socialista. Di conseguenza nel successivo congresso che si tenne a Roma nel febbraio 1914 in un ambiente infuocato il Partito Radicale votò a grande maggioranza l’uscita dal governo. La figura di Nitti, molto importante in quella fase politica, merita si riporti qui una sua foto.

Francesco Saverio Nitti

Alla vigilia della Prima Guerra mondiale il Partito Radicale nel solco della tradizione mazziniana e risorgimentale si collocò per la maggior parte sulle posizioni dell’interventismo democratico. Tale linea, non fu unanime (lo stesso Ettore Sacchi evitò di pronunciarsi nettamente) e soprattutto segnò un fossato non facilmente colmabile con i socialisti, isolando il radicalismo dal panorama politico parlamentare. I radicali rientrarono nella compagine governativa solo nei due governi di unità nazionale (1916-1919) di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando.

Il radicalismo laico e democratico italiano ebbe – all’inizio del secolo – figure significative quali il repubblicano Ernesto Nathan, ebreo, e il Nitti, eccellente economista e fautore della dottrina politica denominata Meridionalismo, atta a superare l’enorme divario socio-economico con la restante parte dell’Italia. Su questo il lettore farebbe bene a informarsi su come il Regno sabaudo incorporò il Sud Italia e anche sul tema del così detto “brigantaggio”, che non fu storia di mero banditismo, come la vulgata ufficiale dell’epoca voleva.

Nathan, dal 1907 al 1913 fu sindaco repubblicano di Roma con il sostegno dei socialisti, si rese fautore di accese battaglie a beneficio dei ceti più poveri della Capitale e contro le ingerenze della Chiesa Cattolica, con un papa, Pio X, Giuseppe Sarto da Riese, che riteneva essere (a mio avviso, sbagliando) la Chiesa unica depositaria dell’educazione dei bambini e dei giovani.

Nitti era stato Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel governo Giolitti IV ed esponente della minoritaria corrente neutralista del partito alla vigilia della grande guerra. Fu il primo radicale a diventare Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, per cui si trovò alle prese con il problema della smobilitazione dell’esercito dopo la prima guerra mondiale; varò un’amnistia per i disertori, avviò un’ampia indagine sull’arretratezza e i bisogni del Mezzogiorno e fissò un prezzo politico per il pane. Fu tuttavia travolto dalla crisi connessa all’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, su cui scrissi tempo fa un piccolo saggio pubblicato su questo sito dal titolo “ll Poeta Soldato”, e che non fu mai fascista come molti ritengono.

Il 12 giugno 1921 la delegazione alla Camera del Partito Radicale costituì un gruppo parlamentare unico, Democrazia Sociale, insieme agli eletti di Democrazia Sociale e a quelli di Rinnovamento Nazionale (una lista di deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti) per un totale di 65 deputati. Un analogo raggruppamento fu costituito in Senato. Il 25 novembre 1921 avvenne la fusione tra i gruppi demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico, che divenne il più numeroso, sia alla Camera (150 deputati) sia al Senato (155 senatori).

Nel gennaio del 1922 fu costituito il Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale, cui aderì anche la direzione del Partito Radicale, sancendo di fatto la propria dissoluzione. Quest’ultimo organismo al primo congresso svoltosi a Roma nell’aprile 1922 dette forma al nuovo partito denominato Partito Democratico Sociale Italiano, cui peraltro non aderirono alcuni esponenti radicali quali Francesco Saverio Nitti] e Giulio Alessio.

Il PDSI accordò la fiducia al governo Mussolini e fece parte della squadra governativa con due ministri sino al 4 febbraio 1924; il giorno successivo il partito abbandonò la maggioranza di governo, passando all’opposizione. Si presentò poi alle elezioni politiche italiane del 1924 con una lista autonoma e ottenendo un misero 1,55% dei suffragi e 10 seggi.

Nonostante l’iniziale fiducia del partito demo-sociale al fascismo, il radicalismo italiano continuò a esprimersi prima e dopo il delitto Matteotti nel rigoroso antifascismo di uomini come Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale (nome del movimento e anche della rivista da questi fondata e diretta) ha rappresentato il tentativo di rifondare il liberalismo in senso progressista e popolare con un occhio all’ideologia socialista o come allo stesso Nitti. Nel novembre 1924 numerosi esponenti radicali indipendenti (Giulio Alessio, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini e Nello Rosselli) aderirono al movimento fortemente antifascista dell’Unione Nazionale delle forze democratiche e liberali di Giovanni Amendola (in seguito morto a causa di un’aggressione fascista e padre del noto esponente del PCI Giorgio, leader con Giorgio Napolitano dell’area cosiddetta “migliorista”, cioè moderata e gradualista, del Partito Comunista Italiano nel Secondo dopoguerra).

Nel dopoguerra il radicalismo storico ha fatto capo a personalità come Ernesto Rossi, e soprattutto a Riccardo (più noto come “Marco”) Pannella, che guidò importanti lotte per i diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza, che pongono non banali problemi di riflessione morale e furono occasioni di gravi divisioni nel Paese.

L’importante, oggi, è non ritenere che questi due diritti civili siano un qualcosa da cui possono germinare ulteriori normative di legge che rispondano a esigenze non strettamente legate a ciò che si può configurare come “Diritti fondamentali” dell’uomo. Non approfondisco in questa sede il tema, perché lo ho già affrontato recentemente, sempre qui, ma mi limito ad un breve elenco.

Se si dice che può definirsi come diritto civile la separazione e il divorzio in una coppia umana, e che anche l’interruzione di gravidanza può essere considerato dolorosamente tale, non altrettanto – a mio avviso – si può dire che la gravidanza per altri, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali siano comparabili ai due “diritti” sopra citati, ma piuttosto si tratti di desideri, se non di capricci egoistici. Sempre a mio avviso, sapendo che molti (non credo la maggioranza) la pensano diversamente da me.

Avere un figlio non può essere ritenuto semanticamente ed eticamente un DIRITTO, ma un DONO della natura e dell’intelletto umano!

Alcune righe dedicherò, inoltre, all’altro tipo di radicalismo, quello che ritengo sbagliato, negativo, pericoloso, dannoso e diseducativo. Quello connotato da idee, organizzazioni, comportamenti e atti estremistici che possono traguardare nel terrorismo, negli attentati e negli omicidi.

Ho conosciuto nella mia vita molte persone coinvolte in idee e anche atti “radicali”, estremi di varia gradazione e natura. Ad esempio militanti dell’estrema sinistra, un tempo detta extra parlamentare, dagli ultimi anni ’60 agli anni contemporanei. Ebbene, distinguo tra chi – tra costoro – si è limitato a dire, scrivere e sostenere la liceità di un cambiamento sociale usando anche metodologie radicali, come lo sciopero generale, e programmi in comune con le sinistre storiche, e chi invece, seguendo le idee marx-leniniste e anarco-estremiste, hanno ammesso, sostenuto e anche praticato la lotta violenta, armata.

Bene, quest’ultimo è il radicalismo sbagliato, dannoso, pericoloso, diseducativo, prima ancora che per ragioni di carattere giuridico-legale, per ragioni di carattere antropologico-filosofico ed etico. Fondamentali.

Costoro NON CONOSCONO l’uomo nella sua struttura complessa, fisica, psichica e spirituale, e ritengono che il cambiamento sociale radicale modifichi l’uomo nella sua struttura, per cui in una società comunista o anarchica, l’uomo smetta di essere egoista, egocentrico o addirittura egolatrico, e diventi, per il fatto stesso che vive in una “società-giusta”, giusto, virtuoso, generoso, altruista, buono. Sia che sia povero, sia che sia ricco, sia che sia dipendente, sia che sia imprenditore o dirigente, ognuno deve guardarsi dentro e cercare di vedere le proprie imperfezioni, cercando, prima di tutto di auto-riformarsi, come insegnano il radicalismo moderato e la dottrina evangelica.

NON E’ VERO che cambiare la società cambia interiormente l’uomo, perché l’uomo è una commistione irrisolvibile di sentimenti (natura) buoni e malvagi, di comportamenti egoisti e generosi, di pensieri corretti e sbagliati, di obiettivi ragionevoli e irragionevoli.

Perciò il radicalismo estremista è sbagliato, non solo per ragioni politiche, ma primariamente e più di tutto perché relate alla struttura stessa dell’uomo, che è cagionevole, fragile, imperfetta. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, perché un filo di malvagità così come un filo di bontà alberga in ogni cuore, come insegnavano bene sant’Agostino e Blaise Pascal, più e meglio di altri.

Nessuno escluso, caro lettor mio.

Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

“Feedback” e “Feedforward”, come meccanismi complementari nella complessità gestionale dei gruppi, e il processo di delega

Il feedback, cioè la retroazione, o la risposta a una sollecitazione verbale/ fattuale, è un elemento centrale delle nuove scienze organizzative e gestionali, anche se come tale è conosciuto fin dai tempi antichi, ad esempio, nelle scienze e nelle prassi politico-militari greco-romane, ma anche egizie, hittite, assiro-babilonesi, persiane, etc..

Sinossi con feedback e feedforward

Chissà perché nessuno, o quasi nessuno (fanno eccezione i fisici teorici, cioè quelli interessati ai quanta/ qualia e alla relatività generale), fa il benché minimo cenno al feedforward, che è altrettanto importante del feedback.

I gestori/ organizzatori/ capi/ responsabili/ formatori – o, che dire si voglia – facilitatori, in ambito di risorse umane, non stanno ancora apprezzando questa metodologia che si pone di fronte al feedback come contraltare e come complemento razionale. Con qualche significativa eccezione. Vediamo: infatti…

Il feedforwarding, termine coniato da Marshall Goldsmith e Jon Katzenbach (autore di “The Wisdom of Teams“, Harvard Business School Press, 1993), è una particolare tecnica di comunicazione orientata sulle azioni future da realizzare per obiettivi pre-stabiliti.

Si può utilizzare nei percorsi di coaching come itinerario complementare al feedback, che resta uno strumento essenziale per lo sviluppo del personale e dei gruppi di lavoro.

Un esempio di feedwarding si può trovare nelle modalità proposte da Marshall Goldsmith, Executive Coach, NYT Bestselling Author e Dartmouth Tuck Professor in Management Practice.

L’idea centrale di questo metodo di coaching si incentra su una pre-visione razionale del processo di sviluppo professionale e manageriale di un lavoratore su cui l’azienda punta per la propria crescita. Il destino dell’azienda e quello del lavoratore, allora, si incontrano positivamente nel percorso di feedwarding, nel quale il budget generale richiama tra le sue componenti essenziali il / piano/ i di carriera/ e del proprio dipendente o di più dipendenti.

Accanto a ciò si colloca anche la gestione degli “errori di crescita”, che sono ineliminabili e perfino indispensabili per un’evoluzione positiva della struttura e delle persone coinvolte. Gli errori “in buona fede” non devono essere sanzionati, ma corretti con la disposizione al dialogo costante.

Un elemento costitutivo e caratterizzante di questo metodo è la delega, che si configura come tutt’altro rispetto a un “incarico”, perché è costituita da un processo scientifico ben preciso. Prima di presentarne i termini, conviene riprendere l’idea dell’autore sopra citato, Goldsmith, che propone, in via previa, quattro principi:

  • Focus sul futuro, cioè non rivangare il passato,
  • Essere sinceri tra e con il collaboratore,
  • Essere collaborativi e non negativi o critici,
  • Selezionare un comportamento da migliorare anche quando si fornisce un feedforward, in modo da incentrare la tecnica sul miglioramento piuttosto che sul giudizio.

A questo punto, si può aprire il discorso sulla delega, che presuppone un utilizzo concertato di feedback e di feedforward.

La delega è forse il principale strumento che – tramite i due sistemi citati – può aiutare nella crescita, sia il singolo lavoratore, sia l’azienda o l’organizzazione cui appartiene. Si è detto che la delega non è un mero incarico di lavoro, ma un processo razionale, logico, scientifico.

Per attuarla in modo efficace occorre che:

  • sia chiaro l’obiettivo,
  • si scelga un delegato di cui il delegante ha un’idea circa il potenziale di crescita,
  • sia spiegato bene al delegato,
  • siano predisposti i mezzi per la sua attuazione,
  • siano definiti e concordati i tempi di realizzazione del lavoro delegato,
  • si mantenga, da parte del delegante, un monitoraggio costante degli stati di avanzamento, senza opprimere psicologicamente il delegato,
  • si mantenga, in capo al delegante, la responsabilità del risultato in ordine agli obiettivi dati.

Un altro aspetto indispensabile per far funzionare la delega nell’ambito di un processo di feedback/ feedforward è l’assunzione di consapevolezza che occorre evitare o sconfiggere ogni sentimento di gelosia professionale tra delegante e delegato, come conditio sine qua non, per una crescita condivisa.

Il sentimento (o vizio) della gelosia, e di quella professionale in particolare, è molto diffuso, specialmente in alcune declinazioni antropologiche, e va considerato senza alcuna sottovalutazione.

E’ chiaro (e quasi ovvio) che ogni modificazione profonda nell’animo umano, nei sentimenti e nei comportamenti concreti e quotidiani, può avvenire solo se si riesce a far crescere nell’animo stesso la consapevolezza della necessità della modifica. Ogni riforma, anche del modo di lavorare, nasce “da dentro”, poiché se è solo imposta “da fuori” non dura, non essendo stata introiettata anche emotivamente.

Come in ogni ambito dell’agire umano la mera razionalità non basta mai, essendo l’uomo una entità complessa, fisica, psichica e spirituale (su cui si considerino gli studi più recenti sulla complessità, sulla fisica delle particelle e delle onde, recuperando anche le nozioni principali della metafisica classica che, non per me stranamente, possono dialogare), nella quale le ragioni del cuore devono essere considerate altrettanto delle ragioni della… ragione (Blaise Pascal).

“Gelosia” vs. “Invidia”: vizi? L’invidia senz’altro: secondo la dottrina morale classica è, dopo la superbia, il vizio più grave. La gelosia invece non lo è, se non quando è esagerata e può impedire la crescita di persone meno esperte, nel lavoro e nella vita, oppure quando pretende di avere il dominio su un’altra persona

Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.

San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).

Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.

Power Point

Sull’attuale gravissima “crisi-del-pensiero-critico” e della qualità del dibattito politico: il “caso Cospito”. Alcune riflessioni sull’Anarchia, sullo “Stato di Diritto”, sull’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana e sul carcere

Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).

Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.

Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).

Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza +
ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).

Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?


François-Marie Arouet – Voltaire

Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).

Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismo rivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.

Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.

Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.

Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.

L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.

Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.

A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.

Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).

La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.

Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.

La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.

E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.

Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.

Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.

Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.

Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.

Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.

In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.

A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.

Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.

Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…

Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.

Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!

Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.

E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.

L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.

Carisma e leadership. Lo sviluppo del “potenziale” di una persona dalla “latenza” all’evidenza e all’efficienza/ efficacia dell’agire

Dal punto di vista psicologico si considera il potenziale come “l’insieme delle energie, delle capacità e delle attitudini presenti in un individuo, ma che non sono richieste dalla posizione che egli al momento ricopre”; dal punto di vista organizzativo il potenziale rappresenta “il confronto tra le caratteristiche proprie di un individuo e le caratteristiche richieste per ricoprire al meglio una posizione o comunque per offrire all’organizzazione il massimo apporto in termini di crescita del valore della stessa”;
dal punto di vista culturale il potenziale può essere considerato come “il confronto tra la cultura dell’organizzazione, intesa come sistema di valori, di modalità comunicazionali e di schemi di riferimento comportamentali , e la cultura dell’individuo”.

(Questa definizione si trova nell’Enciclopedia Treccani)

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Max Weber Max Weber 21.04.1864-14.06.1920+ Sociologist, socio-political advocate, Germany – around 1917 (Photo by Archiv Gerstenberg/ullstein bild via Getty Images)

Max Weber è stato un illustre sociologo e filosofo tedesco, le cui teorie sono la base di molte ricerche socio-organizzative contemporanee. Luigino Bruni propone alcune idee interessanti sui temi del titolo, per cui le utilizzerò.

“La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati leadership sono in realtà molto antiche.” (L. Bruni)

Temi, questi, presenti fino dalle opere dei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber,

Le dottrine economiche hanno più che altro utilizzato questi studi senza ritenerli molto strategici, ma le cose stanno cambiando. Sempre più nelle strutture economiche organizzate, a partire dalle imprese, specialmente quelle industriali, si discute di “capacità di conduzione e di motivazione delle persone”, espressione sintetizzabile con il termine leadership.

Si riscoprono anche autori come Vilfredo Pareto, che ha scritto molto sulle ideologie che “producono” i leader, salvo poi farli decadere (lui aveva presenti quelli della prima metà del XX secolo, esempi spesso deleteri). Lo sviluppo delle scienze sociologiche e del management hanno permesso di comprendere – sulle linee disegnate da Weber e Pareto – anche le varianti, che sono sempre degli sviluppi delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere, aspetti necessari (che-non-cessano) della convivenza umana presenti fin dall’antichità, ancora prima della stanzializzazione dei nomadi primevi provenienti dal Rift africano e diretti verso la Mezzaluna fertile.

Si fanno corsi e si pubblicano libri, spesso nella forma banalizzata dell’instant book, molto promosso per gli utenti viaggiatori (spesso figure di manager aziendali) nelle grandi stazioni ferroviari e negli aeroporti. Titoli come “Diventare leader in 36 ore”, oppure “Il management in 24 ore” contengono sproloqui ingegnerizzati scopiazzati qua e là, o dai testi dei grandi sociologi sopra citati, oppure da maestri di psicologia sociale di scuola americana come quella di Paolo Alto. Anche le facoltà economiche si sono attrezzate per vendere corsi e seminari a costi elevatissimi, del tipo: due fine settimana per il capo o per il Ceo a 4000 euro, dove docenti universitari un po’ scarichi impressionano i capi azienda con brillanti dissertazioni, presenza di testimonial della leadership, come campioni sportivi o anche attori e cantanti, cioè persone che sanno “stare in scena” da protagonisti, non da deuteragonisti, perché essere-secondi non basta. Bisogna essere necessariamente primi.

Vilfredo Pareto

Ma senza i “secondi” una struttura organizzata non va da nessuna parte. Là dove One Man Manages (un uomo solo al comando, come Fausto Coppi) occorrono anche le seconde linee per mandare avanti il lavoro quotidiano, per gestire i gruppi di lavoro, spesso organizzati come insegnava san Benedetto con la sua Santa Regola (magari senza che costoro lo sappiano).

Qualcosa di diverso sta comparendo, però, anche nelle business school, nelle facoltà di ingegneria, di economia e di scienze umane: l’esigenza di recuperare, oltre alla frequentazione delle teorie psicologiche contemporanee, i pensieri classici sull’uomo, quelli dell’antropologia filosofia, della filosofia morale e perfino quelli teologici. E ciò accade anche nelle aziende. Gruppi di ingegneri e di controller finanziari ascoltano con interesse ciò che pensava dell’uomo Aristotele, o il sistema di vizi&virtù di sant’Agostino, di san Gregorio Magno e di san Benedetto, o ciò che serva per la scelta buona secondo Kant, declinando la libertà come un dover-essere per un dover-fare, motivando e gestendo altre persone.

C’è, però, un problema nell’impostazione di questi corsi, quando ancora non si rivolgano ai saperi classici: la divisione rigida tra leader e follower, tra capi e seguaci, o gregari. Mi spiego meglio: appena sopra ho rilevato l’importanza dei gruppi di preposti che stanno attorno al leader, mentre qui sto criticando il sistema leader/follower.

La ragione sta nel fatto che, in mancanza di una fondazione antropologica chiara, il rischio di trasmettere in questo modo e sistema messaggi demotivanti, è grande. Scrivere nella pubblicità di questi corsi semplicemente questo: “il corso si rivolge a manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader“. Per cui, il messaggio sotteso è che se non riesci a diventare leader sei un po’ un fallito.

L’antropologia filosofica insegna, invece, che ogni persona possiede ontologicamente una dignità la cui eguaglianza tra tutti è insuperabile e imprescrittibile, perché basata sui tre elementi fondativi di fisicità, psichismo e spiritualità, e di contro spiega come ognuno abbia una propria individuale personalità, che gli consente di essere anche variamente (si capirà dopo l’importanza di questo avverbio di modo nel mio pensiero) leader nella vita e nel lavoro. Di contro, genetica, ambiente ed educazione fanno la singola persona, la costituiscono, la persona che riuscirà ad essere sempre in qualche modo leader nella propria posizione, per creatività e impegno, anche se non sovraordinata ad altri.

Questa nuova visione è anche più adatta a comprendere i cambiamenti che il capitalismo ha generato dal proprio interno, con l’inserimento di giovani, almeno diplomati e sempre più spesso laureati, che non ci stanno a fare solo gli “obbedienti”, ma desiderano contare, essere partecipi, avere una qualità del lavoro più elevata. Si tratta di una cultura che potremmo definire “postatriarcale”, laddove nelle aziende vi sono ancora i “patriarchi”, che a questo punto devono accettare il cambiamento, se desiderano che le loro aziende proseguano oltre la loro carismatica e irripetibile esperienza. Anche il concetto (e virtù benedettina) di obbedienza può e deve cambiare l’attuale accezione contro-intuitiva, recuperando il suo etimo originario, che è il verbale latino ob-audire, cioè ascoltare, mentre e cosicché accanto all’ascolto vi può essere anche un accorgersi-di-qualcosa (dal latino ad corrigendum, vale a dire verso-un-correggersi), per cui l’ascolto permette l’accorgersi e il successivo correggersi.

Se l’esercizio del potere mediante l’autorità riconosciuta dalla tradizione e dalle leggi civilistiche è fuori questione (un padrone c’è sempre, ma è bene che sia “visibile”, non invisibile come nel caso dei “Fondi d’investimento”), affinché l’organizzazione sia più veloce ed efficiente, occorre che le persone si sentano sinceramente coinvolte, senza strappi e fughe avanti o a lato. Nel nuovo contesto anche l’autorità massima di un’azienda, il Ceo, il Direttore generale, il Presidente, l’Amministratore unico, il Titolare, a seconda di come l’azienda è organizzata, deve sapere che il compito suo maggiore più difficile, è la scelta dei collaboratori, e la loro valorizzazione. Gli aspetti gerarchici, che comunque rimangono importanti, saranno così inseriti in un contesto psicologico e morale di collaborazione continua e coinvolgente. Nel mondo delle teorie organizzative anglosassoni, sempre molto importanti, il verbo to involve è tra i più gettonati, anche più di to lead o to manage. Ma senza un’immersione nei citati saperi filosofici classici tutto ciò rischia di restare freddo, sterile e ostile, insopportabile per i caratteri che vogliono esprimere tutto il proprio potenziale aspirando a di più…

I nuovi stili di direzione e comando debbono pertanto tenere conto dei cambiamenti che vengo descrivendo, accettando che il carisma del fondatore/ amministratore/ titolare possa essere condiviso nel tempo anche da chi non appartiene a quella che Giorgio Bocca, ancora negli anni ’70, chiamava “razza padrona”, riferendosi agli Agnelli, ai Pirelli, ai Danieli e ai Cefis, che ora si declina e opera in dimensioni più ridotte e diffuse. Personalmente conosco e opero positivamente con diversi esempi di questo tipo di governance d’impresa, mantenendo la mia autonomia e il mio giudizio. Ed è per questo che vengo apprezzato, e anche se questi Capi azienda sanno di non avere sempre e comunque un consenso da parte mia, mi affidano la responsabilità di presiedere Organismi di vigilanza previsti per Legge.

Aggiungiamo che i carismi, come insegnava san Paolo, molto prima degli studiosi contemporanei, può essere nascosto, latente, e pertanto bisognoso di un “ambiente” consono a portarlo all’evidenza e all’esercizio di una funzione pubblica. Il capo carismatico, lo insegna anche la sociologia classica di un Auguste Comnte, è indispensabile nella fase di avvio e di primo sviluppo di una struttura, sia essa politica, economica o religiosa; nel momento in cui la struttura si auto-sostenta occorrono altre figure, ed è necessario creare le condizioni perché altri carismi emergano e si mettano a disposizione.

Riporto qui ancora, per discuterne, alcune tesi e giudizi sulla leadership moderna del filosofo Luigino Bruni: “(omissis) Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché quella di oggi è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima volta che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.”

Do ragione a Bruni se penso alle leadership della politica italiana attuale, nella quale leader mediocri come Conte e Salvini si circondano di cantori follower, capaci solo di recitare come in una filodrammatica di paese la lezioncina imposta dall’alto (se è qualcosa di “alto” il loro leader). Potrei fare dei nomi, ma la pena per loro mi trattiene. Do, invece, torto, a Bruni, se penso ai fenomeni che stanno avvenendo nelle aziende, che forse lo studioso non conosce molto direttamente: nei luoghi dell’economia funziona in modo diverso che nella politica, ed è possibile, colà, vedere emergere persone che possiedono veri meriti.

E’ quasi impossibile che un carismatico padrone affidi a degli incapaci poteri e responsabilità, pena un rischio mortale per la propria azienda. Con ciò non voglio dire che tutti i i dirigenti e preposti siano figure di specchiata virtù e buon potenziale, ma che se non valgono quasi sempre (dico “quasi”), vengono smascherati e spostati dal ruolo. O espulsi dal sistema.

Ciò che si può dire è che le leadership attuali sono molto meno influenzate dal modello del leader carismatico-profetico, che riusciva a incantare le masse, perché era un medium tra esse o addirittura peggiore di esse. Si pensi ai carismi assassini dei responsabili delle tragedie del ‘900, che hanno ancora imitatori pericolosissimi, ma non della stessa micidiale caratura (speriamo).

Ancora, proprio per ragioni dialogiche, riporto un passo di Luigino Bruni: “I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.

La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.

(omissis) È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).

Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.” (Fine testo di Bruni)

Sono in parte d’accordo con Bruni quando propone il contrasto tra i termini vincenti e perdenti, specie se nella comune vulgata i perdenti sono trattati con disprezzo, e mette in questione il termine successo, quando questo termine smette del tutto di essere il participio passato del verbo succedere e costituisce meramente l’unica linea guida di una vita… ché poi basta una malattia o un rovescio inaspettato per far crollare tutto l’impianto di superbiosa grandezza di una persona-di-successo.

Non sono d’accordo con lui quando critica in modo un po’ indifferenziato le “scuole di leadership” aziendali, perché anche tra queste bisogna distinguere, come ho cercato di fare supra.

Infatti, se proponendo degli studi seminariali sulla leadership in azienda, la si imposta partendo da una sana antropologia filosofica e da un’etica ben declinata, dove si sintetizzano diritti e doveri, rispetto delle persone e perseguimento del business, si fa un’operazione utile, opportuna, necessaria e, direi, perfino, obbligatoria, se si vogliono, da un lato evitare le storture paventate da Luigino Bruni, e dall’altro dare valore al contributo diverso e sempre più colto e professionale delle giovani generazioni che si affacciano al lavoro.

La differenza tra me e Bruni è questa: lui svolge delle valorose ricerche accademiche per un tempo superiore al mio; io faccio quasi altrettanto, ma ben immerso nella realtà effettuale delle aziende e del mondo economico.

Le mie sono Teoria e Prassi utilmente in relazione, che sono sempre disponibile a condividere, come peraltro sto facendo con la Facoltà teologica cui afferisco, e con gli altri soggetti formativi, accademici e aziendali, con i quali collaboro.

Gli imbrattatori (illi illaeque qui virtuose docendi populo credunt)

Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.

Babbei e babbee

Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.

Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.

Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.

Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.

Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.

Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.

Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.

Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?

Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.

Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.

Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.

Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.

Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.

Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.

Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.

I “partigiani della pace”, brutta e scadente categoria antropologica

Fu Stalin il loro primo mèntore, trovando seguaci in tutto il mondo occidentale, tra cattolici e laici, protestanti e a-tei. Furbo, volpino, Giuseppe Stalin, ovvero Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), il Georgiano. Come Lavrentj Berija.

Stalin, il partigiano per la pace (figuriamoci!)

I nuovi furbi-ingenui- falsi pacifisti sono i Moni Ovadia, che scrive al presentatore Amadeus, chiedendogli di impedire la trasmissione di un video di Zelenski durante il prossimo festival di Sanremo, in compagnia di Salvini, Gasparri e qualche altro, trasversalmente ai partiti, l’oramai obsoleto prof (e de che?) Orsini, le Littizzetto, i Santoro, i Travaglio, i Conte, del giornalismo e dello spettacolo, e della politica come furbo avanspettacolo (senza offesa per il geniale modus theatralis popularis). Faccio notare che a Sanremo spesso la vita “vera” ha fatto una giusta intrusione tra lustrini e paillettes! Tutti costoro sono, obiettivamente, seguaci di Stalin, anche se non lo vogliono.

l ritratto più conciso e impietoso del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”.

La colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, sotto sotto (neppur tanto), del capitalismo come negazione della libertà nella giustizia, che sono le vere premesse per una pace onesta. 

Perché costoro non vanno ad abitare nella Russia putiniana se tanto gli piace?

Li definisco “orrendi” perché in loro si sintetizza tutto ciò che di falso e di fuorviante appartiene all’attuale trista stagione della disinformazione, comunque generata, o da ignorantia vulgaris, o da insipientia intellecti, oppure da deiectio animae. Brutti.

Sono come una deiezione logica del pensiero razionale, come ciò che esita dall’alimento animale e contribuisce alla fertilizzazione del campo da arare e seminare, ma velenoso. Sono brutti perché malvagi e impuri di cuore.

Come si fa a dire che il Presidente dell’Ucraina è solo un guitto che ha trovato la sua occasione della vita?

Si vergognino! Nel mio piccolo farò, finché avrò la forza per farlo, di tutto per smascherarli.

« Older posts

© 2023 Renato Pilutti

Theme by Anders NorenUp ↑