Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Il radicalismo “sbagliato” e quello “giusto”

Un titolo così netto pone immediatamente problemi gnoseologici, intellettuali e storico-politici. Tento ugualmente una sintesi, soprattutto rivolta ai lettori miei più giovani, ma non solo a loro.

Giulio Alessio


Innanzitutto ci si deve chiedere: che cosa è in generale il Radicalismo politico? Si può tentare una risposta sotto due profili, come sempre accade quando si tratta di descrivere movimenti socio-politici o culturali: a) il radicalismo storico, e b) quello meta-storico e u-cronico.

In altre parole, si può parlare, innanzitutto, come si definisce supra: a) di radicalismo pensando al Partito radicale ottocentesco che si presentò con successo anche al Parlamento savoiardo e in altri consessi di nazioni europee, dove i sovrani stavano lentamente venendo costretti a “concedere” Leggi costituzionali atte a superare il modello autocratico del potere monarchico in vigore da secoli, e al radicalismo novecentesco, di stampo – dici potest – cultural-liberale; inoltre, b) si può anche pensare al radicalismo politico come estremismo.

Il radicalismo storico è caratterizzato dalla sua posizione intransigente in ordine a una serie di principi umanisti, razionalisti, laici, repubblicani e anche anticlericali, e per una visione più socialmente e culturalmente più avanzata della società da una prospettiva “liberale” progressista, con particolare attenzione ai diritti civili e ai diritti politici.

Nella seconda metà dell’Ottocento i “radicali” erano l’ala più estrema del liberalismo, come una sorta di sinistra liberale. Le proposte politiche del movimento tendevano all’egualitarismo politico, a partire dal sistema elettorale, circa il quale sostenevano il suffragio universale, superando prima di tutto le distinzioni di censo, cioè economiche, l’abolizione dei titoli nobiliari dell’aristocrazia, e il sistema istituzionale repubblicano. Non poco. Per i radicali, inoltre, era fondamentale la libertà di opinione e di stampa e la separazione netta delle prerogative dello Stato da quelle della Chiesa cattolica.

Il radicalismo storico è intransigente circa l’affermazione di principi umanisti, razionalisti e laici, fino a un anticlericalismo spesso molto spinto. D’altra parte si trovavano ancora di fronte i papi-re, alla Pio IX soprattutto, ma anche à la Leone XIII. Per i radicali dovevano dunque essere affermati e perseguiti nuovi diritti civili e politici. Questo accadeva, in particolare in Italia, mentre altrove questa cultura politica si sviluppava in modo diverso.

Ad esempio, negli Stati Uniti, dove la cultura e i partiti di ispirazione socialisteggiante non potevano trovare spazio, si sviluppò una cultura politica di tipo radicale denominata liberal, che diede origine storica a uno dei due grandi partiti americani, il Partito democratico, un partito, si può dire, di stampo socialdemocratico, se vogliamo utilizzare una definizione “europea”. In America, dunque, i liberal erano socialdemocratici, mentre il termine radical già significava un qualcosa di simil-marxista, area che si sviluppò poi nel Novecento con i movimenti giovanili, di genere (Angela Davis) e nella militanza antirazzista (Malcolm X).

Tonando alla storia italiana contemporanea, il radicalismo ottocentesco traeva la sua linfa etico-politica dal mazzinianesimo, laico e repubblicano, e dal retaggio garibaldino, con riferimento, tra altri, al federalista repubblicano Carlo Cattaneo, e al mazziniano Carlo Pisacane.

Tra i radicali della seconda metà dell’Ottocento si poteva anche annoverare una fascia relativamente più moderata, che accettava un transizione democratica più lenta e implementabile anche con l’accettazione della monarchia regnante, visto che l’unità d’Italia era avvenuta sotto i Savoia.

I punti fondanti del programma della sinistra radicale, l’unica che aveva deciso di distinguersi dai moderati, si possono sintetizzare in questo modo, così come furono proposti e approvati nei loro Congressi di Roma del novembre 1872 e del 13 maggio 1890:

  • la completa separazione tra Stato e Chiesa;
  • il superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
  • la promozione dell’ideale federale degli Stati Uniti d’Europa così come proposti da Carlo Cattaneo;
  • l’opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo;
  • l’indipendenza della magistratura dal potere politico;
  • l’abolizione della pena di morte;
  • la tassazione progressiva;
  • l’istruzione gratuita e obbligatoria;
  • l’emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
  • il suffragio universale per uomini e donne;
  • un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
  • sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
  • la riduzione dell’orario di lavoro e del servizio di leva. …non sembra essere poco, vero? Obiettivi che sono stati raggiunti, e certamente non del tutto, solamente solamente con la Repubblica democratica fondata sul lavoro di cui alla Costituzione del 1948!

Tornando brevemente alla storia, Il Partito Radicale Italiano si costituì ufficialmente in partito politico nel corso del I Congresso Nazionale a Roma il 27-30 maggio 1904. All’epoca il presidente del partito era Ettore Sacchi, che progressivamente lo condusse alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell’età giolittiana (1903-1914). Contemporaneamente un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, fu per molti anni alla presidenza della Camera dei Deputati (1904-1919).

Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all’invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla presidenza della Camera. Dopodiché tra il 1904 e il 1905 parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II. Successivamente non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche contribuirono alla sua caduta.

I radicali si scissero poi sul sostegno dei due governi guidati da Alessandro Fortis (1905-1906), antico militante radicale. Infatti anche se la maggioranza del gruppo parlamentare si schierò all’opposizione, accusando il governo di poca chiarezza programmatica e di trasformismo (malattia endemica della politica italiana. Se chiedessi al mio gentile lettore se riesca a individuare un campione contemporaneo del trasformismo più bieco, sono convinto che anche i meno frequentanti i discorsi politici non avrebbero dubbi nell’indicarlo nell’avvocato Giuseppe Conte, capace di tutto e del suo contrario, non tanto nell’agire, ma nel dire e disdire), due deputati radicali vi entrarono come sottosegretari.

Dopo la caduta di Fortis, Sacchi strinse un accordo con il presidente della destra storica Sidney Sonnino per la formazione di una maggioranza antigiolittiana, sia pure eterogenea. Il governo Sonnino I nacque con il sostegno dei radicali, del Partito Socialista Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Nel successivo governo presieduto da Giolitti i radicali si schierarono nuovamente all’opposizione. Nel 1910 vi entrarono invece nel governo Luzzatti, con Sacchi come Ministro dei Lavori pubblici e nel 1911 (Governo Giolitti IV) e Francesco Saverio Nitti come Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio.

Nell’imminenza delle lezioni politiche del 1913 il Partito Radicale riuscì a fare approvare dal Parlamento una delle sue istanze prioritarie, il suffragio universale, sia pur soltanto maschile. Le elezioni successive in cui il partito conseguì il massimo numero di deputati della sua storia (62) furono tuttavia segnate dalla svolta della politica giolittiana impressa dal Patto Gentiloni (dal nome dell’avo dell’attuale politico del PD Paolo Gentiloni, conte Silveri), cioè l’accordo elettorale del partito di governo con le gerarchie cattoliche in funzione anti radicale e anti socialista. Di conseguenza nel successivo congresso che si tenne a Roma nel febbraio 1914 in un ambiente infuocato il Partito Radicale votò a grande maggioranza l’uscita dal governo. La figura di Nitti, molto importante in quella fase politica, merita si riporti qui una sua foto.

Francesco Saverio Nitti

Alla vigilia della Prima Guerra mondiale il Partito Radicale nel solco della tradizione mazziniana e risorgimentale si collocò per la maggior parte sulle posizioni dell’interventismo democratico. Tale linea, non fu unanime (lo stesso Ettore Sacchi evitò di pronunciarsi nettamente) e soprattutto segnò un fossato non facilmente colmabile con i socialisti, isolando il radicalismo dal panorama politico parlamentare. I radicali rientrarono nella compagine governativa solo nei due governi di unità nazionale (1916-1919) di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando.

Il radicalismo laico e democratico italiano ebbe – all’inizio del secolo – figure significative quali il repubblicano Ernesto Nathan, ebreo, e il Nitti, eccellente economista e fautore della dottrina politica denominata Meridionalismo, atta a superare l’enorme divario socio-economico con la restante parte dell’Italia. Su questo il lettore farebbe bene a informarsi su come il Regno sabaudo incorporò il Sud Italia e anche sul tema del così detto “brigantaggio”, che non fu storia di mero banditismo, come la vulgata ufficiale dell’epoca voleva.

Nathan, dal 1907 al 1913 fu sindaco repubblicano di Roma con il sostegno dei socialisti, si rese fautore di accese battaglie a beneficio dei ceti più poveri della Capitale e contro le ingerenze della Chiesa Cattolica, con un papa, Pio X, Giuseppe Sarto da Riese, che riteneva essere (a mio avviso, sbagliando) la Chiesa unica depositaria dell’educazione dei bambini e dei giovani.

Nitti era stato Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel governo Giolitti IV ed esponente della minoritaria corrente neutralista del partito alla vigilia della grande guerra. Fu il primo radicale a diventare Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, per cui si trovò alle prese con il problema della smobilitazione dell’esercito dopo la prima guerra mondiale; varò un’amnistia per i disertori, avviò un’ampia indagine sull’arretratezza e i bisogni del Mezzogiorno e fissò un prezzo politico per il pane. Fu tuttavia travolto dalla crisi connessa all’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, su cui scrissi tempo fa un piccolo saggio pubblicato su questo sito dal titolo “ll Poeta Soldato”, e che non fu mai fascista come molti ritengono.

Il 12 giugno 1921 la delegazione alla Camera del Partito Radicale costituì un gruppo parlamentare unico, Democrazia Sociale, insieme agli eletti di Democrazia Sociale e a quelli di Rinnovamento Nazionale (una lista di deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti) per un totale di 65 deputati. Un analogo raggruppamento fu costituito in Senato. Il 25 novembre 1921 avvenne la fusione tra i gruppi demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico, che divenne il più numeroso, sia alla Camera (150 deputati) sia al Senato (155 senatori).

Nel gennaio del 1922 fu costituito il Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale, cui aderì anche la direzione del Partito Radicale, sancendo di fatto la propria dissoluzione. Quest’ultimo organismo al primo congresso svoltosi a Roma nell’aprile 1922 dette forma al nuovo partito denominato Partito Democratico Sociale Italiano, cui peraltro non aderirono alcuni esponenti radicali quali Francesco Saverio Nitti] e Giulio Alessio.

Il PDSI accordò la fiducia al governo Mussolini e fece parte della squadra governativa con due ministri sino al 4 febbraio 1924; il giorno successivo il partito abbandonò la maggioranza di governo, passando all’opposizione. Si presentò poi alle elezioni politiche italiane del 1924 con una lista autonoma e ottenendo un misero 1,55% dei suffragi e 10 seggi.

Nonostante l’iniziale fiducia del partito demo-sociale al fascismo, il radicalismo italiano continuò a esprimersi prima e dopo il delitto Matteotti nel rigoroso antifascismo di uomini come Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale (nome del movimento e anche della rivista da questi fondata e diretta) ha rappresentato il tentativo di rifondare il liberalismo in senso progressista e popolare con un occhio all’ideologia socialista o come allo stesso Nitti. Nel novembre 1924 numerosi esponenti radicali indipendenti (Giulio Alessio, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini e Nello Rosselli) aderirono al movimento fortemente antifascista dell’Unione Nazionale delle forze democratiche e liberali di Giovanni Amendola (in seguito morto a causa di un’aggressione fascista e padre del noto esponente del PCI Giorgio, leader con Giorgio Napolitano dell’area cosiddetta “migliorista”, cioè moderata e gradualista, del Partito Comunista Italiano nel Secondo dopoguerra).

Nel dopoguerra il radicalismo storico ha fatto capo a personalità come Ernesto Rossi, e soprattutto a Riccardo (più noto come “Marco”) Pannella, che guidò importanti lotte per i diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza, che pongono non banali problemi di riflessione morale e furono occasioni di gravi divisioni nel Paese.

L’importante, oggi, è non ritenere che questi due diritti civili siano un qualcosa da cui possono germinare ulteriori normative di legge che rispondano a esigenze non strettamente legate a ciò che si può configurare come “Diritti fondamentali” dell’uomo. Non approfondisco in questa sede il tema, perché lo ho già affrontato recentemente, sempre qui, ma mi limito ad un breve elenco.

Se si dice che può definirsi come diritto civile la separazione e il divorzio in una coppia umana, e che anche l’interruzione di gravidanza può essere considerato dolorosamente tale, non altrettanto – a mio avviso – si può dire che la gravidanza per altri, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali siano comparabili ai due “diritti” sopra citati, ma piuttosto si tratti di desideri, se non di capricci egoistici. Sempre a mio avviso, sapendo che molti (non credo la maggioranza) la pensano diversamente da me.

Avere un figlio non può essere ritenuto semanticamente ed eticamente un DIRITTO, ma un DONO della natura e dell’intelletto umano!

Alcune righe dedicherò, inoltre, all’altro tipo di radicalismo, quello che ritengo sbagliato, negativo, pericoloso, dannoso e diseducativo. Quello connotato da idee, organizzazioni, comportamenti e atti estremistici che possono traguardare nel terrorismo, negli attentati e negli omicidi.

Ho conosciuto nella mia vita molte persone coinvolte in idee e anche atti “radicali”, estremi di varia gradazione e natura. Ad esempio militanti dell’estrema sinistra, un tempo detta extra parlamentare, dagli ultimi anni ’60 agli anni contemporanei. Ebbene, distinguo tra chi – tra costoro – si è limitato a dire, scrivere e sostenere la liceità di un cambiamento sociale usando anche metodologie radicali, come lo sciopero generale, e programmi in comune con le sinistre storiche, e chi invece, seguendo le idee marx-leniniste e anarco-estremiste, hanno ammesso, sostenuto e anche praticato la lotta violenta, armata.

Bene, quest’ultimo è il radicalismo sbagliato, dannoso, pericoloso, diseducativo, prima ancora che per ragioni di carattere giuridico-legale, per ragioni di carattere antropologico-filosofico ed etico. Fondamentali.

Costoro NON CONOSCONO l’uomo nella sua struttura complessa, fisica, psichica e spirituale, e ritengono che il cambiamento sociale radicale modifichi l’uomo nella sua struttura, per cui in una società comunista o anarchica, l’uomo smetta di essere egoista, egocentrico o addirittura egolatrico, e diventi, per il fatto stesso che vive in una “società-giusta”, giusto, virtuoso, generoso, altruista, buono. Sia che sia povero, sia che sia ricco, sia che sia dipendente, sia che sia imprenditore o dirigente, ognuno deve guardarsi dentro e cercare di vedere le proprie imperfezioni, cercando, prima di tutto di auto-riformarsi, come insegnano il radicalismo moderato e la dottrina evangelica.

NON E’ VERO che cambiare la società cambia interiormente l’uomo, perché l’uomo è una commistione irrisolvibile di sentimenti (natura) buoni e malvagi, di comportamenti egoisti e generosi, di pensieri corretti e sbagliati, di obiettivi ragionevoli e irragionevoli.

Perciò il radicalismo estremista è sbagliato, non solo per ragioni politiche, ma primariamente e più di tutto perché relate alla struttura stessa dell’uomo, che è cagionevole, fragile, imperfetta. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, perché un filo di malvagità così come un filo di bontà alberga in ogni cuore, come insegnavano bene sant’Agostino e Blaise Pascal, più e meglio di altri.

Nessuno escluso, caro lettor mio.

Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

Per scrivere questo pezzo traggo ispirazione da “Mellog”, programma di Radio 24, egregiamente moderato da Gianluca Nicoletti (“Mellog” è – si può dire – l’alter ego qualitativo, a mio avviso – di quella schifezza morale de “La zanzara”, quest’ultima trasmissione evidentemente pensata e programmata per l’80% della “gaussiana” d’Italia, che io sostengo essere quella adatta agli “intellettivamente indifesi”, condotta e “moderata” (per dire) da due signori che fanno penosamente finta di litigare (ma questi due professionisti pensano veramente che, e sia pure quello-che-è il tipo di pubblico che li ascolta e che telefona facendosi spesso sbeffeggiare e insultare dai due conduttori, almeno qualcuno di tra quel pubblico non si accorga della loro quotidiana pantomima?), Parenzo per la sinistra e Cruciani per la destra, la trasmissione per la “pancia dell’Italia”, come spiega Cruciani, nel silenzio assoluto dell’editore Confindustriale, al cui attuale Presidente ebbi perfino a scrivere una “Riservata-Personale”), che ogni dì (parlo di “Mellog”) propone un civile dibattito su temi di societas fatti di ethos, di politica, di cultura e di economia. Un tema tra altri, attualissimo, sulla microcriminalità metropolitana; la domanda: come ci si deve comportare con le scippatrici seriali delle stazioni, organizzate in bande di minorenni? Le tre ipotesi proposte da Nicoletti alla discussione e alla scelta dei radioascoltatori: a) reagire ai tentativi di furto con destrezza, anche rudemente (come peraltro è già capitato), che è risultata “la più votata”, b) denunziare i fatti alle autorità di polizia, già sapendo che nulla accade alle protagoniste organizzate per piccole bande, dopo una prima identificazione, c) suggerire al legislatore nazionale e al governo cittadino di mettere a punto degli apparati telematici atti ad impedire che le furfantelle entrino nelle stazioni di treni e metrò per dar vita alle loro “imprese”…

Un bel trilemma.

Una quaestio disputata, come avrebbero detto/scritto Tommaso d’Aquino, Alberto di Colonia, suo magister, o Johannes Meister Echkart, docente alla Sorbonne, abbastanza imbarazzante, sia sotto il profilo morale, sia sotto il profilo socio-educativo, sia sotto il profilo civile e penale, per quanto – generalmente – si tratti di atti di non eccezionale momento criminale, ma comunque assai fastidiosi, specialmente se perpetrati nei confronti di cittadini fragili come egli anziani, che non vengono “esentati” dagli “attacchi” come obiettivi, anzi, al contrario sono spesso preferiti, proprio perché maggiormente indifesi e di facile approccio.

Nel nostro tempo, almeno da mezzo secolo, la sociologia come scienza “a-valutativa” o quasi meramente descrittiva, ci ha spiegato che tutto ciò che accade nella società è prevalentemente generato dalla… società stessa, come soggetto collettivo. Ovviamente, tale descrittività possiede intrinsecamente una robusta valenza politico-morale, poiché mette obiettivamente “a lato” o tra-parentesi la responsabilità personale-individuale di atti liberamente compiuti. Poniamo pure che il disagio generato da azioni sbagliate nasca dalle ingiustizie sociali, per cui consegue che, se la politica riuscisse a rimediare alle ingiustizie, magari solo come effetto secondario (se pure utilissimo), otterrebbe un miglioramento delle relazioni sociali, inter-soggettive, intergenerazionali, e infine una drastica riduzione della criminalità, a partire da quella minore.

Si potrebbe commentare in questo modo: magari fosse così, ma non è così, ed è facilissimo provare a individuarne le ragioni con un esempio semplicissimo come il seguente: a parità di condizioni sociali di disagio si hanno esiti molto spesso assai differenti: da una famiglia disagiata può uscire un giovane che diventa facile preda di esempi delinquenziali e vi aderisce, e un suo fratello che, invece, decide di percorrere una strada radicalmente diversa, positiva, di impegno, di lavoro, di studio, di crescita personale e professionale. Nel caso esposto, si può trattare di due fratelli, che possono essere perfino gemelli monozigoti. Ciò spiega con chiarezza come le componenti filogeneticamente generative di esiti eticamente positivi o negativi attengano anche ai caratteri delle persone singole, non solo alle condizioni economiche. Questo ragionamento già spiega la ragione per cui più sotto esprimerò una critica severa alla presa di posizione della consigliera comunale del PD milanese, Monica Romano.

Riporto un brano giornalistico che attiene alcuni fatti accaduti recentemente a Milano.

“Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».

Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L’autrice, appena eletta nell’assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell’ordine».

Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori PD («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolatadove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il PD si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l’attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l’idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell’ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c’è stato il PD. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».

Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l’immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».”

Dico la mia: se, ovviamente, sono contrario a “giustizieri” à la Charles Bronson (poi bisogna vedere, de facto, a come uno può reagire se dei criminali gli ammazzano la famiglia, se si limita a chiamare i Carabinieri…), quello che mi dispiace e mi disturba è la visione quasi unilaterale, indulgente e comprensiva che traspare dai toni usati dalla consigliera milanese, e dal paventare conseguenze per chi dovesse reagire ai furtarelli con destrezza. Faccio un esempio. Se la vittima, invece di essere una pensionata settantacinquenne, ben scelta dalle ladruncole, si fa per dire, perché resa lenta dall’età e facilmente spaventabile, la “vittima” è un cinquanta/sessantenne allenato alle arti marziali, che con una mossa di judo, senza farle male, mette in condizioni di non nuocere la bambinotta, che conseguenze dovrebbe patire questo signore?

Io ho qualche dubbio che possano configurarsi estremi di reato, perché si tratterebbe di una reazione proporzionata e non destinata ad offendere, quella del judoka. Non si tratta mica di lodare operazioni come quelle della polizia americana, che pare essere fuori controllo in molte situazioni.

Non dimentichiamo che vige, sia in morale sia in punto di diritto, il diritto sacrosanto alla legittima difesa, per cui, se una/o cerca di derubarmi, io resisto e, se posso, cerco di divincolarmi dal rischio, anche spintonando l’aggressore. O non vale più, cara consigliera? Peraltro la signora consigliera milanese minaccia di denunziare non tanto chi dovesse predicare o praticare le vie di fatto reattive, ma chi cerca di documentare questi fatti per fornire una documentazione probatoria alle polizie. Mi sembra che il principio di tutela della privacy delle ladruncole non possa prevalere sul principio di tutela dell’integrità psicofisica del cittadino, perché uno strattone violento a una signora e o a un signore anziani li può far cadere per le terre con il rischio prossimo di rottura di qualche arto. Magari il femore. Viene prima, in una scala morale, la tutela della privacy o la salvaguardia di un femore già cagionevole per densitometria?

Questo per quanto concerne la concretezza di quegli eventi da strada.

E veniamo agli aspetti etico-sociologici, pedagogici e di diritto. E’ evidente che una delle cause generative di quel fenomeno criminale è da collocarsi negli ambienti che li producono, nelle famiglie delle ragazzine, nell’educazione che (non) ricevono, nelle loro esperienze di vita. Ecco: se però l’ambiente che le “produce” è tendenzialmente o realmente insensibile alla cultura del rispetto della proprietà e soprattutto dell’integrità psico-fisica altrui, è evidente la difficoltà di accedervi con strumenti educazionali e pedagogicamente adatti.

L’ente locale e le forze di polizia devono allora impegnarsi primariamente nella ricerca di quelle famiglie per ottenere il rispetto dell’obbligo educativo di legge, entro il quale vengono proposti i valori principali della convivenza civile, e poi anche procedere nella vigilanza e, ove necessario, nel contenimento di quei “reati” (virgoletto in quanto formalmente non sono reati penali quando commessi da minori).

La politica e il legislatore debbono, nel contempo, emanare norme che contengano, sia la parte construens dell’educazione morale e civica, sia la parte di prevenzione del rischio per tutti i cittadini, comprese le ragazzine che, forse inconsapevoli, anch’esse si sottopongono a dei rischi.

INAUDITE STUPIDAGGINI A BOLOGNA! …e bravo “compagno” sindaco! Il termine “patriota” tolto dalle vie di Bologna che, secondo Lei, sarebbe la città più progressista d’Italia. Sono allibito ma non meravigliato, perché la idiotissima “cancel culture” alligna proprio (con mio sommo dispiacere) anche nel partito oramai ulteriormente orientato alla ZTL (cioè votato prevalentemente da (o “a”, tanto è quasi la stessa cosa) chi abita nelle Zone a Traffico Limitato, che non è detto condividano l’operato del signor Sindaco, anzi ho notizie di prima mano proprio dalla ZTL di quella nobile Città a me carissima, ed ecco che proprio non è la stessa cosa il “da” o l'”a”!, che così non è; si preoccupi, Sindaco, si preoccupi…)

Per non sbagliarmi citerò – virgolettando – l’articoletto pubblicato oggi, 11 Marzo 2023, sul Currierun de Milan.

“(omissis) …prova a riscrivere la toponomastica: il Comune di Bologna ha deciso di uniformare i sottotitoli dei toponimi cittadini dedicati agli uomini e alle donne che fecero la Resistenza lasciando solo i termini “partigiano” o “partigiana” e togliendo tutte le altre denominazioni a partire dal termine “patriota”.

Bologna, via la parola “patriota” dalle strade dei personaggi della Resistenza: “Saranno definiti partigiani”

La motivazione ufficiale è che c’era bisogno di uniformità (chissà perché? ndr), ma è chiaro che dietro c’è il tentativo maldestro di eliminare una parola, patriota, che oggi è utilizzata, a volte strumentalizzata, dai militanti di Fratelli d’Italia. E’ lo spirito (idiota, ndr) del tempo: sui social ci sono parlamentari di FdI che postano la foto di Meloni augurando una “buona giornata ai patrioti”, ma la risposta non sta nel cancellare la parola sotto ai nomi di chi ha combattuto il nazifascismo.

Per dirla con lo storico Luca Alessandrini, la parola ha radici profonde nella sinistra risorgimentale (Mazzini, Garibaldi, Nievo…, ndr), e magari sarebbe utile ricordare che la rivista dell’Anpi si chiama Patria indipendente. Ai tempi in cui governava il sindaco Guazzaloca circolava una battuta: “Quando non hai progetti da approvare in giunta, cambia i nomi alle vie, se ne discuterà per mesi“. Non è questo il caso di Lepore, ma per diventare la città più progressista d’Italia, non serve pasticciare con la storia.”

Condivido e sottoscrivo ogni parola e ogni riga dell’articolo qui riportato, aggiungendo solo che, veramente, ogni giorno che viene pare avere la sua sorpresa inadeguata, quand’anche ridicola, e a volte, come in questo caso, storicamente e moralmente offensiva. Chissà se vi sarà qualche buona persona, e intelligente, della sinistra bolognese, che si voglia opporre a questa autentica imbecillità. Dico subito che c’è, io so che c’è!

Lo so, in buona compagnia, non solo del Professor Luca Alessandrini, ma anche del Professor Giovanni Orsina, e di chissà quanti altri saggi cittadini bolognesi di quella sinistra democratica e gradualista di cui Bologna va giustamente fiera, come chi mi ha scritto in tema.

Mi chiedo anche se il saggio compagno Bonaccini abbia condiviso la scelta. Ne dubito fortemente. Forse lo condivide chi lo ha “battuto” alle primarie del PD, ma non ne sono del tutto convinto, perché attribuisco alla neo Segretaria qualche discreta facoltà di riflessione, se non altro perché giovane e senza zavorre mentali di sorta.

Con questa decisione, non so se il Signor Sindaco se ne rende conto, la destra, e Fratelli d’Italia in particolare, si possono fregare le mani, perché a questo punto possono annettersi completamente il concetto, il lemma, il termine, la parola, in definitiva la semantica storica di “Patrioti” italiani, comprendendo anche quelli tipo Mazzini, Garibaldi e Nievo, tentativo già fatto da sor Benito, non a caso sozialista romagnolo, prima del suo fascistismo fascista.

Se il Signor Sindaco sapesse chi mi ha scritto condividendo – in toto – la mia opinione, forse si farebbe qualche domandina.

Le quattro anatre

Guccini cantava “cinque anatre volano a Sud…”, io invece, in una mattinata marzolina ero nella grande piazza della città. Una della più grandi d’Italia, la seconda del Nordest dopo il Prato della Valle di Padova, a Udine: Piazza I Maggio, sovrastata dal leggendario Castello, che è una collina (residuo della morena glaciale di migliaia di anni fa) da cui si tramanda che il re unno Attila ammirò l’incendio di Aquileia. Leggende. Tutt’intorno ampie strade e palazzi, luoghi di convivio e per manifestazioni e passeggio di signore, di uomini e cani.

cinque anatre stanno…

Sullo sfondo stanno il nobile Liceo ginnasio della mia gioventù, la Basilica dedicata alla Madonna delle Grazie, che fece un’antica grazia e poi tante altre, custodita dai Servi di Maria, tra i quali qualche anno fa meditava e insegnava il Padre David da Coderno di Sedegliano. Poeta, predicatore. Così mistico ma a volte scostante, e perfino un po’ antipatico. Furlano, a tre e sessanta, come c’a si dîs.

A un tratto lo starnazzare improvviso di un uccello mi fa girare lo sguardo. Un’anatra selvatica marroncina, una femmina, svolazza per sfuggire all’assalto di tre coloratissimi maschi che, si vede, la “desiderano”. Commento con un passante: “Sono germani reali, i tre maschi sono fatti come noi umani maschi“. Ci si sorride.

Lo starnazzamento continua perché i tre maschi inseguono decisi la femmina che li distanzia con piccoli svolazzi. Lo straordinario accade subito dopo… Prima uno degli “anatri” comincia a staccarsi da gruppo e si ferma, poi un secondo, si ferma. Nel frattempo la femmina, volata avanti per una quarantina di metri, sta ferma. Allora, il terzo maschio, camminando lentamente ma con decisione si avvicina alla femmina, che lo sta aspettando! Raggiuntala, si mettono a camminare l’uno al fianco dell’altra, come un signore e una signora, verso di me che intanto li avevo preceduti.

Alle mie spalle nel frattempo stavano arrivando dei bimbi; si vedeva che erano un paio di classi delle elementari con le rispettive maestre. Mi rivolgo alle due signore dicendo: “Buongiorno maestre, posso spiegare ai bambini che cosa ho appena visto“. Il loro sorriso mi dà la parola. I bimbi mi guardano, mi ascoltano attenti e nel contempo si accorgono dei due volatili che si stanno avvicinando.

Non finisco di spiegare che già i piccoli e le piccole hanno in mano i telefonini e con gridolini di meraviglia si mettono a fotografare i due animali, che paiono mettersi in posa.

Il gruppo si ferma, commenti, parole, qualche starnazzo, ma quasi “gentile”, da parte dei due uccelli che sembrano molto interessati all’incontro. I bimbi osservano con interesse il dimorfismo sessuale tra i due animai e chiedono alle maestre: “Perché il maschio è più bello della femmina?” Infatti il “germano” è multicolore e di un verde cangiante sul collo, mentre la “germana” è (solo) di un marroncino diffuso. Le maestre esitano a rispondere, poi lo fanno con qualche imbarazzo: “Perché i maschi devono interessare le femmine, farsi scegliere, e allora madre natura li ha resi più appariscenti…, così possono avere più possibilità di trovare una compagna e di far nascere i paperini…” Silenzio. Chissà cosa passava per ognuna di quelle testoline. Forse un paragone con gli esseri umani, forse.

Quando ero bambino come loro, sette/ ottenne, non sapevo bene come nascessero i paperini, e neppure come venissero al mondo i bambini.

Me ne vado pensando che io sono nato e vissuto tra gli animali da cortile, non nel pollaio, ma contiguo al pollaio, e per me vedere galline, anatre, oche, tacchini e conigli, e anche il maiale, era il quotidiano, e per quei bambini no.

Un mondo cambiato, in qualche modo non in meglio.

Arrestato MMD! E adesso?

MMD è sotto chiave. E adesso? Chi gli ha consentito di stare trent’anni in latitanza, visto che, se si vuole vivere un po’, si deve essere visibili, in qualche modo, almeno per qualcuno, a meno che non si trascorra il tempo in una grotta in mezzo ai boschi o in un luogo remotissimo di caccia pesca e raccolta, come i primi sapiens?

Non mi è piaciuta Meloni che è schizzata a Palermo come una furia per congratularsi con il comandante dell’Arma. Avrebbe potuto farlo il giorno dopo con il Presidente Mattarella alla riunione del Supremo Consiglio per la sicurezza. Mal consigliata o ansia da prestazione da insicurezza? Lei ripete sempre che ha paura di deludere chi si è fidato di lei. Cara Presidente, nessuno le garantirà mai di non deludere qualcuno: operando si sbaglia, è una regola aurea, conosciuta, forse, anche dai citati sapiens primitivi.

Le domande dei giornalisti, cronisti e da studio, come al solito, in generale, fanno pena. Il colonnello comandante dei ROS, alla domanda inopportuna (e stupida) su quanti militari fossero impegnati nell’operazione, ha risposto con garbo e precisione, evitando con eleganza di dare numeri. Ma come si fa, benedetto Iddio, a fare una domanda del genere? Ecché, forse vi può essere una risposta? Me lo chiedo e mi confermo nell’idea e nel giudizio circa la povertà culturale e professionale di questa categoria, aumentata negli ultimi decenni. Altra domanda inopportuna quella fatta all’oncologo che ha in cura quell’uomo nel carcere de L’Aquila: “Si dice (chi lo dice? ndr) che è curato in un modo privilegiato rispetto ad altri detenuti con patologie…”. Risposta: “No, si applica il protocollo per questo tipo di malattie“.

Come si fa a dire, a scrivere, o anche solo a pensare, che la mafia Cosa Nostra sia finita con questo arresto? sarebbe quasi come dire che finisce il genere umano. La mafia, così come la n’drangheta, la camorra e ogni altra organizzazione criminale è una delle manifestazioni del male nell’uomo. perché il Male è nell’Uomo. Insito, incistato, connaturale. Materialisti come Peter Berger, e altri, potrebbero dire che il male fa parte della struttura biologica elettrochimica del cervello umano, sulle orme estreme di Spinoza. Se ciò fosse del tutto vero verrebbe annullata la plausibilità del Diritto penale fin dai tempi del Codice di Hammurabi e del Decalogo biblico di Esodo e Deuteronomio.

E dunque è impossibile sconfiggerla? Finirla? Certamente, con le sole forze di polizia e della magistratura, . Ne sono convinto. Non basta scoprire e reprimere i reati e i loro autori, perché i reati sono peccati morali che nascono nel cuore dell’uomo. Nella mente, nell’intelletto agente, direbbe Tommaso d’Aquino. Il diritto classico prevede, in un brocardo o latinismo giuridico il principio di innocenza (o di colpevolezza) oltre ogni ragionevole dubbio, con la dizione in dubio pro reo: nel dubbio, piuttosto di condannare un innocente, è preferibile non contenere in carcere un colpevole.

MMD, con ironia, pare abbia detto qualche ora dopo l’arresto: “Fino a stamattina ero un incensurato”, poiché, a differenza dei due stranominati (e stramaledetti) predecessori Riina e Provenzano, non era mai stato ristretto nelle patrie galere, pur avendo già subito l’irrogazione di numerose condanne all’ergastolo (ostativo per definizione e da art. 41 bis). L’uomo, che si è vantato di tanti omicidi a da riempire di morti un cimitero, un serial killer razionale e perfettamente in sé, è un uomo comune. Intelligente, forse (anzi senza “forse”) anche garbato, gentile con i suoi carcerieri, capace di stare al mondo, amante delle cose di valore, che si è potuto permettere con i suoi crimini. Questo pare essere MMD.

La mafia, come altre strutture criminali analoghe, vive dentro un dato contesto sociale e culturale. La mafia vive e prospera per scelte di persone concrete, di giri solidali, di famiglie di esseri umani. Si tratta di persone che ritengono di essere speciali dentro un ambiente dove alcuni possono permettersi di esserlo, a differenza della maggioranza degli altri esseri umani, che “non capiscono”, oppure “non meritano”, oppure… niente: l’importante è che non si oppongano, che ubbidiscano, che stiano da parte. Altrimenti… sono morti. Perché il mafioso si sente speciale, diverso, addirittura virtuoso di una sorta di virilità particolare.

Anche in questo caso funziona un meccanismo psicologico e spirituale siffatto: superbia, presunzione, vanagloria, prepotenza, protervia, crudeltà. Costoro non hanno alba di morale comune, o meglio hanno una morale fondata sulla convinzione che vi siano persone con i loro diritti e quasi non-persone, inferiori, che devono limitarsi a no-opporsi. Queste seconde possono essere eliminate senza grandi preoccupazioni, come ostacoli sulla strada dei veri uomini. Omuncoli, ominiccoli, omarelli. Personalmente conosco non poche persone che, se messe-in-situazione, si comporterebbero come i sodali dei mafiosi, come l’autista di MMD, nel senso che di fronte a una leadership carismatica sono per sempre proni. L’uomo è fatto anche così.

Per i mafiosi ciò che è vizio diventa virtù e ciò che è virtuoso è indegno della loro grandezza. Si ricordino gli occhi protervi di Riina durante il processo: le parole negavano ogni responsabilità, ma il suo sguardo uccideva. Il male è nell’uomo. Nell’uomo comune di quella cultura e, purtroppo, anche di altre.

Non conoscono NIetzsche, ma se lo conoscessero ne volgarizzerebbero il concetto di volontà di potenza, e di Schopenhauer l’esigenza di esaltare la volontà erga omnes.

Oggi magistrati, media ed esperti parlano di borghesia mafiosa, opportunamente, sulla linea di una tradizione assai lunga, storica. La mafia e la camorra sono nate nei secoli passati, e sono cambiate nel tempo, ma il sostrato culturale e sociale è rimasto quasi sempre quello che era. E anche il sostrato valoriale (si fa per dire), pure nelle modificazioni sociologiche e territoriali registrate.

Su quest’ultimo aspetto certamente negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, in positivo, soprattutto tra i giovani, mentre nelle generazioni più attempate resta ancora un velo di omertosi silenzi. Basti osservare come rispondono i castelvetranesi più in età, dopo la cattura di MMD.

La scuola deve inserire momenti, modi e moduli formativi, prima ancora che a una cittadinanza sensibile ai valori etici umanistici à la don Ciotti, che non sono in grado di smuovere la pavida rassegnazione dei più (finora, almeno), di carattere filosofico, che diano gli strumenti intellettuali e conoscitivi agli allievi/e per approfondire il tema dell’uomo, della convivenza, della giustizia sociale, dell’equità nella distribuzione del lavoro e delle risorse, dell’equilibrio tra diritti e doveri (sono nauseato nell’ascoltare, dal Meridione, sempre i soliti lai quando accadono disgrazie, un “siamo stati lasciati soli” oramai per me inascoltabile, e datevi una mossa, perdio! come i Friulani dopo le alluvioni e i terremoti!).

Nel contesto temporale di questo arresto esplodono le polemiche sulle intercettazioni telefoniche, su cui la voce e le parole equilibrate del Ministro Nordio vengono travisate e mal riportate.

La lotta alla criminalità organizzata e alle mafie non si fa solo con le polizie e la magistratura, ma con la cultura che pazientemente va fatta crescere con l’impegno dello Stato e di insegnanti motivati e pagati il giusto.

Piccoli MMD non nasceranno e non cresceranno più solo se si opererà di concerto con la cultura, l’educazione civica, e certamente anche con la repressione e le sanzioni, unite a una corretta informazione sociale e mediatica.

La PRESUNZIONE è un sentimento che produce ogni tipo di VANTERIA, e si trova anche in persone celebrate, ad esempio in Umberto Eco, cui ho sentito dire, a suo tempo (le registrazioni video, come tutto ciò che appare sul web, possono diventare una maledizione), tra molte considerazioni interessanti e acute, anche alcune stupidaggini. Nessun uomo è esente da errori: la differenza morale la fa l’atteggiamento dell’uomo che sbaglia, verso i propri errori, accettandoli come limiti e cercando, se possibile, di rimediarvi

In questo pezzo mi occuperò di un famoso intellettuale italiano che non è più a questo mondo, il celebratissimo Umberto Eco, che in una famosa intervista di Rai Storia sento pronunziare kàiros, invece di kairòs cioè, in greco antico, “tempo opportuno” o “tempo spirituale”, in contrapposizione a krònos, che è il tempo fisico, cronologico, appunto. Accentazioni e termini consueti a chi frequenta assiduamente la filosofia. Accenti sbagliati da parte del professor Eco.

Tutti possono sbagliare? Certo, ma è meno plausibile che un filosofo o un matematico o un fisico errino usando termini che fanno parte strutturale del loro sapere e dei loro specifici linguaggio e lessico o, come si usa dire, dello statuto epistemologico della scienza alla quale afferiscono e di cui si occupano. E’ per questo che mi ha un po’ “scandalizzato” sentire Eco sbagliare l’accento di kairòs.

Lui è stato il semiologo semiotico del secolo scorso per eccellenza accademica e scrittoria. E notoria. Ed è stato romanziere di successo. Però, nella stessa intervista citata, lo ho sentito anche…

semiotica e semiologia

…dire acquoreo invece di equoreo, che vuol dire delle acque, del mare… dal latino;

…dare dell’imbecille a una persona che gli chiede se abbia scritto “Il nome della rosa” con il computer, pur avendo lui iniziato a scrivere il romanzo nel 1976, quando non c’erano i pc a disposizione. Mi pare che non occorra offendere chi fa una domanda mal posta, basta rispondere “no, allora non avevamo a disposizione il computer“, vero?

…definire “cattedrale” la Basilica di san Pietro. San Pietro non è propriamente una “cattedrale”, perché la cattedrale di Roma, dove risiede ufficialmente il Vescovo di Roma, è costituita canonicamente in San Giovanni in Laterano, mentre la Basilica di San Pietro, in Vaticano, ha giurisdizione formale e teologica sul katà òlon, cioè sulla cattolicità e sul mondo. Ne fa testo la classica benedizione “Urbi et Orbi”, cioè alla Città e al Mondo, che il Papa impartisce dal Palazzo apostolico;

…affermare in una intervista degli anni ’80 a Rai Storia che “il Medioevo non esiste“, perché sarebbe una convenzione storicistica, facendo esempi assurdi, come il dire che tutti i tempi sono stati “medioevo” rispetto agli evi precedenti e successivi. Se si insegnasse la storia in questo modo alle scuole medie e superiori sarebbe un disastro;

…definire banali coloro che si identificano con i personaggi delle storie raccontate. E studiare un po’ di psicologia generale, signor professor Eco? Nessun essere umano è banale, e tutti sono pari in dignità, anche se pochissimi arrivano al Premio Nobel;

…definire “banale meccanica” la gestazione umana, mentre invece la “gestazione di un libro” sarebbe molto più creativa (sempre nella citata intervista).

Mi pare che Eco non sia né un immenso filosofo, né un immenso intellettuale, ma un buon scrittore di thriller, molto inferiore a uno Stephen King, che ha scritto almeno dieci romanzi del livello de Il nome della rosa.

Mi dispiace di non poter più parlare con quest’uomo.

Qualche parola sulla semiologia, che è uno studio del segno, mentre la semiotica studia l’importanza dei linguaggi verbali e non-verbali. Si tratta di un sapere che ha assunto – solo molto recentemente – uno statuto epistemologico nel senso accademico moderno.

La storia recente di questa scienza può essere fatta risalire agli studi di de Saussure (sémiologie Semiotik), ovvero, in inglese semiotics. Oggi “Semiotica” è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell’ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente “semiologia”.

Ampliando lo sguardo, alcuni, come Ducrot e Todorov, sostengono che esista una “semiotica implicita” nella cultura intellettuale dell’antica Cina e dell’India, così come si attesta una semiotica implicita nella tradizione del pensiero greco, soprattutto nell’ambito del pensiero stoico. Già a quei tempi si riteneva che una specie di semiotica si potesse applicare anche al linguaggio non verbale.

Nel contesto della cultura antica e medievale, la teoria dei segni può essere anche definita come “teoria della rappresentanza”, come nomenclatura degli oggetti. Più tardi, in John Locke per esempio anche le “idee” come “segni delle cose”, e i “segni” propriamente detti come “segni delle idee”. fino alle teorie contemporanee degli studiosi di semiotica come Frege, Wittgenstein, Tarski e Carnap.

Per chi vuole studiare questa disciplina, può essere interessante un semiotico moderno, Charles Morris, che ha disegnato in appendice a SignsLanguage and Behavior (1946) la storia della semiotica dall’antichità a oggi.

Circa la natura e la struttura di segni e immagini, oltre alla semiotica dobbiamo tenere in considerazione anche altre discipline come la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, etc., tenendo comunque in conto che una vera e propria semiotica – come disciplina organica, sistematica e specialistica – si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del secolo XIX, e che i primi riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. XVII e XVIII, con Francis Bacon, Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz.

In definitiva, la semiotica può dirsi una scienza che si trova nell’intersezione tra la logica filosofica e la linguistica strutturale, e richiede il contributo, come ormai molti saperi contemporanei, di più discipline che lavorano in concerto, non in concorrenza, ma sempre al fine condiviso di aumentare la conoscenza dell’uomo e delle “cose” che l’uomo definisce, a partire dagli animali, fin dai tempi del comandamento genesiaco (Genesi 2, 18-20).

L’abbraccio. Il mio saluto fraterno a Gianluca Vialli, grande campione del calcio e uomo coraggioso

L’enorme sagoma di Gigio Donnarumma stava spostandosi ciondolon ciondoloni dalla porta per aspettare un altro tiro, dopo aver parato il calcio di rigore di Sakà (che disperato se ne andava con la sua faccia da bimbo), senza accorgersi che la sua Italia, con quella parata sul ragazzetto nero aveva vinto il Campionato Europeo di football 2020, giocato nel 2021 a causa del Covid.

Vincere l’Europeo di calcio è forse più difficile che vincere il Mondiale, perché in Europa c’è l’80% delle squadre nazionali più forti del mondo. In Sudamerica vi sono le due grandi Nazionali di Brasile (5 mondiali e diverse Copas Libertadores, il campionato sudamericano) e Argentina (3 mondiali e diverse Copas Libertadores), e forse sono da considerare competitive (e non sempre) anche il Cile (vincitore di 2 Copas Libertadores) e la Colombia, ma in Europa abbiamo: Germania (4 mondiali e 3 europei), Italia (4 mondiali e 2 europei), Francia (2 mondiali e 2 europei), Inghilterra (1 mondiale), Spagna (1 mondiale e 3 europei), Croazia, Serbia, Portogallo (1 europeo), Belgio, Olanda (1 europeo), Danimarca (1 europeo) e un tempo tra più forti c’erano anche l’Unione Sovietica, 1 europeo, la Cecoslovacchia, 2 finali mondiali, l’Ungheria, e la Jugoslavia, che oggi, divisa tra Serbia, Croazia, Slovenia, etc., può schierare due o tre nazionali di livello molto alto!… ognuna delle quali ha lo stigma del vincente (un po’ meno Inghilterra, Belgio e le nazionali dell’Europa orientale) quantomeno a livello potenziale.

Vialli, che aveva dato la schiena al gioco, si era ai calci di rigore dopo una partita molto equilibrata contro la perfida Albione, come chiamava l’Inghilterra Gabriele D’Annunzio, per scaramanzia, sentendo l’urlo dei nostri, si è girato e si è lanciato verso Roberto Mancini in un abbraccio infinito, mentre Harry Kane e compagni non accettavano la medaglia d’argento. Gli Inglesi, abituati a vincere quasi tutte le guerre, come racconta la Storia, fanno fatica ad accettare sconfitte, anche se solo nel gioco sportivo!

Anche se il calcio è solo un gioco, quel momento, quell’abbraccio tra i due uomini, amici, compagni e coetanei, è stato forte, per tutti, un abbraccio vitale. Lui, Gianluca, aveva già da qualche anno un tumore cattivo. Io ne so qualcosa e chi mi conosce sa che lo so, e se so che il tumore non-è cattivo, ma è qualcosa che può dirsi oggettivamente presente e possibile nel solco della natura, in ragione o dell’ambiente o della genetica. Quell’abbraccio con il suo grande compagno di calcio, con il quale ha costituito una delle coppie di calciatori più “armoniose” della storia di questo sport così popolare, rimarrà negli annali delle storie sportive e nelle immagini che ciascuno si può portare dentro, come l’urlo di Tardelli dopo il goal alla Germania, quello decisivo, nei mondiali vinti dalla Nazionale italiana nel 1982 in Spagna. Immagine che solitamente associamo a quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che urla a un sorridente Re Juan Carlos di Borbone “Non ci prendono più“, il Presidente Patriota, che poi gioca a scopone sull’aereo del ritorno, in coppia con Franco Causio, perdendo (ecco un altro, Pertini, che odiava perdere…) contro Dino Zoff e Enzo Bearzot, due friulani.

Il compagno di strada, indesiderato, il tumore.

Vialli Gianluca è stato un grande giocatore, forse non un fuoriclasse, dizione che riserviamo – anche restando solo in Italia – magari a Roberto Baggio e a Alessandro Del Piero, a Gianni Rivera e a Francesco Totti, a Giuseppe Meazza e a Valentino Mazzola, ma uno dei più bravi degli ultimi decenni. Con Mancini ha costituito una coppia di attaccanti così ben assortita che ha avuto pochi rivale, per eleganza ed efficacia. Mancini più dotato e più classico, Vialli più combattivo e finalizzatore.

Da sei anni Gianluca da Cremona, così riccioluto e dal simpatico volto da ragazzo alla Cremonese e alla Sampdoria, così virilmente espressivo da trentenne juventino e “inglese”, conviveva con un tumore al pancreas, definito dagli esperti “uno dei più cattivi”. Se può essere “cattivo” un tumore.

Non a caso fu apprezzato molto a Londra, dove il football, ancorché poco vincente a livello di Nazionale, è sport vissuto con grande lealtà e senso professionale. A me piacciono gli Inglesi come giocano a calcio, e anche il loro sistema di stadi, di organizzazione societaria e di pubblico. Certamente, questo mio giudizio vale da quando le normative statali hanno fatto terminare il triste fenomeno hooligan, che invece noi in Italia abbiamo ancora nella vergognosa declinazione razzistica dei “Buuh” verso i Balotelli, i Koulibaly e gli Umtiti.

La sua esperienza con l’ospite indesiderato è stata quella di un uomo forte, così come si mostrava in campo. E sempre auto-ironico, modus espressivo che non sempre mi appartiene. Io faccio fatica a scherzare. Quell’ospite era indesiderato. Io lo so bene, dato che sto vivendo un’esperienza che in qualche modo assomiglia alla sua.

Il mio ospite, cui la mia struttura fisica ha dato una “risposta completa”, perché così la chiamano gli ematologi, è altrettanto se non più subdolo del suo, perché è stato portato in giro per il mio corpo dal sangue, che va dappertutto. Poi, quando è stato scoperto, nascosto negli infiniti anfratti del liquido vitale, è stato attaccato da farmaci potenti e messo a tacere. E poi anche da una riserva del mio stesso sangue risanato, che ha ri-creato il mio sistema immunitario, chiudendo porte e finestre alla “bestia”. Finora. Ri-sanato e io come ri-nato. Il mio stesso nome che papà Pietro volle darmi, senza concordarlo con mamma Luigia.

Penso a Gianluca, più giovane di me, così simile (e ora così diversa) alla mia la sua esperienza. Non lo conoscevo, ma mi pare di avere capito che tipo era. Uno solido, non lamentoso, consapevole del suo valore sportivo e professionale, per il quale ha avuto i giusti riconoscimenti, uomo di non molte parole, e in questo è molto differente da me, che però faccio un altro mestiere, che richiede parole, possibilmente utili a me e soprattutto agli altri.

Non so se qualcuno ci riporterà le sue parole, agli ultimi. Sono sicuro che sono state degne di lui.

Della polemica suscitata da mons. Georg Ganswein sull’uso della lingua latina nelle liturgie, e sul suo ruolo perduto di Prefetto della Casa pontificia dopo la rinunzia di Benedetto XVI e l’elezione al Ministero petrino di Papa Francesco, o del diritto ad attuare lo “spoil system” da parte di chi governa, cioè di cambiare i più stretti collaboratori quando ci si assume un “ruolo direttivo centrale”, e le relative e connesse responsabilità verso la struttura interna e verso tutto il mondo

Sinceramente non mi aspettavo che questo intelligente prelato, mons. Georg Ganswein, neanche terminate le esequie di papa Benedetto XVI, abbia dato fuoco alle polveri di una polemica inutile e dannosa, che riguarda, da un lato la Santa messa in lingua latina, dall’altro il suo ruolo di Prefetto della Casa pontificia, venuto meno -a suo tempo -per volere del nuovo Papa.

E’ evidente che la “cosa” non è nata giovedì 5 Gennaio 2023, ma era latente da tempo e – simbolicamente – molto più profonda di quanto non appaia dalle narrazioni mediatiche, che raramente sono sorrette da un’informazione e da una conoscenza, non dico profonda, ma almeno sufficiente delle complicate questioni inerenti la Teologia cattolica, storica e attuale, la struttura e il funzionamento della Chiesa cattolica, e le tematiche concernenti le Liturgie, vale a dire i Riti e le modalità espressive del Cristianesimo cattolico, nella sua dimensione storica, organizzativa e “gestionale”.

il Cardinale guineano Robert Sarah

In questo pezzo non parlerò delle differenze teologiche tra i due papi, perché ciò richiederebbe un tempo e uno spazio (ed energie) che oggi non ho a disposizione, in ragione della loro complessità, ma prima di parlare dello spoil system, spendo alcune parole sui due temi sollevati da don Georg, quello liturgico e quello organizzativo.

Circa la Santa messa in latino, fu Paolo VI, a seguito delle decisioni assunte con il Concilio Ecumenico Vaticano II, ad ampliare le possibilità linguistiche nella celebrazione di questo Rito fondamentale e teologicamente rilevantissimo del Cristianesimo, soprattutto Cattolico e Ortodosso, perché nel mondo delle Riforme protestanti, salvo che nell’Anglicanesimo, rimasto molto simile al Cattolicesimo, non si può parlare propriamente di Messa, ma di Rito memoriale della cena del Signore, con l’avvio dell’utilizzo delle lingue nazionali e locali, senza proibire od escludere in via assoluta la lingua latina.

La decisione di papa Montini fu una scelta di carattere certamente teologico, con il riconoscimento del valore umano e culturale, ma soprattutto religioso e cristiano dei singoli idiomi umani inseriti nella storia dei popoli e caratterizzanti le varie culture, ma forse ancora di più pastorale, per avvicinare meglio e maggiormente le popolazioni, specialmente le più povere e disagiate alla Parola del Vangelo di Gesù, che è Gesù Cristo stesso.

Ricordo qui anche che la figura di Paolo VI, papa coltissimo e rispettoso della storia e della cultura umana (fu il primo papa a dialogare sistematicamente con gli artisti, seguito in questo da papa Benedetto XVI, ed istituendo la sezione contemporanea nei Musei vaticani, che invito il mio gentile lettore a visitare), era assolutamente aliena da ogni pensiero che escludesse la storicità, il valore liturgico, l’intensità semantica e la bellezza, a mio avviso, incomparabile della lingua latina dagli ambiti della Chiesa cattolica.

Bene, dalla metà degli anni ’60, le liturgie cattoliche si sono potute svolgere nelle singole lingue nazionali e locali. Che cosa fece su questo tema Benedetto XVI? Riprese a considerare la possibilità di un utilizzo liturgico del latino, senza nessun ritorno al passato, magari con la proibizione dell’utilizzo delle lingue nazionali. Papa Benedetto si limitò a ricordare che il latino aveva ancora piena cittadinanza nella Chiesa, e che quindi si sarebbe ancora potuto usare. E Francesco non smentì mai questa possibilità.

Non dimentichiamo che papa Benedetto era un Europeo a tutto tondo, con tutto ciò che tale appartenenza comporta, mentre invece Francesco è un Sudamericano, se pure di origine italiana, con una sensibilità culturale, quindi, molto diversa da quella del suo predecessore nel papato. Altro aspetto: Benedetto era un presbitero, per scelta di studi e per inclinazione dottrinale, “agostiniano”, con tutto l’enorme bagaglio teologico-filosofico che ciò comporta, mentre invece Francesco è totalmente un “gesuita”, con tutto l’enorme peso della politicità della lezione di sant’Ignazio de Loyola. Benedetto ha primariamente a cuore la Fede e la spiritualità, Francesco ha prima di tutto a cuore la Carità universale, che sono due termini teologici assolutamente non contrastanti, ma relati e reciprocamente necessari.

Si pensi che il termine Caritas è presente in tutte e due le principali Lettere encicliche di Benedetto XVI, nella prima, più teologica, Deus Caritas est, vale a dire “Dio è amore”, dall’espressione forse più famosa del Vangelo secondo Giovanni, e nella seconda, Caritas in Veritate, vale a dire “L’Amore nella Verità”, che si incentra sull’amore di Dio per l’uomo e sul collegamento necessario che tale amore esige, cioè che esista tra tutti gli uomini, come condizione per rendere Vero anche l’amore degli uomini per Dio stesso.

E vengo al tema organizzativo. Nel momento in cui Benedetto rinunziò al Ministero petrino e il Conclave elesse Jorge Mario Bergoglio papa, questi, chiamatosi “Francesco” per ragioni oramai molto note e comprese dai più, anche tra i non-credenti, trovò mons. Ganswein nella posizione di Prefetto della Casa pontificia, cioè supervisore del governo di tutto ciò che circonda il Papa dal punto di vista della vita pratica. Non dimentichiamo che Francesco scelse di non alloggiare negli appartamenti vaticani, che ospitano i papi da secoli, ma preferì l’alloggio più modesto nel monastero di Santa Marta. Benedetto e Francesco, da allora, vissero in due “case di preghiera” interne al Vaticano. Nel frattempo, don Georg continuava ad adempiere al ruolo di segretario particolare del Papa emerito.

E’ a questo punto che si verifica la separazione, perché Francesco non ha più ritenuto che il sacerdote tedesco dovesse mantenere anche il ruolo di Prefetto della Casa pontificia e ha scelto di congedarlo da quel ruolo.

Ora, si può ben capire che don Georg non prese benissimo la decisione papale, ma ovviamente obbedì, in silenzio, silenzio che ha ritenuto di rompere (a mio avviso inopportunamente per modalità e tempistiche) ora che Benedetto se ne è andato, esprimendo pubblicamente per iscritto sentimenti che tratteneva da tempo.

Due parole sullo spoil system, cioè sulla possibilità/ opportunità o perfino utilità/ necessità di cambiare i propri collaboratori più prossimi.

Posto che tutti, preti e laici, siamo esseri umani con i nostri pregi e difetti, non è assolutamente strano che Francesco abbia agito come ha agito con mons. Ganswein. Forse tale decisione sarà stata brusca e inaspettata, ma che fosse perfettamente legittima è fuori questione.

Lo spiego: in ogni struttura organizzativa, che richiede politiche gestionali, perché ivi sono coinvolte più persone operative, colui che ha le massime responsabilità, in quanto si trova obiettivamente nella posizione più elevata e difficile, della quale deve rispondere di fronte alla struttura e al mondo, ha bisogno di poter contare a occhi chiusi su chi gli sta più vicino, di avere una fiducia svincolata da ogni altro potere o autorità o carisma, che comunque, soprattutto per quanto attiene autorevolezza e carisma, restavano intatte nel Papa emerito, soprattutto nella percezione di don Georg.

Senz’altro Papa Francesco si è trovato in una situazione nella quale don Georg era e rimaneva l’uomo di fiducia di Joseph Ratzinger, il suo “servitore” (nel senso evangelico del termine) più fedele, che lo conosceva meglio di tutti. E ha deciso di cambiare.

Per esperienza in molti e complessi ambiti economici e aziendali e per ferma convinzione, nata nel tempo dalla mia constatazione che ogni tipo di potere alla lunga logora e fa peggiorare le persone, penso che tutti coloro che si trovano ai vertici di qualsiasi struttura, abbiamo il diritto di muoversi in questo modo, e che, anzi, ciò convenga anche a chi usufruisce del servizio, e nel caso, di ciò-che-è la struttura centrale della Chiesa cattolica, l’ambito delle funzioni del Vescovo di Roma, Primate d’Italia e Pastore della Chiesa universale.

Di un “ego” (io) debordante fin nella vanagloria… cosicché, alla fine, chi è il più ricco di quel “cimitero” di tanti ego?

Una specie di “seminario” del lunedì mattina, oramai da anni mi impegna piacevolmente con l’Amministratore delegato di una grande azienda, l’amico dottor G. (non è Giorgio Gaberschek!). Si parla certamente dell’Azienda stessa e delle consociate, ma anche di millanta altri temi, soprattutto di etica e di politica, siccome in quel posto di lavoro presiedo l’Organismo di vigilanza previsto da una legge dello Stato.

Osservando la fine di alcuni esimi personaggi, come il grande calciatore Pelé e Joseph Ratzinger, a fronte di personalità così rilevanti ci si è chiesti se l’ego di quelle persone sia stato importante per la loro affermazione personale. Abbiamo condiviso il sì, ma in un certo senso, perché non risulta che, né il grande campione brasiliano, né il teologo tedesco diventato papa fossero mai stati caratterizzati da notori comportamenti egocentrici o superbi, nonostante avessero raggiunto i massimi livelli nei loro rispettivi “campi”. Pelé è stato quasi l’opposto civile e morale di un Maradona, sempre esagerato e retorico-populista; Ratzinger è stato sempre mite e quasi dimesso, nei tratti del suo modo di essere e di porsi con gli altri. Di Messi non parlo, perché assai mediocre come tipo umano, mentre Cristiano da Madeira mi sarà utile per esemplificare un’ipertrofia dell’ego.

Si tratta del tema dell’ego, dunque, secondo Sigismondo Freud, che lo colloca in una triade che comprende il superego, ovvero la coscienza morale, e lid o es, vale a dire l’inconscio; dell’io secondo René Descartes che ritiene di-essere-cosciente-di-essere-al-mondo e del mondo solamente-in-quanto-lo-pensa, e non in-quanto-esiste anche quando dorme o quando è privo di coscienza, quindi indipendentemente dalla sua (di Descartes) stessa esistenza; dell’io secondo Immanuel Kant, che caratterizza la conoscenza e la limita; dell’io secondo Friedrich Schelling etc., e dell’io secondo la filosofia classica di Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano, Evagrio Pontico, Gregorio Magno, Agostino di Ippona.

Al fine di non scrivere un saggio tremendo e faticoso trattando di ciascuno dei pensatori sopra citati, prendo solo Schelling, il più romantico e soggettivista filosofo dell’Idealismo tedesco ottocentesco, che a me piace molto. Agli altri dedicherò qualche cenno.

Schelling ragiona in questo modo, andando oltre il suo contemporaneo Fichte: l’Io pone il non-Io, ovvero il soggetto (lo spirito) pone l’oggetto (la natura), attraverso un processo, di remota ascendenza neoplatonica, tutto interno all’Io, dal momento che fuori di esso non vi è ancora nulla.

Tuttavia, precisa Schelling, se la natura nasce dallo spirito, significa che la natura ha la stessa essenza dello spirito, ovvero essa è lo spirito stesso che si manifesta in modo diverso.

Per Schelling la natura è spirituale, esattamente come l’io-umano, di cui è prodotto. sottolineando che la natura è un prodotto dell’Io (la cui prerogativa è la spiritualità). Egli afferma che la natura altro non è che spirito pietrificato. La natura, è come una semiretta, il cui punto di partenza è l’Io che pone il non-Io, da cui parte con slancio infinito. La filosofia di Schelling è una Filosofia dello Spirito e della Natura: come in Fichte, vi è l’Io (spirito) che pone il non-Io (natura), verso cui infinitamente tende, fino alle tecno-scienze (mio arbitrario aggiornamento di Schelling, abbiate pazienza, e soprattutto tu, Giorgio, che sei di Schelling uno dei maggiori studiosi italiani). Il professor Giacometti è il mio successore alla Presidenza di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza FIlosofica.

Con l’Idealismo tedesco siamo alla manifestazione massima dell’Io filosofico, dopo di che inizia un periodo di riflessione su questo “io”, fino alla constatazione che la sua centralità può generare pericoli non da poco.

La sua esaltazione porta poi, nei cent’anni successivi alle esagerazioni di tutte le forme di egocentrismo, dal culto del capo, nei fascismi e nello stalinismo, nel dannunzianesimo, nel futurismo e in tutte le teorie e le prassi vitalistiche che hanno posto al centro di tutte le cose del mondo e delle vite individuali l’io umano, etc..

Per quanto riguarda gli autori classici sopra citati si può dire che si riferiscono alle antropologie platoniche e aristoteliche, che prevedono l’apprezzamento dell’io individuale come soggetto agente moralmente responsabile delle azioni libere. Tale visione è però “irrorata” del personalismo evangelico, assente nella filosofia greca, così come sviluppato dagli stessi Padri, e soprattutto da sant’Agostino.

…e dunque l’egoismo, l’egotismo, l’egocentrismo, e perfino l’egolatria, che è una sorta di adorazione dell’io, dell’ego.

Prima di parlare di questo ego, è bene ricordare i vizi connessi a queste modalità di sua “debordanza”: la vanagloria, l’orgoglio spirituale e la superbia, che in modi differenti generano le deformazioni dell’io.

La vanaglòria s. f. [dalla locuzione latina vana gloria «vanteria vuota»]. – Sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui si ambisce la lode per meriti inesistenti o inadeguati; nella teologia morale cattolica è definita come l’immoderato desiderio di manifestare la propria superiorità e di ottenere le lodi degli uomini: peccare di vanagloria.

L’orgoglio è la stima, l’amore disordinato di se stesso, che porta la persona a disprezzare gli altri e attribuire a se stesso quello che è di Dio. 

Nell’Antico Testamento, la prima manifestazione dell’orgoglio umano appare nel tentativo dell’uomo di essere come Dio, presente nella Genesi, nel racconto del peccato originale (cf. Genesi 3,1-13) (cf. Dizionario biblico universale. Pg. 572)

La superbia è la pretesa di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Essi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo.

E’ Caput vitiorum, inizio e fomite di tutti i vizi, poiché il superbo ritiene che, solamente a lui stesso, sia consentita ogni azione, indipendentemente dai riflessi che essa può avere sugli altri. Il superbo è anche presuntuoso e arrogante, e talvolta prepotente fino alla protervia e alla crudeltà. Non mancano una miriade di esempi nella storia umana.

Proviamo a chiederci se conosciamo qualcuno che mostri un ego debordante fino alla vanagloria, in qualsiasi settore della vita umana. Pensando al gioco del calcio, mi/ ci è venuto in mente, tra non pochi altri, Cristiano Ronaldo, che ora va a insegnare calcio in Arabia Saudita pagato cifre inaudite (per noi e la gente comune), ma da lui ritenute forse appena sufficienti per premiare il suo valore auto-percepito.

Il pensiero successivo venutoci è quello relativo al tempo che passa, che quel calciatore sembra non accettare… e subito dopo abbiamo pensato al

cimitèro (antico e poetico cimitèrio, anticamente ceme-tèr[i]o) sostantivo maschile [dal latino tardo coemeterium, greco κοιμητήριον (coimetèrion)«dormitorio, cimitero», derivato di κοιμάω (coimào) «mettere a giacere»]. – Luogo destinato alla […] sepoltura dei morti sia per inumazione sia per tumulazione (detto anche, quando indica i cimiteri dei cristiani, camposanto): i viali, le tombe, la cappella del cimitero; cimitero monumentale, con sepolture costituite in genere da cappelle e monumenti…

Mi pare che a questo punto sia utile un po’ di sano realismo aristotelico-tomista contro la vanagloria dell’io, che non crea il mondo, che esiste senza e nonostante l’io, come insegnano Martin Buber (ebreo austriaco) ed Emmanuel Lévinas (ebreo lituano di formazione francese), con le loro rispettive teorie dell’io e del tu, e del vòlto dell’Altro. L’io e il tu, e il volto dell’Altro sono state le immagini scelte dai due pensatori per sottolineare la fondamentale importanza della Relazione inter-soggettiva per la vita nell’umano consorzio in tutte le sue dimensioni.

Io esisto e sono certamente di-per-me, ma anche in-relazione, caro Cristiano da Madeira.

Altrimenti, se non realizzi questo, tu sarai solo il più ricco del cimitero dove un giorno (questo è sicuro) riposerai.

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