Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

La misura della disperazione, la forza della speranza

…nessuno può avere la precisa nozione della misura della disperazione, da un lato, e della forza della propria speranza, dall’altro, al posto di uno che sale sopra una carretta del mare, consegnando anche otto o novemila euro a chi gli promette di portarlo nella Tierra prometida, da terre di guerra, di miseria e di paura. Per più di mille miglia marine in pieno inverno e con il mare forza cinque, abbracciato ai propri figli piccoli e magari a una moglie incinta.

Cutro di Calabria

Si possono, però, avere idee sull’insieme del problema. Parto da una domanda: è possibile per l’Italia e per l’Europa accogliere una massa umana che fugge da disastri inenarrabili nel numero di svariati milioni di persone? Certamente, allo stato attuale, no. E dunque quale è forse il tema principale di questo aspetto e momento della storia del mondo? Mi pare si possa dire che è il modello di sviluppo e la distribuzione delle risorse, assolutamente iniquo tra le varie parti del mondo.

Le risorse sono a disposizione senza una razionale ed eticamente fondata modalità di attribuzione: dalle risorse energetiche, all’acqua potabile, al cibo, alla casa, ai presidi sanitari, al lavoro e quindi al reddito da lavoro. Molte parti del mondo, vaste zone dell’Africa, dell’Asia e dell’America meridionale sono ancora strutturate sulla base dei residui storico-politici del primo colonialismo, o pervasi da un nuovo modello di colonialismo.

Francia e Gran Bretagna in primis, cui hanno fatto seguito moltiplicando la presenza e il potere economico-militare, gli USA, tengono ancora retaggi significativi dei loro domini coloniali formalmente passati di mano a governi locali. Un esempio: il FCA, cioè il Franco coloniale ha ancora corso nelle Repubbliche centroafricane, di tradizione francese e francofona. Un esempio nell’esempio: da soli trent’anni l’Alto Volta ha assunto la denominazione autoctona di Burkina Faso. Ancora: il Presidente Mitterrand negli anni ’90 poteva atterrare a Ouagadougou con una scorta militare tale da far rimanere nascosto in casa il legittimo Presidente della Repubblica Sankara.

Occorre dunque organizzarsi per un futuro che è già qui, demograficamente, socialmente, culturalmente, economicamente.

E ora una domanda: che cosa ci fa la Cina in Africa? Sta investendo miliardi di dollari in infrastrutture, fabbriche, porti, aeroporti, strade, aziende produttive, ingraziandosi le popolazioni e i politici locali, in paesi dove crea e finanzia lavoro. Paradossalmente bisognerebbe imitarla, ma a modo nostro, con il nostro modello (imperfettamente) democratico.

Che cosa ha fatto Angela Merkel a partire dagli inizi del suo mandato oltre una ventina di anni fa? Ha integrato in Germania circa quattro milioni di lavoratori turchi e dal 2011, quando è scoppiata la guerra civile in Siria ha aperto la porta ad almeno un milione di Siriani.

Altri dati, quelli demografici: in Italia abbiamo un tasso di fertilità per coppia di 1,2. Vale a dire che nel 2050 gli “italiani” saranno quattro milioni di meno… E noi continuiamo ad avere una legislazione che non consente un rapido inserimento giuridico nella “nazione italiana”, non solo a chi qui lavora da anni, ma nemmeno ai loro figli nati in Italia, che devono attendere il diciottesimo anno di età per “essere e soprattutto sentirsi” Italiani. Sul tema vi sono anche idee diverse, come quelle di chi non ritiene più molto importante sentirsi appartenere a una “nazione”, visto dove-è-ormai-andato-il-mondo negli ultimi decenni, preferendo un sentirsi “cittadino-del-mondo”, cosmopolita, se non apolide.

Di contro, la Francia, che sta facendo politiche attive per la famiglia da almeno trent’anni ha un tasso di fertilità per coppia di 1,85!

Forse allora occorre un progetto di due tipi e con due obiettivi, distinti ma conciliabili: a) una riforma delle normative per il riconoscimento della nazionalità italiana (e/o di altre Nazioni) che la renda possibile in tempi più rapidi, certamente con tutte le opportune garanzie culturali di “accettazione dell’Italia” in tutte le sue sfaccettature costituzionali di cittadinanza democratica e b) un progetto di investimenti colossale nelle nazioni, soprattutto africane, dove anche tradizionalmente, storicamente e anche logisticamente possiamo avere una voce in capitolo.

Il tema è, in generale, la distribuzione delle risorse, a partire da quelle energetiche, nel mondo, secondo principi – ancor di più – di razionalità, piuttosto che solamente di un’equità moralmente fondata.

Circa quanto accade in mare o su terreni aspri ed insidiosi, quali quelli della cosiddetta “rotta balcanica”, occorre rivedere le regole di ingaggio per il soccorso in mare, ma questo è solo uno dei temi e progetti.

Si parla di riforma dell’Accordo di Dublino, di contributo dell’Unione Europea per l’accoglienza. Tutto sacrosanto, ma non sufficiente…

Ciò che mi preoccupa è l’incapacità della sinistra italiana, ora che sta cercando di ristrutturarsi su una linea politica (opportunisticamente) radicale (Conte + Schlein + Landini), non riesca a contare veramente, proprio perché si sta spostando sempre più su posizioni che il-più-del-Paese non sceglie, basti osservare i risultati delle ultime elezioni, con questi tre racconti: a) di un fascismo redivivo, cosa assurda, su cui però occorre un comportamento diverso da quello del ministro Valditara e più consono, analogamente a quello tenuto dalla preside del Liceo classico Michelangiolo di Firenze, b) di una legislazione sociale che sarebbe liberticida e ingiusta (Jobs act), cosa non vera; c) di una prevalenza dell’attenzione ai diritti civili (lgbtq+) e scarsa attenzione a quelli sociali (Statuto dei Lavori).

Con la “linea di Firenze”, per modo di dire, non c’è molta speranza di costruire linee politiche che dialetticamente riescano a competere con una destra vincente, e ciò si riverserà anche sul tema macro delle migrazioni e sulle misure di grande politica sovranazionale necessarie, che sono da assumere con convinzione.

Dalla Liquentia (la Livenza) al Soça (l’Isonzo), passando per il Cellina-Meduna, il Noncello, il Sile e il Fiume, il Tagliamento e lo Stella, il Torre e il Natisone, i verdi fiumi del Friuli, fanno da “basso continuo” agli idiomi del Friuli che, dall’Italiano nazionale, accolgono nel novero anche parlate Slave e Germaniche, mentre il Friulano, da una base neo-latina si avvale di prestiti preziosi che vengono dal Nord germanico e dall’Est slavo, in un dia-logo straordinario fra diversi

Fiumi alpini e fiumi di risorgiva, verde smeraldo e verdolino trasparente tra i sassi, verde cupo e quasi olivastro… d’infinite sfumature, le acque del Friuli brillano. Da Ovest a Est, dal tramonto all’alba, da Occidente a Oriente: la Livenza (sicut narrat amicus Fulvius Portusnaonensis) nasce dalle Prealpi pordenonesi, a Polcenigo e dintorni, in località Santissima, e da una profondissima polla che viene dagli abissi del monte attraverso un sifone senza fine, chiamata Gorgazzo, e da lì serpeggia per l’Alta pianura con meandri dolcissimi, attraversando la femminea Sacile onusta di palazzi veneziani specchiantisi nel fiume, prima di sconfinare in Veneto, fino alla foce tra Caorle e Jesolo. Liquentia itaque transit per campagne di coltivi e di messi, e di vigneti ricchi dell’aroma cui dedicano vite e risorse da antichi vinificatori i loro discendenti.

Il Tagliamento è il magno fiume alpino. Dal Passo della Mauria a Lignano scorre per centosettanta chilometri portando a valle l’infinito di sassi e pietre da milioni di anni. Integro, selvaggio, desertico negli alvei smisurati, che si slargano fino alla massima larghezza dei fiumi d’Italia, assieme al Piave, al Ticino, al Sesia e al Po, il Tiliaventum scorre in alvei sempre diversi, a volte turbinoso e tremendo, come quando con acque limacciose sconfina oltre gli antichi argini, iniziando furenti scorribande fra le golene, dove l’uomo qualche volta osa costruire ricoveri, che il fiume sconquassa, perché l’acqua torna sempre dove è già stata, mentre l’uomo di questo a volte non ha memoria, e a volte scorre quieto e mormorante tra boscaglie di ripa ospitante animali di ogni genere e specie.

il fiume Stella

Lo Stella sgorga sulla linea delle risorgive, ma le sue acque sono – più o meno – le stesse, montane, del Tagliamento, che in parte si inabissano nella morena delle alte Terre di Mezzo del Friuli, e ricompaiono con il nome di Corno. Lo Stella: fiume di risorgiva, che vien fuori dalla terra in un rigagnolo a Flambro, sulla Stradalta, ma dopo una decina di chilometri già si può navigare con barche dal fondo piatto. Lo Stella è un poema, capace di rime incrociate con i suoi affluenti, come il Corno che scende dalla morena di San Daniele e Fagagna, e più a Sud tra i boschi del paese di Rivinius, centurione augusteo, compensato dal princeps primo imperator, con campagne rigogliose di viridescente verzura, prende il nome di Taglio, diventando il maggiore dei tributari. Si può contemplare lo Stella già nel borgo romito di Sterpo, dove scorre spingendo le ruote infaticabili di un antico molino, e a Flambruzzo, ove rispecchia il castello, in attesa di ricevere il contributo d’acque del Taglio, del Torsa e del Miliana, fino a conferire dovizia imperiosa d’acque profonde nella salmastra laguna che si adagia tra il borgo pescatore di Marano e la immensa Lignano… che è come circondata dai due fiumi, il Tagliamento a Ovest e lo Stella a Est.

L’Isonzo è nativo di là delle montagne Giulie, come sorgente. Attorno ai suoi primi zampilli si ergono le più grandi montagne del Nordest, il Triglav, lo Jalovec, la Sklratiça, per poi scendere verso il confine di Gorizia. Il colore delle sue acque è smeraldino, riflettendo alti cieli e floride boscaglie, che lo costeggiano.

Segna più o meno il confine tra la Slavitudine infinita la Furlanja taliana. Assieme con il Torre, il cui alveo è spesso desertico, e il Natisone, che in esso confluiscono più a valle.

A Oriente si incontrano, appunto, il Natisone e il Torre, mentre a Occidente scorrono il Meduna e il Cellina, imitatori alpini del Tagliamento. Il Noncello, mi suggerisce l’amico Romeo, raccoglie acque inabissate del Cellina, Nau Cellius, ad echeggiare la città perduta di Caelina, dal nome antico. Il fiume che bagna Cividale viene dalle montagne slovene tra gole profonde e si incastra nelle forre selvagge.

Fiumi continui come il Natisone e altri a regime torrentizio come il sistema Cellina-Meduna e il Torre, portano acque a Sud, verso l’Adriatico e quindi al Mare nostrum.

Un solo fiume, lo Slizza, che scorre a Nord Est nel Tarvisiano, si diparte dalla Sella di Camporosso e procede verso la Drava e dunque il Danubio.

Anche questi aspetti attestano come il Friuli sia la Terra del Confine per eccellenza della nostra Italia. Il confine interno di un’Europa che viene definendosi ancora, nella Storia grande e in quella quotidiana della politica e dei conflitti.

I fiumi sono arterie vitali che irrorano di vita le terre del confine e assomigliano alle lingue parlate, che “stanno dentro” la lunghissima istoria degli idiomi locali, filiazioni dirette delle antiche radici linguistiche dell’Europa intera: l’Italiano, lo Slavo delle Valli del Natisone, del Torre e della Val Resia, il Tedesco medievale di Sauris – Zahre e di Sappada – Pladen, il Friulano che – su una base neolatina – vive di prestiti formidabili dai contigui Slavo e Tedesco. Mentre a Grado canta Biagio Marin in un Veneto, antico idioma del mare, come a Marano, sull’altra laguna…

Una ricchezza ineguagliabile, quella dei fiumi e quella delle lingue, che ancora di più spicca in questi momenti drammatici della storia dell’Europa, quasi ispirando l’unico modo della convivenza tra diversi, l’eterno Dia-Logo, cioè la parola-che-attraversa spazi fisici e mentali e confini di tutti i generi, nell’unità sostanziale dell’essere umani.

Male e Bene in TV: a) mega stupidaggini e stupidità televisive fino al nihil universale della influencer regina, da un lato; b) il nobile giovane volto del dottor, tenente e compagno Cesare Battisti, dall’altro

Ogni volta che mi pongo all’ascolto di qualche tg comincio a inorridire ancora prima che inizino a parlare, già in attesa di errori e mezzi sproloqui. Refusi sostanziali e formali, di pronunzia, per toni e timbri sbagliati o sgradevoli: almeno una metà dei “lettori/ lettrici” di notizie (sono giornalisti/e costoro?) non è all’altezza. Qualcuno è addirittura nelle condizioni oggettive di dover fare, per deontologia professionale, un corso breve pratico di respirazione e dizione. Tra costoro ho in mente un “lettore” del tg2 delle 20.30, più “cagionevole” di altri, che per caritas paolina non citerò per nome.

Ricordo, di contro, le meravigliose dizioni della tv a canale unico e in bianco e nero, e la chiarezza espositiva, degli Ottavio Di Lorenzo, dei Gianni Bisiach, dei Demetrio Volcic, dei Ruggero Orlando e dei Piergiorgio Branzi, tra altre decine di valorosi professionisti della notizia comunicata. Persone che facevano il concorso Rai, lo vincevano ed entravano nei ranghi, al massimo dotati di diploma di scuola superiore. Fino agli anni settanta del secolo scorso i giornalisti laureati in Rai erano pochissimi. Oggi sono tutti laureati e, nonostante ciò (ma sappiamo che un diploma di laurea non è sufficiente ad attestare una buona cultura e una conseguente proporzionata professionalità), si mostrano spesso come spiego sopra, nel loro lavoro.

I commenti televisivi alla stampa quotidiana sono spesso faziosi e schierati, e non tra-le-righe (come una certa qual eleganza vorrebbe), ma in tutta evidenza, quasi a far pensare che il commentatore possa essere pilotato… Sono ingenuo?

Poi vi sono degli animatori o conduttori o mezzi-comici (più “mezzi” che comici) come Fiorello, che non capisco come faccia a piacere, se non interpellando la campana di Gauss che mi ricorda dell’80% dei tipi umani che sono utenti delle tv.

amenità in tv

Vi sono poi gli immarcescibili, incapaci di smettere, come Morandi “capelli tinti” e Vanoni rifattona. Uno di costoro, anche se immensamente meritevole per la sua capacità divulgativa, fino alla sua dipartita, è stato Piero Angela. Anànke stènai, insegnava Aristotele: bisogna sapersi fermare. In tempo. Appunto. In quel caso non è stato il caso.

Ha evidenza immensa la regina delle influencer italiane, Chiara Ferragni, che miseramente sfarfalleggia sulla scala festivaliera sanremese che fu di Wanda Osiris, capace di ben altre e più rarefatte eleganze.

Cito solo, per la loro sgradevolezza e inopportuna militanza, le Littizzetto e le Gruber, così come qualche colto (colto?) ingannatori à là prof Orsini. E non confondiamolo con il prof Orsina, di tutt’altra tempra.

Di politici tipo Conte ho già scritto fin troppo e non mi ripeto. Mi auto-annoierei.

E poi i detti e gli scritti giornalistici. L’ultimo, ancora “apocalisse” per descrivere il terribile catastrofico terremoto anatolico-siriaco-caucasico di questo febbraio 2023. Non ce la fanno a non-scrivere “apocalisse”, che non significa disastro o catastrofe o ecatombe (lett.te “Strage dei cento buoi”, evidente metafora), ma significa “rivelazione”. Rivelazione di cosa, il terremoto? Dei movimenti della terra, irresistibili e imprevedibili? Cui l’uomo (in questo caso Erdogan) presta la sua insipienza e incultura e inciviltà costruttiva.

Per rifarmi l’anima , sollecitato da un bel servizio dato su Rai Storia, propongo un breve racconto mio della vicenda di Cesare Battisti (Trento 1875-1916), italiano, irredentista moderato, autonomista, studioso di diritto e di geografia, tenente degli Alpini, compagno socialista riformista. Impiccato con un ghigno soddisfatto dal boia imperiale Josef Lang, venuto appositamente da Vienna, dopo 48 ore dall’arresto in divisa di tenente degli Alpini sul Monte Corno (ora Monte Corno-Battisti) nel massiccio del Pasubio. Ex Deputato a Vienna e nella Dieta provinciale di Trento. Involontario omonimo di un criminale.

Cesare Battisti (1875-1916)

Colpisce vedere la foto di un Battisti giovane tra altri giovani liberali, socialisti e cattolici verso la fine dell’800, che manifestano a Innsbruck, capoluogo del Tirolo, per ottenere dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria una Facoltà di Giurisprudenza in Lingua italiana. Tra le file si riconoscono Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, che poi furono arrestati e fecero qualche giorno di carcere per manifestazione non autorizzata.

Colpisce ascoltare la lettura di una lettera che Battisti, direttore del quotidiano trentino Il Popolo, scriveva al “compagno” Mussolini che nel 1909 si trovava a Trento, come giornalista del Giornale del Lavoratore. Gli chiedeva se conoscesse qualche giovane bravo e motivato politicamente per aiutarlo nel giornale da lui diretto.

Colpiscono queste due situazioni, la prima con colui che sarebbe stato il principale ricostruttore dell’Italia post fascista (De Gasperi), la seconda con colui che l’Italia aveva distrutto (Mussolini). La Storia. I suoi paradossi e le scelte che portano ciascun essere umano a stare da una parte o dall’altra. Ci si chiede come mai le strade dei due socialisti si divisero radicalmente, mentre le strade di Battisti e di De Gasperi, sia pure in modo diacronico, si sarebbero ritrovate nell’Italia democratica e repubblicana.

Qualcosa su Cesare Battisti, sulla sua figura. Sulla parte migliore di questa nostra Patria Italia.

Sull’attuale gravissima “crisi-del-pensiero-critico” e della qualità del dibattito politico: il “caso Cospito”. Alcune riflessioni sull’Anarchia, sullo “Stato di Diritto”, sull’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana e sul carcere

Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).

Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.

Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).

Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza +
ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).

Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?


François-Marie Arouet – Voltaire

Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).

Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismo rivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.

Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.

Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.

Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.

L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.

Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.

A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.

Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).

La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.

Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.

La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.

E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.

Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.

Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.

Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.

Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.

Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.

In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.

A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.

Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.

Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…

Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.

Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!

Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.

E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.

L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.

Incomprensibili piaggerie o forme di sostegno para-simil-“massonico”? O altro che non capisco?

Mi chiedo, gentile lettore, la ragione (se vi è una ragione) per cui in questi giorni i cronisti radiotelevisivi, quando raccontano degli attentati anarchici alle auto delle Ambasciate e ai Consolati italiani di Berlino e Barcellona, citando il prodromo dell’attentato all’auto della Consigliera d’ambasciata italiana ad Atene dottoressa Susanna Schlein, debbano sempre aggiungere “la sorella di Elly Schlein“.

il prof. Emanuele Severino

Provo a immaginarne il (o i) perché: a) la signora Elly è già famosa, mentre sua sorella no, e quindi per focalizzare la seconda si cita la prima. Obiezione: per quale ragione c’è bisogno di citare la prima se il fatto riguarda la seconda? b) forse che, se si cita la politica, il fatto che riguarda la funzionaria assume una valenza più grave? Obiezione: mi sembrerebbe, sia strano, sia inopportuno, perché ogni fatto ha una sua consistenza oggettiva sotto il profilo giuridico-penale. c) forse che, in vista, di una sempre maggiore esposizione mediatica della politica Elly, ove fosse eletta Segretario (a?) del PD (Dio non lo voglia!), il fatto di averla abbondantemente citata nel periodo precedente al Congresso fa “prendere punti” verso una figura potenzialmente importante, a futura memoria per la carriera del cronista? Obiezione: che squallido arrivismo, e oltremodo miope, da parte degli addetti ai media. d) forse che qualche suggeritore un pochino occulto consiglia a una parte degli addetti alla comunicazione di citare citare citare (repetita juvant, come insegnavano i saggi latini) la Schlein politica, per qualche ragione non del tutto trasparente? Auto-obiezione: dietrologie mie… forse.

Certo è che mi infastidisce parecchio sentire la cantilena “(omissis) come successo ad Atene alla sorella di bla bla...” Come se la sorella, peraltro la maggiore tra le due, vivesse di luce riflessa, una luce, peraltro, tutta ancora da mostrare, se c’è.

La buona metafisica insegna, da Aristotele ad Emanuele Severino, che vi sono due modi di apparire-all’essere: vi è a) un apparire dell’apparire senza essere, e vi è b) un apparire dell’essere. Non è vero che il contrasto logico-metafisico è tra “apparire” ed “essere”, ma tra i due modi prima esposti.

Per ogni ente-che-è (il soggetto) vi deve essere-un-apparire. Ma bisogna che vi sia l’ente, peraltro provvisto di un’essenza, in questo caso “politica”. Che nel caso, a mio avviso, è ancora tutta da mostrare, oltre le banali amenità che ho finora sentito dire dalla candidata alla Segreteria del PD. Con buona pace della su citata politica, poiché – secondo Severino – nella realtà gli enti sub forma essentium (cioè, gli enti sotto forma di essenti) che una volta appaiono alla realtà sono… eterni, e quindi vi è nientemeno che l’eternità davanti alla aspirante segretaria.

Per il grande filosofo, docente storico a Ca’ Foscari, il participio presente del verbo essere – ente/ essente – rappresenta la forma dell’eternità di ciò che anche solo una volta si manifesta (phàinetai) alla realtà.

Tornando ai media, potrei citare innumerevoli casi nei quali si evidenzia una piaggeria insopportabile nei confronti dei potenti di turno, che tornano immediatamente nell’oblio non appena il loro potere cala o svanisce, oppure qualcosa d’altro, che non capisco bene che cosa sia. Ho memoria dell’appartenenza di persone come il giornalista intrattenitore tv Maurizio Costanzo (poi pentitosi) alla P2, e di altre persone della comunicazione stampata o radiotelevisiva.

Io stesso ho sperimentato la piaggeria di molti quando mi sono trovato in evidenti posizioni di potere, come la responsabilità di un soggetto socio-politico o un’elevata posizione aziendale. Il meccanismo è sempre stato questo: a) non sei nessuno, perché non appari in tv, e nessuno ti bada; b) cominci a essere-qualcuno perché la tua figura comincia ad apparire (ecco il solito apparire!) in tv, e parecchi cominciano a salutarti con sempre maggiore deferenza, man mano che la tua presenza mediatica cresce; c) sei sempre più presente sui media, e allora in molti ti cercano per un favore o anche solo per farsi vedere con te in qualche locale centrale della città a bere un bicchiere di vino; d) le tue presenze mediatiche calano fino a scomparire e quelli che ti cercavano e ti salutavano per primi, fanno a volte finta di non averti visto per strada, perché non sei più utile.

Eppure tu sei sempre lo stesso. A me è capitato almeno tre volte di salire e scendere la “scala” della notorietà (e di un potere dato) in ambienti differenti (politica, economia, cultura) osservando i fenomeni sopra descritti. Ora sono stabile in una buona posizione.

Provo una gran pena per chi ti giudica dal tuo apparire, senza curarsi che il tuo apparire sia un apparire dell’essere quello che sei.

Gli imbrattatori (illi illaeque qui virtuose docendi populo credunt)

Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.

Babbei e babbee

Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.

Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.

Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.

Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.

Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.

Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.

Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.

Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?

Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.

Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.

Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.

Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.

Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.

Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.

Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.

“Attentato alla laicità dello Stato”: con meraviglia leggo che questa affermazione di alcuni esponenti politici è legata alla presenza di un’immagine della Sacra Famiglia, Gesù, Giuseppe e Maria, nelle corsie un un ospedale veneto

Il fatto citato nel titolo mi ha rammemorato un altro analogo, quando una ventina di anni fa l’assessore regionale alla sanità del Friuli Venezia Giulia (era Beltrame?), voleva togliere le dizioni di Santa Maria della Misericordia e di Santa Maria degli Angeli, rispettivamente ai due grandi ospedali civili di Udine e Pordenone, sostituendoli con la mera burocratica dizione di Azienda Sanitaria n. X e Azienda Sanitaria n. Y, più o meno per le medesime “ragioni” del caso registrato in Veneto in queste settimane di inizio 2023.

Ragioni motivate dalla supposta non-laicità di quelle dizioni.

Tra l’altro, quell’assessore era del PD, come alcuni dei ricorrenti veneti (aiutati dai “valorosi” 5S), partito, il PD, che ho già a volte votato e che forse, molto forse, voterò ancora (soprattutto se il nuovo segretario sarà Stefano Bonaccini e non la improbabile parvenù italo-germanica).

Il primo pensiero che mi ispirano queste iniziative è quello che attesta una madornale ignoranza culturale, storica e religiosa degli autori. Costoro non hanno idea di che cosa abbiano significato le raffigurazioni sacre nei vari tempi storici, fin dalle iconografie catacombali, se ci riferiamo anche solo alla tradizione cristiana.

Dai tempi degli xenodokeia dei primi secoli dopo Cristo, che erano ricoveri atti ad accogliere viandanti e poveri che si trovavano nottetempo per strada (xenodokeion significa, in greco, “casa, rifugio per lo straniero”), esposti alle intemperie e ai banditi, tutta la tradizione europea e cristiana ha visto svilupparsi un sistema che correlava le strutture religiose con il soccorso e l’aiuto alle persone, senza distinzioni di qualsiasi genere e specie.

I monasteri e le chiese, così come i castelli medievali (molto meno) erano luoghi di soccorso, dove le immagini sacre, che sono sempre state la “Bibbia del popolo” analfabeta, erano diffuse ovunque. Pensare a un’Italia e un’Europa senza chiese e senza campanili, a un’Italia e un’Europa senza musica sacra, a un’Italia e un’Europa senza la sua iconografia sacra sarebbe un’assurdità antistorica. Ebbene, questi politici veneti se ne rendono conto? Oggi i tempi sono cambiati, potrebbero dire, ma… ad esempio, sono al corrente di ciò che significa il concetto di laicità, in san Paolo e di ciò che si debba intendere con il termine làos, che significa popolo, in greco, e in san Paolo?

Conoscere bene questi termini, permette di discernere tra laicità e laicismo, laddove il primo termine è semplicemente la sostantivazione astratta del termine “popolo” (làos), mentre il secondo è il peggiorativo. La laicità è non solo legittima, nella distinzione tra dimensione del religioso e del civile, ma obbligatoria, doverosa, mentre il laicismo è una sorta di deformazione polemica e inutilmente militante.

Torniamo alla pittura di soggetti sacri o religiosi, come nel caso citato: se abbiamo paura della Sacra Famiglia in nome del politically correct, oltre ad essere una pura idiozia, non conosciamo nemmeno l’opinione di chi potrebbe essere (o non) disturbato da quelle immagini, come i musulmani.

Ebbene, proprio in Veneto, nel Trevigiano, alcune famiglie musulmane hanno mostrato di amare il presepe, quando una preside non voleva ammetterlo nell’istituto comprensivo da lei gestito, comunicando che la vicenda della nascita di Gesù apparteneva anche alla loro tradizione. Così come il sistema delle Caritas non si ferma a un’attività intra-cattolica, ma è rivolta al mondo, come prevede il katà òlon, che vuol dire secondo-il-tutto, la cattolicità nel senso etimologico più profondo e vero, che perfino Fidel Castro capì molto bene, perché Gesù di Nazaret e l’Evangelo di lui appartiene a tutti, ed è fonte di ogni dottrina umanitaria.

Nel Corano, Maria di Nazaret è la donna (tra tutte le donne) più citata, specialmente nella sura 4. La leggano i detrattori della Sacra Famiglia del PD e dei 5Stelle!

Forse potrebbero imparare qualcosa di utile per sé stessi, e anche per la loro attività politica.

Dolori “minori” della Seconda Guerra mondiale. Chi si ricorda dei bimbi mutilati, degli istituti dove furono curati e accuditi? E la storia nulla insegna e non cambia…

Se chiedessi a qualche mio lettore se si ricorda dei bambini rimasti mutilati in scoppi di bombe rimaste inesplose, o se il nome di don Carlo Gnocchi gli dice qualcosa, penso che forse solo qualcuno di una certa età potrebbe averne un’idea.

Possiedo, per ragioni familiari, una documentazione concernente uno degli istituti nei quali molti bimbi mutilati dallo scoppio di bombe e granate esplose durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, e anche una testimonianza diretta di chi operò in quell’istituto come operatrice assistenziale dei piccoli ospiti. Anni fa ho anche avuto modo di partecipare personalmente al ricordo annuale che si tiene nella sede storica di quell’istituto, a Buttrio, in Friuli, e li ho visti, quei bambini e bambine, diventati grandi, con i segni immodificabili della loro disgrazia, sui volti e negli arti.

Riporto di seguito un testo biografico commovente, come se fosse stato scritto (ed è stato scritto) dal “mutilatino” Ovidio Morgagni da Forlì:

“Sono Ovidio, ho tre anni e abito a Forlì con il mio babbo Giacomo e la mia giovanissima mamma Rosina, che ha compito da poco 22 anni. Sono un bimbo vispo e molto curioso. Qui a Forlì in questi giorni c’è il passaggio del fronte. Sulla riva del fiume Ronco i soldati tedeschi cercano di contrastare l’avanzata delle forze di liberazione che sono allineate dalla parte opposta. E’ da più di una settimana che dura il duello fra le opposte artiglierie; continue e ripetute sono le incursioni degli aerei sulla città. Il mio babbo ha deciso di trasferire la nostra famiglia in un posto più sicuro, nella frazione di S. Tomè, nel nostro podere di campagna dove ospitiamo altri 20 sfollati.

In mezzo a due case coloniche è stato ricavato un piccolo rifugio. Oggi 7 novembre 1944 è una bella giornata di sole. Sono le ore 13 inizia a suonare la sirena che avvisa dell’arrivo degli aerei, un suono cui ormai siamo abituati. Il babbo e la mamma mi chiamano a gran voce per portarci al riparo nel rifugio poco distante.

Improvvisamente all’orizzonte vediamo avanzare una formazione di 22 bombardieri che iniziano a sganciare bombe per snidare la batteria contraerea tedesca poco distante. La mamma mi prende in braccio, mi tiene la testa stretta al suo collo e con le mani cerca di proteggermi. Siamo a pochi metri dal rifugio, sento il cuore che batte forte ma non c’è più tempo. Il rumore assordante dei proiettili che lasciano una scia come code di cometa nel cielo, l’odore acre della polvere da sparo e poi torna un silenzio irreale. Intravvedo, in mezzo al fumo che si alza, il mio babbo con il volto rivolto verso terra vicino ad altri sei caduti. Io sono ancora abbracciato alla mia mamma che con il suo corpo mi ha protetto. Lei colpita alla schiena, esanime in mezzo alla polvere della strada non respira più. Una scheggia ha colto la mia mano che tenevo sulla sua schiena. Ho dolore e vedo uscire il sangue e piango. Gli aerei si sono allontanati. Accorrono persone e le sento esclamare il nostro nome.

Mi portano all’ospedale di Forlì, con la mano avvolta in un panno bianco. Arrivano altri feriti e poi altri ancora. Gli infermieri si affrettano a portarli al sicuro nei lunghi corridoi sotterranei dell’Ospedale dove sono anch’io, seduto su una sedia, in attesa che qualcuno si accorga della mia presenza. Arriva sera, ho dei brividi di freddo per la febbre che sale, una suora vestita di bianco mi avvolge in una coperta di lana color marrone e mi porta una tazza di latte caldo.

Ci sono feriti più gravi di me da curare, io ho solo una mano dilaniata da quella maledetta scheggia arrivata dal cielo.

Sono trascorsi due giorni finalmente arriva il mio turno. Il dottore che mi visita si accorge che la ferita è degenerata in cancrena. Mi portano in sala operatoria, non c’è tempo da perdere, occorre procedere all’amputazione del braccio per salvarmi almeno la vita.

Camillo, un vicino di casa, mi riconosce qui in ospedale e si incarica di avvisare i miei parenti che abitano nella campagna ravennate. Gli zii e i cugini partono immediatamente per prendersi cura di me, unico rimasto vivo della mia famiglia.

Sono le due del pomeriggio, la strada che da Ravenna porta a Forlì in questo momento è quasi deserta, il calesse corre veloce. Manca poco all’arrivo quando il cavallo calpesta una delle tante mine disseminate sulle strade dai tedeschi in ritirata. L’onda d’urto, l’assordante rumore della deflagrazione e i frammenti metallici investono i miei zii e cugini. Vengono tutti colpiti a morte, non si salva nessuno, neppure il cavallo con il calesse rovesciato nel fosso.

Ora sono rimasto proprio solo, abbandonato in una corsia di ospedale che, ironia della sorte, porta il mio stesso cognome: “Ospedale Morgagni”.

Mia zia con tre figli e il marito disoccupato non può occuparsi a lungo anche di me. Vengono interpellati diversi enti che si occupano di assistenza ai bimbi orfani e mutilati. Qualche anno dopo l’ONIG e l’ANVCG si prendono cura di me e mi trovano un posto dove posso crescere e studiare: il Collegio Friulano per i fanciulli mutilati di Buttrio di Udine. Qui sono il più piccolo e spesso una dipendente del collegio che si chiama Maria, quando mi vede piangere, viene a consolarmi. La domenica è un giorno di gran festa perché a pranzo c’è anche il dolce e al pomeriggio scendiamo dal colle di Buttrio per recarci al cinema parrocchiale giù in paese. Rimango nel collegio per 8 anni fino al 1956.

Ora, dopo tanti anni di lavoro negli Uffici della Provincia, sono qui nel mio appartamento, ho in mano l’album fotografico, lo sfoglio adagio, rivivo tutta la mia vita in quelle foto sbiadite dal tempo mentre la radio trasmette le notizie di guerra in Ucraina. Questa mattina i soldati russi hanno aperto il fuoco e crivellato di colpi un’auto civile con bandiere bianche e la scritta “bambini” uccidendo tutti i componenti di una famiglia in fuga dal loro villaggio.

La storia purtroppo si ripete.”

Non mi pare il caso di aggiungere altro.

Perché Edson Arantes do Nascimento è il più grande calciatore di ogni tempo

Edson, Edson, vieni a casa, su“, gli gridò dalla soglia della povera casa di Bauru la mamma Celesta… e il piccolo Edson, nerissimo afroamericano, rispose “Sì, mamma, subito, finisco di pulire questa scarpa e vengo…” Dialogo immaginario, ma verisimile.

Era il 1945 o il ’46. Accadeva in Brasile, nella favela confinante con la foresta. Bauru, così simile a Lanùs, dove nacque quindici anni dopo il mezzo guaranì per un quarto italiano (cosa che pochi sanno) Diego Armando Maradona.

Perché Edson, a cinque o sei anni stava in strada a dare calci a un pallone di stracci con altri ragazzini scalzi, e a pulire scarpe. Sciuscià. Show shoes, il piccolo player, aiutava la famiglia impoverita. Il figlio di João Ramos do Nascimento, in arte calcistica Dondinho, centravanti di medie capacità, ritiratosi per un infortunio al ginocchio men che trentenne, era Pelé, Edson Arantes do Nascimento.

Il nomignolo “Pelé”, con il quale la sua notorietà divenne universale, gli era sgradito, non si sa bene chi glielo appioppò, ma se lo tenne, perché la società dell’immagine nasceva proprio negli anni della sua consacrazione sportiva nel gioco più diffuso al mondo.

A quindici anni lo provò il Santos di Rio de Janeiro, e lì rimase quasi per tutta la vita, rifiutando la corte della grandi europee, tra le quali anche il Milan, l’Inter e la Juventus. Sulle sue qualità di calciatore lascio la parola al più grande (con alcuni difettucci di narcisismo) cantore sportivo italiano, Gianni Brera: “Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l’iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d’erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull’altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti“. Sì, perché Edson Arantes era anche un grande atleta, uno scattista resistente, scrisse di lui un esperto di scienze motorie di cui non ricordo il nome. Molto più completo dei due “dei” che gli sono succeduti nella visione mediatica dei decenni scorsi e fino a noi, Maradona e Messi. A Brera, mancato disgraziatamente troppo presto, avrei voluto dire che su altri campioni il suo giudizio è stato parziale e a volte ingiusto, come quello sul più grande calciatore italiano dell’ultimo mezzo secolo, Gianni Rivera, che lui definiva “abatino” e mezzo atleta. Si vedano i filmati che lo riguardano e si capisce perché Pelé, quando vide la lista dei giocatori che Valcareggi avrebbe schierato nella finale del Campionato del Mondo messicano del 1970, si meravigliò di non vedere il nome di Rivera, e subito dopo si compiacque, perché lui sapeva bene che la Nazionale italiana, con quel 10 in campo avrebbe potuto essere molto più pericolosa e imprevedibile. Non abbiamo la controprova di un tanto, e nemmeno di ciò che sarebbe potuto accadere se Burgnich non fosse scivolato sul cross di Rivelino che permise a Edson Arantes quel primo goal decisivo, in stacco imperioso (sintagma in puro stile breriano), di testa.

Tanto che, per puro divertimento, mi metto a fare il “tattico”, pensando all’attacco che quell’Italia avrebbe potuto schierare: a destra, come tornante, Sandrino Mazzola, Rivera subito dietro le punte Boninsegna e Riva. “Coperti” da due fortissimi mediani come Bertini e Trapattoni. Avrei voluto vedere…

Ma quel Brasile, che poteva permettersi di avere in attacco quattro numeri 10, per classe, cioè Pelé, Gerson, Tostao e Jairzinho era al tempo la più forte squadra del mondo e, forse, di ogni tempo.

Definito O Rei (in italiano Il Re), O Rei do Futebol (Il Re del Calcio) e Perla Nera (in portoghese Pérola Negra), non è il calciatore più vincente in assoluto, salvo che per le vittorie in tre campionati del mondo per nazioni, che nessuno ha eguagliato, ma in gare ufficiali ha messo a segno 757 reti in 816 incontri con una media realizzativa pari a 0,93 gol a partita. Come finora nessuno, oltre ad aver sfornato centinaia di assist-goal, come un trequartista (termine odierno delle cronache calcistiche) o una mezza punta o un falso nueve (falso centravanti, uomo di manovra).

E’ il mas grande, porque Edson-Pelé è stato un ragazzo e un uomo completo, che non ha avuto bisogno della “manita de Dios” o della “pierna que no existe” per vincere tre mondiali. Da ex calciatore ha accettato di fare il Ministro dello sport del Brasile, promulgando una legge importante contro la corruzione nel calcio. Come George Weah, che è diventato Presidente della Liberia, probabilmente il signor Edson Arantes do Nascimento avrebbe potuto diventare il buon Presidente del più grande Paese sudamericano.

Per questi fatti e per ragioni tecniche di calcio che altri, più di me competenti, hanno ben scritto, Edson Arantes do Nascimento, Pelé, è stato più grande di Diego Armando e di Lionel, che ha mostrato l’improba fatica del “saper-vincere”, e perché è stato esempio più limpido (anche e soprattutto per i ragazzini di strada e di palestra), di lealtà sorridente, senza la rabbiosa incapacità di non-vincere di altri calciatori, come ha fatto vedere il portiere dell’Argentina “Dibu” Martinez, all’immondo mondiale del Qatar.

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