Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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“Servi di scena”: Abubakhar Ogondo Yeye, un uomo indecente… anzi tre, il secondo è Charles Michel, e il terzo è il “president-ore” della Bielorussia Lukascenko, in questi giorni di guerra alla porta delle nostre case,

indecenti per maleducazione e inqualificabile sessismo. Un nero musulmano, e due europei cristiani.

il bianco maleducato e recidivo

Il primo è il ministro degli esteri dell’Uganda, il secondo, il belga Michel, ha sopportato che Erdogan non facesse accomodare Ursula von der Leyen. Ospite maschio in poltrona, ospite femmina sul divano.

In questi giorni, invece, sempre alla presenza dell’ineffabile Michel che neanche un baffo ha mosso per far notare al politico africano che c’era lì con loro anche la Presidente della Commissione europea, e del Presidente francese Macron, il citato politico ugandese ha a malapena degnato di uno sguardo la signora, solo perché glielo ha fatto notare quasi con veemenza Macron. Sessismo, machismo, maleducazione, di tutto un po’?

Di Lukascenko, president-ore della Belarus, non occorre dir altro che segue Putin come un fedele cagnolino.

Andiamo più a fondo.

Nella tradizione teatrale e anche in un film, dal titolo omonimo, il servo di scena non vive una vita propria, perché trasferisce costantemente se stesso, i suoi sogni, le sue aspirazioni, la sua personalità intera, nel suo “padrone e signore”, vive di luce riflessa e protegge e difende gelosamente il padrone, perché così facendo difende e protegge se stesso.

Non che i tre personaggi di cui sopra siano propriamente “servi di scena”, ma possono esserlo di fatto, e soprattutto negli effetti. Un esempio: se Erdogan non mantenesse l’impegno di tenere chiuso lo stretto del Bosforo alle navi da guerra russe, come in questi giorni sta promettendo, si mostrerebbe un vero “servo di scena” di Putin, pur facendo parte la Turchia della Nato. Di Michel meglio non dire, per non infierire. Vi sono persone che giungono ad alte cariche per ragioni quasi incomprensibili dal sapere comune concesso dai media.

Perché ne parlo qui? Mi sembra utile, proprio in questo momento pericoloso, ricordare il rischio del “servo di scena”. Persone poste in funzioni e ruoli importantissimi sono servi di scena, perché hanno rinunziato, o forse non possono (nel senso che non hanno i mezzi psico-morali cognitivi e volitivi), a gestire un flusso di detti e di atti in autonomia, perché dipendono da un “padrone”. Che a volte è tale anche dei loro flussi di pensiero.

I “servi di scena” sono presenti su tutti gli scenari umani. Io ne conosco parecchi. Il tema è che molti di loro sono inconsapevoli. Potrei fare nomi e cognomi di persone che lavorano in aziende dove ho ruoli di vigilanza etica. Ovviamente non lo farò. Non provo neanche a farglielo notare, o meglio, con qualcuno cerco di verificarne la consapevolezza (di esserlo), che è già qualcosa.

Mi chiedo quanti “servi di scena” circondino Putin, in modo tale da consentirgli di fare, di volta in volta, magari, il poliziotto buono, mentre un altro, un Medvedev ad esempio, interpreta la ridicola parte del poliziotto cattivo, come è accaduto negli ambienti di ogni autocrate, nel corso della storia. Ecco: essere “servi di scena” è un dato psicologico, ma forse anche antropologico, e lo scrivo in senso non lombrosiano… ché non potrei farlo.

Questi “servi di scena”, sia che siano nell’entourage di Putin, sia che si collochino nei dintorni di una uomo di potere economico, non sono affidabili, né sono disponibili, solitamente, a mettersi in discussione. Fanno finta di ascoltare e sono addirittura impazienti, se qualcuno gli fa notare che le cose potrebbero essere anche diverse, non capisco bene se perché sono convinti che il loro padrone abbia sempre ragione, o perché non ce la fanno proprio, cognitivamente. Forse per tutte e due le ragioni in un dannosissimo combinato disposto.

Sarebbe importante che questi “servi di scena” fossero messi nelle condizioni di pensare alla loro umiliante condizione. Nel mio piccolo, sto cercando di contribuire all’aumento dell’auto-consapevolezza, almeno nei casi meno disperati.

Avanti, con forza e coraggio.

“Agorà”, in Greco antico, significa slargo, piazza: il plurale è “agorài” (piazze). Bene: vedo Letta del PD che troneggia su palchi dove la scritta è la seguente “Agorà democratiche”, quindi con il nome al nominativo singolare e l’aggettivo al plurale. Non mi si dica che in italiano i plurali greci non si mettono (come nell’inglese inserito in un testo italiano, perché sarebbe come dire che greco e latino stanno all’italiano come l’Inglese). Conclusione: Greco e Latino sono “papà” e “mamma” linguistici dell’Italiano e dunque, se non si conosce l’abc del Greco antico, si lasci perdere, per carità

Alle solite! Si usa una lingua antica e si fanno figure barbine. Chissà perché lo fanno… fa figo? E’ una cosa capalbiese, radical chic, snobistica? Mi par proprio di sì. Poi sono più o meno gli stessi che dicono mìdia invece di mèdia, plàs invece di plus, perché hanno deciso che la koinè inglese si è impadronita anche di un neutro latino della seconda declinazione, o di un avverbio comparativo di quantità.

Non è serio usare termini e concetti che non si conoscono per fare bella figura… con chi, poi? Chi non conosce il greco antico non si accorge dell’errore, e ci capisce poco o nulla del sintagma greco-italiano, a meno che il “colto” Letta non lo spieghi, mentre chi conosce il greco, può anche ridersela. Bel risultato.

Gli uomini e le donne di sinistra non avevano bisogno di grecizzare o latineggiare sbagliando, perché gli Amendola, i Pintor, i Macaluso, le Iotti, le Anselmi, i Chiaromonte, i Magri, le Castellina e le Rossanda, i Natta, i Bufalini, i Martelli, i Valdo Spini, et alii aliaeque (che Dio abbia in gloria chi non c’è più e protegga chi è ancora tra noi), pur potendolo fare, non indulgevano in inutili sfoggi di classicismi fuori luogo. Neppure Alessandro Natta che insegnava greco e latino al classico.

Ora, invece, seguendo la linea sub-culturale del web, che banalizza, semplifica e confonde cultura vera e raffazzonate citazioni, non pochi tra gli attuali politici di sinistra, come il sopra citato segretario, tra i quali tenta di galleggiare anche un Conte e il sempre parvenù Dimaio, abbozzano ipotetiche idee-forza e sintagmi markettari solo apparentemente colti e originali, in realtà scorretti, ma per nulla intelligenti ed efficaci.

Non parlo della destra, che offre – solo eccezionalmente – persone colte in posizioni di rilievo. Salvini e Meloni sono dei non-laureati al potere, ma questo non è il fatto più grave, perché, come chi mi conosce bene sa, io ho incontrato nella mia non breve e non da poco esperienza di incontri, diversi laureati non-colti e poco intelligenti, e non pochi “solo” diplomati, e anche con la terza media, di grande intelligenza e cultura. Un nome su tutti: Pierre Carniti, storico segretario generale della Cisl, che conobbi bene, aveva solo la terza media.

Salvini e Meloni (questa più di quello) sanno stare davanti a un microfono anche con grande efficacia, ma quando si spendono in ragionamenti che richiedono veri e seri fondamenti culturali, magari in storia, economia, temi sociali, mostrano tutta la loro inadeguatezza, anche qui evitando di citare la loro assoluta ignoranza in temi di filosofia del diritto e di etica generale.

A destra si trovano persone di cultura, certamente, e alcune anche molto visibili, come Marcello Veneziani oggi, e un Pino Rauti qualche decennio fa. La cultura è qualcosa di diverso dall’ideologia, ma quando manca, anche l’ideologia zoppica, come insegnava un grande Italiano, Antonio Gramsci.

Viaggiando ascolto spesso le cronache parlamentari di Radio radicale, emittente benemerita che i “grillini” qualche anno fa volevano costringere a chiudere, ma non ci sono riusciti; ebbene, il livello degli interventi dei DEPUTATI (o dei SENATORI), compresi i leader, a parte qualche eccezione molto rara, è caratterizzato da: 1) un linguaggio approssimativo, impreciso e a volte indecente, evidenza di un parlato in italiano di scarsa qualità e di una conoscenza delle lingue estere risibile (basti ascoltare le citazioni faticose degli anglicismi, che spesso sfiorano il ridicolo); 2) un’aggressività verbale che non sembra rivolta a degli avversari politici da confutare nel dibattito, ma a dei nemici da abbattere; 3) un’incapacità propositiva madornale, e mi fermo qui, per non infierire, perché questa mediocrità perfino pericolosa concerne tutte le aree politiche, di tutte!

La politica, comunque, è un “luogo”, un ambiente, con poca o punta cultura, oramai da decenni. In politica approdano figure e figuri di tutti i tipi, generi e specie, senza la selezione che fino a qualche decennio fa, funzionava, per impedire che “scappati di casa” diventassero sindaci o deputati o addirittura ministri, se non capi del governo.

Ora, invece, è possibile che uno arrivi al Governo della Repubblica Italiana senza avere prima percorso un lungo e non facile tratto di strada formativo ed esperienziale nella società, dentro i problemi, capendo pian piano di sanità, servizi, lavoro, occupazione riforme, e poi… di giustizia sociale, civile, penale, il ruolo delle parti sociali, la differenza e la necessaria integrazione tra diritti civili e diritti sociali, la relazione indispensabile fra declinazione dei diritti e osservanza dei doveri…

…per cui senti blaterare di diritti e diritti e diritti e, se gli chiedi che cosa intenda, una Lezzi, un Licheri, un Lollobrigida o una Cirinnà qualsiasi, non sanno risponderti altro che tautologicamente, senza conoscere nemmeno, beninteso, il significato del termine che ho appena usato.

Contratto di lavoro e contratto psicologico

firma-contratto-di-lavoroIl diritto ci insegna che il contratto è un negozio nel quale vi sono due o più contraenti (dal verbo latino cumtrahere). Vi sono vari tipi di contratto, tra loro simili ma non identici, come il contratto di acquisto e il contratto di lavoro. Il contratto di acquisto di un bene durevole, ad esempio un’auto o una casa, prevede un accordo commerciale tra un venditore e un compratore nel quale si stabilisce il prezzo della transazione, le modalità e i tempi del pagamento.

Il contratto di lavoro, prevede comunque, analogamente, uno “scambio”, ma di natura e tipologia assai diverse: nel contratto di lavoro si realizza un accordo tra persone, non la vendita di un bene tra due o più persone. Il contratto di lavoro prevede uno scambio molto più complesso e duraturo nel tempo: se nella transazione commerciale vi è l’alienazione di un bene contro la corresponsione di una somma concordata sulla base di un prezzo condiviso del bene stesso, nel contratto di lavoro, avviene una pattuizione che si dipana e vive nel tempo.

Il lavoratore e il datore di lavoro concordano per iscritto uno “scambio” possibilmente equo tra prestazione e retribuzione, ma questo comporta un’alea che nella mera transazione commerciale non c’è. Il contratto di lavoro, infatti, dura nel tempo, sia esso a tempo determinato o indeterminato; è dinamico, passibile di modifiche, di cambiamenti, di trasferimenti, di crescita, di novazioni.

E comporta anche una dimensione completamente diversa dal mero contratto di compravendita: la dimensione psicologica e relazionale. Il rapporto di lavoro, oltre che essere regolato da un contratto a valenza giuridico-normativa, è regolato da un patto psicologico e comportamentale.

Non può darsi un contratto di lavoro, se non vi è anche un patto di altro genere, un patto che vincoli i modi di fare, di lavorare, di dialogare, di relazionarsi tra i vari soggetti, tra datore di lavoro e dipendente e tra questi e tutti gli altri colleghi. Il contratto di lavoro costituisce e costruisce una relazione, un qualcosa di incommensurabile, di non esprimibile con algoritmi numerici, di irriducibile alla mera transazione economica.

In qualche modo è un fatto e un atto creativo, sorprendente, che mette in gioco fino in fondo i due contraenti, il datore di lavoro e il dipendente, e non consente di pre-vederne gli esiti e i successi o insuccessi. Fa parte dell’eterno dipanarsi della complessità e degli intrecci di vite, menti, esperienze e aspettative diverse.

E’ uno tra modi più validi di collaborare tra diversi, dopo tante esperienze storiche fallimentari, per costruire progetti e aumentare ricchezza da condividere e vite da convivere, bene.

Nel tempo e nella storia

bob-dylanRobert Zimmermann, nato a Duluth nel ’41, mi ha accompagnato con altri dall’adolescenza, fino a che scrissi qualcosa su di lui. Qualche anno fa l’ho visto e ascoltato -un poco imbolsito- a Padova, su richiesta di Bea che stava diventando musicante. Ecco gli antichi versi per Bob Dylan, pubblicati nel 2004 (In Transitu meo, Chiandetti ed.)

 

PASSEGGIANDO PER DULUTH

Intravide el su duende Federigo,/ Per le strade piovose, con Bob Dylan./ “What’s el duende?”/ E’ forse il dàimon, lo swing,/ O quel lieve traccheggio che li sfiora?/ E’ sìncope (συνκοπη),/ O il tempo rubato di Brailowski, che esegue Sebastian di Sassonia?/ O è la tua/la mia folìa, un lottare/ non pensare “é un sentire/non capire”/ come di Paganini disse Goethe?/ Capire nulla e poi vagare/ Per l’albe montagne, che esistono/ Solo perché tramonti la luna.

 

E altro che allora scrivevo, talora ascoltando il piccolo poeta ebreo, forse remoti echi del paradiso in Knocking on heaven’s door.

 

GIUNTI SULL’ONDA DELL’ANTICO FIUME

Alla porta del mare la salmastra brezza è vinta, e trasparente e memore/ Dei ghiacci frammisti alla pietra frantumata,/ Del vento per mille albe levato/ E di ogni seme sparso nella piana,/ Delle vite nascoste tra i ciottoli nell’acqua impervia del fiume neonato,/ Degli occhi impauriti degli animali/ E dei primi stupori di un uomo.

 

E altro…

 

LIBERATI ENDACASILLABI

Quando qui la stagione si rinnova/ E a maggio i fiori annidano le serpi,/ Raggi incerti del sole tra le nubi/ E incanto di profumi sulle gote.

 

Senza la metafora/ E l’ambiguo nostro procedere-nel-mondo,/ Moriremmo nel dolore,/ Sopraffatti dall’esistere,/ Enti non bastevoli,/ Come siamo.

 

PASCAL

Inframmezzati echi dell’immenso/ Scendono e risalgono le scale tonali,/ e la risacca commenta la sera./

Ci si chiede quanto manca per l’alba,/ Quando vuoto e silenzio/ Son pieni d’ogni parola che pensi umana:/ Lès prèludes ètèrnelles/ Dello stesso infinito scenario,/ oh, verba numquam apta dicibili!

 

OTTO&BERNELLI

Alla festa del borgo ne l’autunno,/ Tammurria/ti ritmi e scalpitii/ Dietro i bambini o coppie infreddolite,/

E i musicanti./

Occhi sgranati inseguono le giostre rutilanti,/ Ma son pochi,/

Nel primo pomeriggio di quel sabato./

Scintilla in fondo una gran luna,/ Nastro di luce di melanconia/ Sui piccoli giostrai.

 

LA NOIA DEGLI ANGELI

Or più non batte/ Che l’ala del mio sogno,/ Ma la protervia del vento mi sostiene,/

E un desiderio aspro di vita./

Or più non sento pulsare/ Che il cuore della terra.

Oh, che il dolore venga, dell’uomo,/ A insaporirmi le narici!/ Oh, inabitate stanze mie del mondo perfettibile a me ignoto,/

Oh, graziose voci dei viventi mortali,/ Oh carezze di mani sconosciute,/

Abbiate tempo di aspettarmi,/ Ché il mio tempo d’angelo/ E’ trascorso,/

E la domanda accolta.

 

(I primi due versi sono stati raccolti da un’iscrizione posta su una stele nel Parco della Rimembranza – Colle S.Elia, Redipuglia – Gorizia)

 

ERRANTI

Dove si può trovare la cesura/

O l’umana ambiguità che dis/separa l’errante dall’errante,/

Colui che -si dice- sbagli, da colui che va per strade alla ricerca/ Di sé, e del proprio posto, senza meta, poiché non v’è luogo sicuro al mondo, né altro rifugio o spiegazione/ Del mistero umano e delle lacrime;/

E, di più, dunque, come si può con/fondere l’errore/

Con l’errante?

 

IN MUART DAL FRADI

Gòtin i cops/ Su la rudìne,/ Plòe di dicembre./

Sgrignôli claps davòur di ì,/ Chiâf bas, cidìne:/

Vot di chel mês tànchu àis fa/ Si soteràve il prin./

Il timp,/ Cul frêt e cu l’estât/ Al pàsse.

 

Titolo: in morte del fratello; la lirica è in lingua friulana nella parlata rivignanese 

Trad. dal friulano: Gocciano i coppi/ Sulla ghiaia/ Pioggia decembrina// Sgra-no i sassi/ Dietro a lei/ Testa bassa, zitta// Otto di quel mese/ Tanti anni fa/ Si sep-pelliva il primo// Il tempo,/ Col freddo e con l’estate/ Passa

 

PADRE

Nel dormiveglia ti ho sognato,/ Che tornavi, vivo, dalla guerra/ Estranea:/ Durazzo e Igoumenitsa,/ Con lo zaino vuoto,/ Tu non domo,/ Ma dovevi ripartire/ Con lo zaino/ Del lavoro;/ Era come già sapessi/ Che non ti avrei più avuto.

 

ELENA

Tua madre ha detto/ Che avrai freddo/ Stasera, nella terra./ Ma tu/ Consolala da altrove/ Raccontandole i giochi che fai.

 

LE CICALE DI SAN MARTINO

Ha agito lo scalpello di krònos/ Dove l’uomo sopraffece se stesso,/ Ma dove non ha continuato,/ Son rimasti gli aperti spazi/ Della muta ricordanza, / Crescendo gli alberi e i fiori,/ E in essi profusi i colori.

Lì l’uomo s’è fermato/ Al Ricordo dei morti in battaglia,/ Incidendo con Nomi ed Epigrafi/ Le pietre e la muraglia/ Lungo il vialetto ventoso,/ E sistemando l’ossario di crani/ Con le bocche digrignate,/ Nello sfolgorante mezzodì ritmato/ Dalle elitre instancabili/ Delle cicale.

San Martino della Battaglia (e Solferino): seconda Guerra d’indipendenza, 1859

 

ELEGIA

Gatti sonnecchianti nel meriggio/ Antico d’un giorno di tardo inverno,/ Altri colori, altre leggende in sogno/ Nel paese invecchiato, altre parole./

Catìne morta da poco./ Il paese ha connotati esausti,/ Un rifugio impallidito col tempo:/ Le voci, mia madre, i morti e i campi,/ E la scansione più lontana/ Dell’infanzia.

Le parole odorano d’un basso/ Orizzonte di castagne acerbe./ Il vento va qua e là,/ E le ombre.

 

…per onorare Dylan,  per ricordare mia madre e mio padre, la piccola Elena e anche, ma un poco, Dario Fo.

i miserabili

marketing-della-pauraNon è solo il titolo di un grande romanzo di Victor Hugo, di cui esistono varie versioni cinematografiche, ma anche un’apostrofe proporzionata del comportamento di molti, ultimo dei quali Salvini, che insulta il Presidente Ciampi appena deceduto. Un’altra: Salvini a Pontida ha detto che il suo papa è Benedetto XVI: il poveretto non sa che il papa è sempre quello regnante, non lo decide lui e perciò, volente o nolente il cultissimo politico, ora è Francesco.

Altri miserabili, fatto che mi addolora, pare siano alcuni dirigenti della Uil nazionale come Barbagallo, Angeletti, Bosco, etc. ora inquisiti per aver distratto soldi del sindacato spendendoli in una crociera ufficialmente destinata a una “riflessione strategica” (ah ah ah, visto il livello epistemologico dei soggetti) denominata “Progetto condiviso”. Mi addolora anche perché nella vita precedente ho fatto parte della famiglia sindacale dove ho conosciuto galantuomini e donne come Giorgio Benvenuto, Silvano Veronese, Vincenzo Mattina, Raffaele Grappone, Loris Zaffra, Rino Zulian, Renzo Fasiolo, Arno Teutsch, Franco Lago, Anna Marin, Nando Ceschia e via andando.

E ve ne sono altri ad libitum, in tutti i settori sociali, economici, comunicazionali, ecclesiali, politici, mass-mediologici, e chi ne ha ne metta, caratterizzati da due principi fondamentali, a volte intrecciati, a volte no: la stupidità e la malignità. Nel caso sindacale di cui sopra propendo per la prima causa generatrice, peraltro trattata in un post precedente, di gran lunga la più pericolosa per il prossimo. Invece, quando si tratta di malignità, solitamente chiamata cattiveria, non è molto difficile individuarla e combatterla con successo.

vaffanculo, ovvero va a fa’n culo (eh?)

bottegaCaro lettor,

non è che la mia prosa sia  scivolata così grillinamente in basso. Gli è che ogni espressione ha un’origine, un fomite, un primo pronunziante l’espressione stessa. Nel caso, lungi da esserlo stato il comico politicante, si può far risalire il detto, forse, al Rinascimento italico. Si sa che gli artisti, dai maggiori a quelli più andanti, operavano a bottega con dei garzoni, aiutanti, giovani mandati lì dai padri, per i quali questi ultimi pagavan pigione e anche l’istruzione professionale del “maestro” pittor, o scultor, o fabbro-ferraiol-armaiol che fosse.

E allora cotesti giovini stavano lì rispettosamente, non com’è in uso ai nostri tempi che si dan perfin le terga al professore in aula, in ascolto attento dell’artigiano-artista che li aveva accolti, a volte come figli, per imparare un’arte.

Nelle botteghe dei pittori fiorentini o veneziani molti giovini operavano: pare che Jacopo Robusti, il sommo “Tintoretto”, ne avesse un tempo fino a quaranta. E che facevano costoro per li primi tempora? Preparavano le malte per l’a-fresco, sminuzzavano il lapislazzuli e il carminio per gli azzurri e i rossi, e per tutti gli altri colori, e dopo un po’ di tempo il magistro li invitava a tirar di rosso e blu i mantelli e i cieli e l’acque, fino a che non avessero imparato la lezione.

Sol dopo anni di duro esperimento, veniano invitati a provar la forma umana, ma non le mani, li piedi e i volti, ché eran ancora compito del capo, ma forse le terga delle figure umane e animali, che son più tonde e facili da fare.

E allora, nelle botteghe piene di colori e tele e pennelli e secchi, si poteva udir il perentorio invito del maestro: “Zuane, va a fa’n culo (eh?)!, nel senso di procedere alla dipintura delle terga di una figura umana o di cavallo, o animal altro che fosse.

Oggi l’espressione ha assunto un significato che ha nitor d’insulto, e un senso ambiguo e sessualmente inteso, ma così non era.

E adunque, come possiamo mettere le cose? Dirla ancora come un tempo? Ovvero tener per buono il nuovo senso? Sia come sia, è difficile astenersi dall’uso attual, per tutti i diavoli, e per i loro accolti umani che meritano l’invito, pure troppo gentil, talora.

L’educazione civica

tatataCaro lettore,

il nostro pensiero ha bisogno, sia di riflettere sulle cose generali, sui progetti, sulle norme che devono essere valide per tutti in una società organizzata, sia su ciò che sta accadendo, soggettivamente, qui e ora. Ha bisogno di uno sguardo sul tempo presente-che-passa, e di uno sguardo sul breve-medio, anche se in modo diverso, più intuitivo nel primo caso e più discorsivo nel secondo.

La nomotetica (dal greco nòmos, legge-norma, e tìthemi, porre) è la “scienza che si concentra nell’individuazione e nell’elaborazione di leggi generali”. e perciò si configura come struttura o cornice degli accadimenti in qualche modo dipendenti dalle azioni umane regolate, nel tempo. Moltissimo -però- sfugge alla nomotetica, nientemeno che tutto quello che sta fuori dal libero arbitrio dei singoli decisori: forse la maggior parte dei vettori causali e degli effetti causati. Un esempio: il codice della strada è uno strumento “nomotetico”, ma quanto e quante volte viene violato?

Idiografico si dice di “ricerca, indagine et similia il cui oggetto di studio è un caso particolare e specifico e non una classe di fenomeni dalla cui analisi trarre leggi e regole generali”, e qui siamo al soggettivo, al puntuale, alla decisione e all’azione del momento.

A volte il pensiero, ancorché preceda la decisione di agire (e a volte sembra proprio il contrario, specie nelle reazioni immediate), che qualche ricerca neuro-scientifica mette in serio dubbio, è incerto, incespica, “batte in testa”, e dunque non basta per assumere decisioni corrette. Nella mia esperienza constato non raramente come accada questo, e allora bisogna cercare un rimedio: ma più che un rimedio è un ambiente ciò che necessita trovare, una capacità di con-tenere gli atti e le reazioni. A volte è meglio non puntualizzare la propria posizione nel contrasto, altre volte è necessario, invece, farsi valere, anche per ragioni di carattere pedagogico.

Poco fa un bambino mi ha chiesto di tirargli giù da una griglia elevata il suo pallone, l’ho fatto e lui, lanciato un urletto di gioia ha preso ad allontanarsi: l’ho chiamato e gli ho detto un po’ severamente: “neanche un grazie?”, e allora lui, non poco stupito, mi ha biascicato uno strascicatissimo e imbarazzato “grazie”. Ma neppure a dir grazie oggi si insegna ai bambini, e sono anche convinto che se i genitori del pargolo avessero sentito la mia apostrofe correttiva, mi avrebbero redarguito “perché nessuno si deve permettere di…”.

Ecco a cosa potrebbe servire un po’ di nomotetica pedagogica: a ripristinare l’educazione civica, sapere oggi edulcorato nella interculturalità, nella dottrina dell’accoglienza et similia.

Mi par già di sentire gli alti lai dei politicamente corretti dell’agone politico (nomi a profusione, i soliti, presidenta della camera in testa) e mediatico (Lerner, Floris, Santoro e dintorni): ma che, scherzi? che educazione civica, che rispetto, che dire dei formalissimi ed ipocriti grazie…

fashion blogger e icone social

via di TorinoOspite di un talk show su una tv privata ho imparato che cosa sono le icone social e le fashion blogger. Finora ne avevo solo sentito parlare, ma non riuscivo a distinguere le due figure.

Ora il loro ruolo mi è noto e non ne sono impressionato più di tanto. In trasmissione c’era una rappresentante per categoria, più un frizzante giornalista radio. Le due ragazze non avevano sbavature estetiche, erano “perfette”.

Mi preoccupa la perfezione. Di simpatico c’è stato che non ho percepito fanatismi o esaltazioni particolari, anzi, una delle due, la più matura, mi ha chiesto a un certo punto, in diretta, se io non consideri stucchevole e superficiale il loro lavoro, e lo stesso sistema di valori sotteso. La domanda mi ha in qualche modo sorpreso e le ho risposto di no, ché la differenza, nella vita e nel lavoro, la fanno sempre le persone.

Interpello Bea sul ruolo e mi scaraventa una risposta irriferibile.

Penso che il fenomeno sia coerente con i nostri tempi e il tipo di comunicazione leggera e superficiale che funziona, pericolosa solo se non si è consapevoli di com’è fatta e dei suoi limiti.

In definitiva, un’esperienza “istruttiva” e non sgradevole: mi chiedo, però, che cosa succederà di queste ragazze, quando la levigata perfezione della giovinezza lascerà il posto a qualche ruga espressiva, a qualche segno del tempo.

Se saranno capaci di autoconsapevolezza passeranno ad attività più consone alle nuove età che avranno, altrimenti resteranno nostalgie delle icone che erano un tempo.

Il gatto del Papa

il gatto di papa BenedettoJoseph Ratzinger è stato Papa della Chiesa Cattolica per otto anni (2005-2013). Un grande maestro di teologia (chi vuole dia uno sguardo alla sua “Vita di Gesù di Nazaret“, in tre volumi, o provi a  scorrere la prosa limpidissima delle sue tre lettere encicliche, la Deus Caritas est, la Caritas in Veritate e la Spe Salvi, e c’è del suo anche nella lettera sulla fede firmata da papa Francesco, la Lumen Fidei). Ed è anche un uomo mite e gentile, non mediatico come alcuni suoi predecessori, ma vero.

Mi sono fatto nel tempo un’opinione su di lui con notizie, posso assicurare, affidabili. ha anche altri due atout che lo possono fa apprezzare molto: ama i gatti e Mozart. Mi sembra che siano due segni evidenti di finezza umana.

Da ultimo, un fatto: la sua rinunzia canonica al pontificato per ingravescente aetate, e un trarne lucidamente le conseguenze. Un gesto, un modo silenzioso e umile di farsi da parte per lasciare spazi a chi può procedere nella missione ardua di condurre ancora avanti, nel Tempo della Salvezza, il Popolo di Dio, che annovera tutti gli esseri umani, compresi i lontani e i dispersi.

La piazza e la stazione

Anversa-Centraal_Station_of_Middenstatie_2Ciò che mi disturba, ovviamente (anche per la mia biografia), non è la piazza San Giovanni piena di gente e bandiere, che nella storia italiana, come tante altre piazze del mondo per le diverse nazioni, è stata molto importante, ma la sua presunzione e il potenziale illusorio. Non sto parlando del milione di persone (di più, di meno? non importa) che ieri hanno sfilato per Roma, chiamati dalla Cgil a protestare contro le misure sul lavoro impostate dal Governo. Sto parlando dei gruppi dirigenti, sia di quel sindacato (gli altri sindacati non navigano in acque di consapevolezza molto migliori, e questo non è “mal comune mezzo gaudio”), sia dei politici pidini presenti, lasciamo stare quelli di Sel, che stanno su una nuvoletta di noiose narrazioni.

Quei signori e signore, non so quanto consapevolmente (a volte nutro seri dubbi sulla loro lucidità), hanno fatto rimbombare parole illusorie e menzognere, sia quando hanno espresso giudizi sulle ipotesi riformistiche del lavoro governative, sia quando hanno “minacciato” tuoni e fulmini (sciopero generale) per cambiare radicalmente la manovra, e per una ragione molto semplice: costoro stanno ormai rappresentando quasi solo se stessi, e poco e male anche quel “milione” di persone generose della piazza, le quali, ahiloro, sono una minoranza della minoranza dei lavoratori italiani.

Se i capi della manifestazione romana, a partire dalla tristissima, per voce, sguardi e concetti espressi, signora Camusso, sono in buona fede, li perdoniamo, ma sono inadeguati; se invece al contrario conoscono la situazione, sanno di mentire e recitano una parte in commedia, sono degli irresponsabili.

Il mondo e l’Italia stanno andando da un’altra parte.

E veniamo alla stazioncina dismessa di Firenze dove il capo del Governo ha riunito una convenzione. Non so bene che cosa è stato detto; ho sentito i toni, che non mi sono parsi radicalmente alternativi né ostili alla piazza romana, e neppur miracolistici o particolarmente guasconi. Mi sembra che si stia imboccando una strada ragionevole sulla quale perseverare.

Ora è tempo di tenere duro con tutti quelli che nulla vogliono cambiare, come i burocrati europei in dismissione (Barroso, hidalgo stagionato, grasso e borioso), come i burocrati italiani impauriti dal cambiamento, come le “bindi” e le altre madonnine infilzate di una sinistra spaesata e afona.

I ragazzi e le ragazze di oggi si aspettano che facciamo qualcosa per loro, smettendola di pensare solo a chi, bene o male, garanzie e diritti acquisiti, in tutta la loro dubbia valenza etica, lì ha già portati a casa.

Io lo debbo a mia figlia Bea e a tutti i ragazzi e ragazze che incontro nelle aziende che seguo, e nei corsi a me affidati.

Occhi pieni di speranza, più passione che virtù teologale, ma ora va bene così.

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