La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.
a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;
b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;
c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.
Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.
Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.
Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.
Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.
Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.
Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.
Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.
Una quaestio disputata, come avrebbero detto/scritto Tommaso d’Aquino, Alberto di Colonia, suo magister, o Johannes Meister Echkart, docente alla Sorbonne, abbastanza imbarazzante, sia sotto il profilo morale, sia sotto il profilo socio-educativo, sia sotto il profilo civile e penale, per quanto – generalmente – si tratti di atti di non eccezionale momento criminale, ma comunque assai fastidiosi, specialmente se perpetrati nei confronti di cittadini fragili come egli anziani, che non vengono “esentati” dagli “attacchi” come obiettivi, anzi, al contrario sono spesso preferiti, proprio perché maggiormente indifesi e di facile approccio.
Nel nostro tempo, almeno da mezzo secolo, la sociologia come scienza “a-valutativa” o quasi meramente descrittiva, ci ha spiegato che tutto ciò che accade nella società è prevalentemente generato dalla… società stessa, come soggetto collettivo. Ovviamente, tale descrittività possiede intrinsecamente una robusta valenza politico-morale, poiché mette obiettivamente “a lato” o tra-parentesi la responsabilità personale-individuale di atti liberamente compiuti. Poniamo pure che il disagio generato da azioni sbagliate nasca dalle ingiustizie sociali, per cui consegue che, se la politica riuscisse a rimediare alle ingiustizie, magari solo come effetto secondario (se pure utilissimo), otterrebbe un miglioramento delle relazioni sociali, inter-soggettive, intergenerazionali, e infine una drastica riduzione della criminalità, a partire da quella minore.
Si potrebbe commentare in questo modo: magari fosse così, ma non è così, ed è facilissimo provare a individuarne le ragioni con un esempio semplicissimo come il seguente: a parità di condizioni sociali di disagio si hanno esiti molto spesso assai differenti: da una famiglia disagiata può uscire un giovane che diventa facile preda di esempi delinquenziali e vi aderisce, e un suo fratello che, invece, decide di percorrere una strada radicalmente diversa, positiva, di impegno, di lavoro, di studio, di crescita personale e professionale. Nel caso esposto, si può trattare di due fratelli, che possono essere perfino gemelli monozigoti. Ciò spiega con chiarezza come le componenti filogeneticamente generative di esiti eticamente positivi o negativi attengano anche ai caratteri delle persone singole, non solo alle condizioni economiche. Questo ragionamento già spiega la ragione per cui più sotto esprimerò una critica severa alla presa di posizione della consigliera comunale del PD milanese, Monica Romano.
Riporto un brano giornalistico che attiene alcuni fatti accaduti recentemente a Milano.
“Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».
Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L’autrice, appena eletta nell’assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell’ordine».
Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori PD («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolatadove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il PD si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l’attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l’idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell’ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c’è stato il PD. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».
Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l’immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».”
Dico la mia: se, ovviamente, sono contrario a “giustizieri” à la Charles Bronson (poi bisogna vedere, de facto, a come uno può reagire se dei criminali gli ammazzano la famiglia, se si limita a chiamare i Carabinieri…), quello che mi dispiace e mi disturba è la visione quasi unilaterale, indulgente e comprensiva che traspare dai toni usati dalla consigliera milanese, e dal paventare conseguenze per chi dovesse reagire ai furtarelli con destrezza. Faccio un esempio. Se la vittima, invece di essere una pensionata settantacinquenne, ben scelta dalle ladruncole, si fa per dire, perché resa lenta dall’età e facilmente spaventabile, la “vittima” è un cinquanta/sessantenne allenato alle arti marziali, che con una mossa di judo, senza farle male, mette in condizioni di non nuocere la bambinotta, che conseguenze dovrebbe patire questo signore?
Io ho qualche dubbio che possano configurarsi estremi di reato, perché si tratterebbe di una reazione proporzionata e non destinata ad offendere, quella del judoka. Non si tratta mica di lodare operazioni come quelle della polizia americana, che pare essere fuori controllo in molte situazioni.
Non dimentichiamo che vige, sia in morale sia in punto di diritto, il diritto sacrosanto alla legittima difesa, per cui, se una/o cerca di derubarmi, io resisto e, se posso, cerco di divincolarmi dal rischio, anche spintonando l’aggressore. O non vale più, cara consigliera? Peraltro la signora consigliera milanese minaccia di denunziare non tanto chi dovesse predicare o praticare le vie di fatto reattive, ma chi cerca di documentare questi fatti per fornire una documentazione probatoria alle polizie. Mi sembra che il principio di tutela della privacy delle ladruncole non possa prevalere sul principio di tutela dell’integrità psicofisica del cittadino, perché uno strattone violento a una signora e o a un signore anziani li può far cadere per le terre con il rischio prossimo di rottura di qualche arto. Magari il femore. Viene prima, in una scala morale, la tutela della privacy o la salvaguardia di un femore già cagionevole per densitometria?
Questo per quanto concerne la concretezza di quegli eventi da strada.
E veniamo agli aspetti etico-sociologici, pedagogici e di diritto. E’ evidente che una delle cause generative di quel fenomeno criminale è da collocarsi negli ambienti che li producono, nelle famiglie delle ragazzine, nell’educazione che (non) ricevono, nelle loro esperienze di vita. Ecco: se però l’ambiente che le “produce” è tendenzialmente o realmente insensibile alla cultura del rispetto della proprietà e soprattutto dell’integrità psico-fisica altrui, è evidente la difficoltà di accedervi con strumenti educazionali e pedagogicamente adatti.
L’ente locale e le forze di polizia devono allora impegnarsi primariamente nella ricerca di quelle famiglie per ottenere il rispetto dell’obbligo educativo di legge, entro il quale vengono proposti i valori principali della convivenza civile, e poi anche procedere nella vigilanza e, ove necessario, nel contenimento di quei “reati” (virgoletto in quanto formalmente non sono reati penali quando commessi da minori).
La politica e il legislatore debbono, nel contempo, emanare norme che contengano, sia la parte construens dell’educazione morale e civica, sia la parte di prevenzione del rischio per tutti i cittadini, comprese le ragazzine che, forse inconsapevoli, anch’esse si sottopongono a dei rischi.
Il feedback, cioè la retroazione, o la risposta a una sollecitazione verbale/ fattuale, è un elemento centrale delle nuove scienze organizzative e gestionali, anche se come tale è conosciuto fin dai tempi antichi, ad esempio, nelle scienze e nelle prassi politico-militari greco-romane, ma anche egizie, hittite, assiro-babilonesi, persiane, etc..
Sinossi con feedback e feedforward
Chissà perché nessuno, o quasi nessuno (fanno eccezione i fisici teorici, cioè quelli interessati ai quanta/ qualia e alla relatività generale), fa il benché minimo cenno al feedforward, che è altrettanto importante del feedback.
I gestori/ organizzatori/ capi/ responsabili/ formatori – o, che dire si voglia – facilitatori, in ambito di risorse umane, non stanno ancora apprezzando questa metodologia che si pone di fronte al feedback come contraltare e come complemento razionale. Con qualche significativa eccezione. Vediamo: infatti…
Il feedforwarding, termine coniato da Marshall Goldsmith e Jon Katzenbach (autore di “The Wisdom of Teams“, Harvard Business School Press, 1993), è una particolare tecnica di comunicazione orientata sulle azioni future da realizzare per obiettivi pre-stabiliti.
Si può utilizzare nei percorsi di coaching come itinerario complementare al feedback, che resta uno strumento essenziale per lo sviluppo del personale e dei gruppi di lavoro.
Un esempio di feedwarding si può trovare nelle modalità proposte da Marshall Goldsmith, Executive Coach, NYT Bestselling Author e Dartmouth Tuck Professor in Management Practice.
L’idea centrale di questo metodo di coaching si incentra su una pre-visione razionale del processo di sviluppo professionale e manageriale di un lavoratore su cui l’azienda punta per la propria crescita. Il destino dell’azienda e quello del lavoratore, allora, si incontrano positivamente nel percorso di feedwarding, nel quale il budget generale richiama tra le sue componenti essenziali il / piano/ i di carriera/ e del proprio dipendente o di più dipendenti.
Accanto a ciò si colloca anche la gestione degli “errori di crescita”, che sono ineliminabili e perfino indispensabili per un’evoluzione positiva della struttura e delle persone coinvolte. Gli errori “in buona fede” non devono essere sanzionati, ma corretti con la disposizione al dialogo costante.
Un elemento costitutivo e caratterizzante di questo metodo è la delega, che si configura come tutt’altro rispetto a un “incarico”, perché è costituita da un processo scientifico ben preciso. Prima di presentarne i termini, conviene riprendere l’idea dell’autore sopra citato, Goldsmith, che propone, in via previa, quattro principi:
Focus sul futuro, cioè non rivangare il passato,
Essere sinceri tra e con il collaboratore,
Essere collaborativi e non negativi o critici,
Selezionare un comportamento da migliorare anche quando si fornisce un feedforward, in modo da incentrare la tecnica sul miglioramento piuttosto che sul giudizio.
A questo punto, si può aprire il discorso sulla delega, che presuppone un utilizzo concertato di feedback e di feedforward.
La delega è forse il principale strumento che – tramite i due sistemi citati – può aiutare nella crescita, sia il singolo lavoratore, sia l’azienda o l’organizzazione cui appartiene. Si è detto che la delega non è un mero incarico di lavoro, ma un processo razionale, logico, scientifico.
Per attuarla in modo efficace occorre che:
sia chiaro l’obiettivo,
si scelga un delegato di cui il delegante ha un’idea circa il potenziale di crescita,
sia spiegato bene al delegato,
siano predisposti i mezzi per la sua attuazione,
siano definiti e concordati i tempi di realizzazione del lavoro delegato,
si mantenga, da parte del delegante, un monitoraggio costante degli stati di avanzamento, senza opprimere psicologicamente il delegato,
si mantenga, in capo al delegante, la responsabilità del risultato in ordine agli obiettivi dati.
Un altro aspetto indispensabile per far funzionare la delega nell’ambito di un processo di feedback/ feedforward è l’assunzione di consapevolezza che occorre evitare o sconfiggere ogni sentimento di gelosia professionale tra delegante e delegato, come conditio sine qua non, per una crescita condivisa.
Il sentimento (o vizio) della gelosia, e di quella professionale in particolare, è molto diffuso, specialmente in alcune declinazioni antropologiche, e va considerato senza alcuna sottovalutazione.
E’ chiaro (e quasi ovvio) che ogni modificazione profonda nell’animo umano, nei sentimenti e nei comportamenti concreti e quotidiani, può avvenire solo se si riesce a far crescere nell’animo stesso la consapevolezza della necessità della modifica. Ogni riforma, anche del modo di lavorare, nasce “da dentro”, poiché se è solo imposta “da fuori” non dura, non essendo stata introiettata anche emotivamente.
Come in ogni ambito dell’agire umano la mera razionalità non basta mai, essendo l’uomo una entità complessa, fisica, psichica e spirituale (su cui si considerino gli studi più recenti sulla complessità, sulla fisica delle particelle e delle onde, recuperando anche le nozioni principali della metafisica classica che, non per me stranamente, possono dialogare), nella quale le ragioni del cuore devono essere considerate altrettanto delle ragioni della… ragione (Blaise Pascal).
Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.
San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).
Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.
Già ebbi modo di scherzare un pochino sull’etimologia greca del nome del Presidente della Francia Macron e sulle radici makro–mikro, grande-piccolo. Il suo nome, poi, Emmanuel, in ebraico Dio-con-noi, se viene collegato a makron dà il senso di un nomen-omen e di un de-stino, cioè di un ìsthemi, verbogreco, cioè stare, che è tutto un programma, come insegna Emanuele Severino. Un presidente della Francia scarsetto, che vive all’Eliseo come a loro tempo ivi vissero e presiedettero la Francia il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou e François Mitterrand.
Willy Brandt
Scholz, il Cancelliere, mi echeggia una parola friulana “discolz“, che significa scalzo, proprio senza scarpe. Ebbene, quest’uomo, socialdemocratico come Willy Brandt e Helmuth Schmidt, ma di statura ben più piccina, mi sembra veramente “scalzo”, rispetto alle enormità politiche che deve affrontare come leader politico della maggiore potenza economica europea. Scarso dialogicamente, scarso come presa sui problemi, incerto e debole nelle scelte che spesso rinvia o rende confuse. Comprendo bene che il “capo-della-Germania” abbia qualche problema storico-politico-psicologico quando si entra su temi militari, e in particolare quando si potrebbe trattare di inviare all’Ucraina, affinché possa difendersi meglio dall’aggressione russa, i potentissimi carri armati Leopard 2, il cui nome echeggia quello del grande e bellissimo felino africano. Dietro questi pensieri viene alla mente un altro nome, quello dei Tigre (questa volta il riferimento è al più grande e forte felino del mondo) al comando del Feldmaresciallo Von Manstein, che nel 1941 sbaragliarono l’Armata Rossa arrivando fino a trenta chilometri da Mosca, fino a Leningrado e a Sud fino a Stalingrado sul Volga.
Poi, sappiamo che furono respinti e sconfitti da Stalin a Est e dagli Alleati a Ovest.
Di Meloni dico questo: qualche mese fa auspicavo che non vincesse le elezioni, dopo che l’inqualificabile Conte aveva fatto cadere il Governo Draghi, sperando che si creassero le condizioni per un prosieguo di quel Governo, di fronte ai problemi che nel frattempo erano sorti, a partire dal 24 Febbraio 2022, il giorno in cui il folle cinismo putiniano aveva scatenato l’aggressione contro l’Ucraina, Europa. Nonostante anche la Russia sia “Europa” fino al midollo, pur essendo immersa nelle vastità sarmatiche dell’Asia.
In quattro mesi la donna politica destrorsa ha lavorato come poteva, cercando di tenere a bada i due alleati che si è ritrovata al fianco, e che spesso si muovono più a suo danno, che sorreggendola. Fermandomi a giudicare la politica di questo Governo di destra-centro, osservo senza alcuna esitazione che questa donna giovane, neanche laureata, una underdog, come lei stessa si è definita con un po’ di malizioso e un po’ snobistico understatement, è molto più capace di quello che si poteva pensare e soprattutto è preferibile, come comportamenti e atti, ai suoi due qui non citati (non occorre farlo) alleati. In altre parole, se la sta cavando abbastanza, anche quando i suoi le fanno sgradevoli scherzi (per modo di dire) come quello del signor Donzelli in Parlamento sul “caso Cospito”. Aggiungo, di giornata, che Meloni deve anche affrontare le conseguenze non di poco conto di ciò che il suo sodale Berlusconi ha ripreso a dire nelle ultime ore/ giorni circa la responsabilità dell’aggressione russa all’Ucraina… che Zelensky avrebbe aggredito il Donbass, non che Putin lo avrebbe fatto con l’intera Ucraina mandando i suoi carri armati fino alla periferia di Kijv e bombardando la grande Nazione ucraina fino ai confini moldovi e polacchi. Mi auguro che Tajani e qualche altro di buon senso riescano a moderare il Cav e a consigliargli di fare, finalmente, il nonno a tempo pieno.
Ma debbo, però, volgere lo sguardo anche a sinistra e… Je sui desolé! Come canta Mark Knoplfler senza i suoi Dire Straits.
Non voglio nemmen parlare del 5S che sono poca cosa, culturalmente e politicamente, anche se incontrano l’attenzione di poco meno del 20% degli elettori. Volgo la mia attenzione al PD, cioè al partito che dovrebbe guidare con saggezza l’altra parte della politica e la mia desolazione raggiunge un’acme che non avrei mai previsto. Ora, questo partito sta rinnovando la segreteria, alla quale concorrono due candidati di bandiera, uno dei quali è l’on.le Colonnello dei Dragoni Cuperlo, che rispetto e con il quale mangerei una pizza e farei una riunione cultural-politica, e l’altra è l’on.le De Micheli, che rappresenta il medium demostrationis sillogistico e la quinta essenza della mediocritas (per nulla aurea).
Sono poi scesi in agone (che agonìa!) il signor Stefano Bonaccini e la signora Elly Schlein. Il primo è un classico e solido amministratore emiliano, la seconda è una giovane donna di cui fino a quattro o cinque mesi fa non avevo avuto contezza né notizia. Andrò al Gazebo tra qualche giorno, pagherò i due euro o tre per partecipare, e sceglierò Bonaccini (e qui invito gentilmente i lettori che mi leggono e che si recheranno al gazebo, a fare come me). Sceglierò Bonaccini per le ragioni sopra esposte e non la Schlein perché non ho alcuna ragione per sceglierla, anzi, ho alcune ragioni che ho maturato in queste settimane per non sceglierla: troppo sapientina a fronte di conoscenze scarse e deboli della realtà sociale VERA. Ciò deduco ascoltandola, con un po’ di fatica e non malcelato fastidio.
Ho già scritto che lei avrà incontrato in tutta la sua vita meno imprenditori e lavoratori di quanti ne ho incontrati io in un giorno solo.
Pertanto, per logica consecutio, dovrei candidare me stesso alla Segreteria del PD. Se la cosa fosse plausibile farei un’operazione molto semplice: 1) proporrei di far riconoscere al Partito, oltre ogni plausibile critica e accusa di anacronismo, che nel 1921 a Livorno si fece un ferale errore a sinistra, con inalterato rispetto per Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Amadeo Bordiga, e 2) di chiamare il Partito: “Socialista Democratico”, questo farei.
E subito dopo: 3) proporrei di smetterla con il politicamente corretto, 4) di smetterla con i sospetti verso gli imprenditori “affamatori”, perché non siamo da tempo più nell’Ottocento e neanche nel Primo e nel Secondo dopoguerra, 5) proporrei di abbandonare la possibilità di attuazione pratica del marxismo filosofico-politico (mantenendo ammirazione, stima e rispetto per il Marx economista e sociologo), perché incapace di com-prendere una sana Antropologia filosofica, come si fece in Germania a Bad Godesberg nel 1959, quando la SPD fece altrettanto e governò quella grande Entità di popolo, nazione, cultura, lingua ed economia che è la Germania.
6) Proporrei di semplificare molte leggi, 7) proporrei di dividere le carriere in magistratura tra procuratori e giudici, 8) proporrei di attuare l’art. 27 della Costituzione rivedendo l’ergastolo come pena assoluta, per riuscire a distinguere caso per caso, e poter assumere decisioni proporzionate a ogni caso, là dove la resipiscenza possa essere strumento moralmente pratico per un reinserimento sociale di chi ha commesso anche gravi reati/ peccati… E molto altro, in questo senso.
Questo farei se la sorte, il destino, la vita mi avessero portato alla candidatura alla segreteria di ciò che resta della tradizione progressista della Storia italiana dell’ultimo secolo.
Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).
Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.
Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).
Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza + ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).
Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?
François-Marie Arouet – Voltaire
Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).
Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismorivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.
Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.
Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.
Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.
L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.
Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.
A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.
Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).
La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.
Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.
La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.
E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.
Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.
Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.
Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.
Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.
Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.
In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.
A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.
Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.
Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…
Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.
Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!
Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.
E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.
L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.
Dal punto di vista psicologico si considera il potenziale come “l’insieme delle energie, delle capacità e delle attitudini presenti in un individuo, ma che non sono richieste dalla posizione che egli al momento ricopre”; dal punto di vista organizzativo il potenziale rappresenta “il confronto tra le caratteristiche proprie di un individuo e le caratteristiche richieste per ricoprire al meglio una posizione o comunque per offrire all’organizzazione il massimo apporto in termini di crescita del valore della stessa”; dal punto di vista culturale il potenziale può essere considerato come “il confronto tra la cultura dell’organizzazione, intesa come sistema di valori, di modalità comunicazionali e di schemi di riferimento comportamentali , e la cultura dell’individuo”.
(Questa definizione si trova nell’Enciclopedia Treccani)
(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Max Weber Max Weber 21.04.1864-14.06.1920+ Sociologist, socio-political advocate, Germany – around 1917 (Photo by Archiv Gerstenberg/ullstein bild via Getty Images)
Max Weber è stato un illustre sociologo e filosofo tedesco, le cui teorie sono la base di molte ricerche socio-organizzative contemporanee. Luigino Bruni propone alcune idee interessanti sui temi del titolo, per cui le utilizzerò.
“La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati leadership sono in realtà molto antiche.” (L. Bruni)
Temi, questi, presenti fino dalle opere dei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber,
Le dottrine economiche hanno più che altro utilizzato questi studi senza ritenerli molto strategici, ma le cose stanno cambiando. Sempre più nelle strutture economiche organizzate, a partire dalle imprese, specialmente quelle industriali, si discute di “capacità di conduzione e di motivazione delle persone”, espressione sintetizzabile con il termine leadership.
Si riscoprono anche autori come Vilfredo Pareto, che ha scritto molto sulle ideologie che “producono” i leader, salvo poi farli decadere (lui aveva presenti quelli della prima metà del XX secolo, esempi spesso deleteri). Lo sviluppo delle scienze sociologiche e del management hanno permesso di comprendere – sulle linee disegnate da Weber e Pareto – anche le varianti, che sono sempre degli sviluppi delle teorie dell’autorità e dell’eserciziodel potere, aspetti necessari (che-non-cessano) della convivenza umana presenti fin dall’antichità, ancora prima della stanzializzazione dei nomadi primevi provenienti dal Rift africano e diretti verso la Mezzaluna fertile.
Si fanno corsi e si pubblicano libri, spesso nella forma banalizzata dell’instantbook, molto promosso per gli utenti viaggiatori (spesso figure di manager aziendali) nelle grandi stazioni ferroviari e negli aeroporti. Titoli come “Diventare leader in 36 ore”, oppure “Il management in 24 ore” contengono sproloqui ingegnerizzati scopiazzati qua e là, o dai testi dei grandi sociologi sopra citati, oppure da maestri di psicologia sociale di scuola americana come quella di Paolo Alto. Anche le facoltà economiche si sono attrezzate per vendere corsi e seminari a costi elevatissimi, del tipo: due fine settimana per il capo o per il Ceo a 4000 euro, dove docenti universitari un po’ scarichi impressionano i capi azienda con brillanti dissertazioni, presenza di testimonial della leadership, come campioni sportivi o anche attori e cantanti, cioè persone che sanno “stare in scena” da protagonisti, non da deuteragonisti, perché essere-secondi non basta. Bisogna essere necessariamente primi.
Vilfredo Pareto
Ma senza i “secondi” una struttura organizzata non va da nessuna parte. Là dove One Man Manages (un uomo solo al comando, come Fausto Coppi) occorrono anche le seconde linee per mandare avanti il lavoro quotidiano, per gestire i gruppi di lavoro, spesso organizzati come insegnava san Benedetto con la sua Santa Regola (magari senza che costoro lo sappiano).
Qualcosa di diverso sta comparendo, però, anche nelle business school, nelle facoltà di ingegneria, di economia e di scienze umane: l’esigenza di recuperare, oltre alla frequentazione delle teorie psicologiche contemporanee, i pensieri classici sull’uomo, quelli dell’antropologia filosofia, della filosofia morale e perfino quelli teologici. E ciò accade anche nelle aziende. Gruppi di ingegneri e di controller finanziari ascoltano con interesse ciò che pensava dell’uomo Aristotele, o il sistema di vizi&virtù di sant’Agostino, di san Gregorio Magno e di san Benedetto, o ciò che serva per la scelta buona secondo Kant, declinando la libertà come un dover-essere per un dover-fare, motivando e gestendo altre persone.
C’è, però, un problema nell’impostazione di questi corsi, quando ancora non si rivolgano ai saperi classici: la divisione rigida tra leader e follower, tra capi e seguaci, o gregari. Mi spiego meglio: appena sopra ho rilevato l’importanza dei gruppi di preposti che stanno attorno al leader, mentre qui sto criticando il sistema leader/follower.
La ragione sta nel fatto che, in mancanza di una fondazione antropologica chiara, il rischio di trasmettere in questo modo e sistema messaggi demotivanti, è grande. Scrivere nella pubblicità di questi corsi semplicemente questo: “il corso si rivolge a manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader“. Per cui, il messaggio sotteso è che se non riesci a diventare leader sei un po’ un fallito.
L’antropologia filosofica insegna, invece, che ogni persona possiede ontologicamente una dignità la cui eguaglianza tra tutti è insuperabile e imprescrittibile, perché basata sui tre elementi fondativi di fisicità, psichismo e spiritualità, e di contro spiega come ognuno abbia una propria individuale personalità, che gli consente di essere anche variamente (si capirà dopo l’importanza di questo avverbio di modo nel mio pensiero) leader nella vita e nel lavoro. Di contro, genetica, ambiente ed educazione fanno la singola persona, la costituiscono, la persona che riuscirà ad essere sempre in qualche modo leader nella propria posizione, per creatività e impegno, anche se non sovraordinata ad altri.
Questa nuova visione è anche più adatta a comprendere i cambiamenti che il capitalismo ha generato dal proprio interno, con l’inserimento di giovani, almeno diplomati e sempre più spesso laureati, che non ci stanno a fare solo gli “obbedienti”, ma desiderano contare, essere partecipi, avere una qualità del lavoro più elevata. Si tratta di una cultura che potremmo definire “postatriarcale”, laddove nelle aziende vi sono ancora i “patriarchi”, che a questo punto devono accettare il cambiamento, se desiderano che le loro aziende proseguano oltre la loro carismatica e irripetibile esperienza. Anche il concetto (e virtù benedettina) di obbedienza può e deve cambiare l’attuale accezione contro-intuitiva, recuperando il suo etimo originario, che è il verbale latino ob-audire, cioè ascoltare, mentre e cosicché accanto all’ascolto vi può essere anche un accorgersi-di-qualcosa (dal latino ad corrigendum, vale a dire verso-un-correggersi), per cui l’ascolto permette l’accorgersi e il successivo correggersi.
Se l’esercizio del potere mediante l’autorità riconosciuta dalla tradizione e dalle leggi civilistiche è fuori questione (un padrone c’è sempre, ma è bene che sia “visibile”, non invisibile come nel caso dei “Fondi d’investimento”), affinché l’organizzazione sia più veloce ed efficiente, occorre che le persone si sentano sinceramente coinvolte, senza strappi e fughe avanti o a lato. Nel nuovo contesto anche l’autorità massima di un’azienda, il Ceo, il Direttore generale, il Presidente, l’Amministratore unico, il Titolare, a seconda di come l’azienda è organizzata, deve sapere che il compito suo maggiore più difficile, è la scelta dei collaboratori, e la loro valorizzazione. Gli aspetti gerarchici, che comunque rimangono importanti, saranno così inseriti in un contesto psicologico e morale di collaborazione continua e coinvolgente. Nel mondo delle teorie organizzative anglosassoni, sempre molto importanti, il verbo to involve è tra i più gettonati, anche più di to lead o to manage. Ma senza un’immersione nei citati saperi filosofici classici tutto ciò rischia di restare freddo, sterile e ostile, insopportabile per i caratteri che vogliono esprimere tutto il proprio potenziale aspirando a di più…
I nuovi stili di direzione e comando debbono pertanto tenere conto dei cambiamenti che vengo descrivendo, accettando che il carisma del fondatore/ amministratore/ titolare possa essere condiviso nel tempo anche da chi non appartiene a quella che Giorgio Bocca, ancora negli anni ’70, chiamava “razza padrona”, riferendosi agli Agnelli, ai Pirelli, ai Danieli e ai Cefis, che ora si declina e opera in dimensioni più ridotte e diffuse. Personalmente conosco e opero positivamente con diversi esempi di questo tipo di governance d’impresa, mantenendo la mia autonomia e il mio giudizio. Ed è per questo che vengo apprezzato, e anche se questi Capi azienda sanno di non avere sempre e comunque un consenso da parte mia, mi affidano la responsabilità di presiedere Organismi di vigilanza previsti per Legge.
Aggiungiamo che i carismi, come insegnava san Paolo, molto prima degli studiosi contemporanei, può essere nascosto, latente, e pertanto bisognoso di un “ambiente” consono a portarlo all’evidenza e all’esercizio di una funzione pubblica. Il capo carismatico, lo insegna anche la sociologia classica di un Auguste Comnte, è indispensabile nella fase di avvio e di primo sviluppo di una struttura, sia essa politica, economica o religiosa; nel momento in cui la struttura si auto-sostenta occorrono altre figure, ed è necessario creare le condizioni perché altri carismi emergano e si mettano a disposizione.
Riporto qui ancora, per discuterne, alcune tesi e giudizi sulla leadership moderna del filosofo Luigino Bruni: “(omissis) Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché quella di oggi è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima volta che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.”
Do ragione a Bruni se penso alle leadership della politica italiana attuale, nella quale leader mediocri come Conte e Salvini si circondano di cantori follower, capaci solo di recitare come in una filodrammatica di paese la lezioncina imposta dall’alto (se è qualcosa di “alto” il loro leader). Potrei fare dei nomi, ma la pena per loro mi trattiene. Do, invece, torto, a Bruni, se penso ai fenomeni che stanno avvenendo nelle aziende, che forse lo studioso non conosce molto direttamente: nei luoghi dell’economia funziona in modo diverso che nella politica, ed è possibile, colà, vedere emergere persone che possiedono veri meriti.
E’ quasi impossibile che un carismatico padrone affidi a degli incapaci poteri e responsabilità, pena un rischio mortale per la propria azienda. Con ciò non voglio dire che tutti i i dirigenti e preposti siano figure di specchiata virtù e buon potenziale, ma che se non valgono quasi sempre (dico “quasi”), vengono smascherati e spostati dal ruolo. O espulsi dal sistema.
Ciò che si può dire è che le leadership attuali sono molto meno influenzate dal modello del leader carismatico-profetico, che riusciva a incantare le masse, perché era un medium tra esse o addirittura peggiore di esse. Si pensi ai carismi assassini dei responsabili delle tragedie del ‘900, che hanno ancora imitatori pericolosissimi, ma non della stessa micidiale caratura (speriamo).
Ancora, proprio per ragioni dialogiche, riporto un passo di Luigino Bruni: “I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.
La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.
(omissis) È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).
Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.” (Fine testo di Bruni)
Sono in parte d’accordo con Bruni quando propone il contrasto tra i termini vincenti e perdenti, specie se nella comune vulgata i perdenti sono trattati con disprezzo, e mette in questione il termine successo, quando questo termine smette del tutto di essere il participio passato del verbo succedere e costituisce meramente l’unica linea guida di una vita… ché poi basta una malattia o un rovescio inaspettato per far crollare tutto l’impianto di superbiosa grandezza di una persona-di-successo.
Non sono d’accordo con lui quando critica in modo un po’ indifferenziato le “scuole di leadership” aziendali, perché anche tra queste bisogna distinguere, come ho cercato di fare supra.
Infatti, se proponendo degli studi seminariali sulla leadership in azienda, la si imposta partendo da una sana antropologia filosofica e da un’etica ben declinata, dove si sintetizzano diritti e doveri, rispetto delle persone e perseguimento del business, si fa un’operazione utile, opportuna, necessaria e, direi, perfino, obbligatoria, se si vogliono, da un lato evitare le storture paventate da Luigino Bruni, e dall’altro dare valore al contributo diverso e sempre più colto e professionale delle giovani generazioni che si affacciano al lavoro.
La differenza tra me e Bruni è questa: lui svolge delle valorose ricerche accademiche per un tempo superiore al mio; io faccio quasi altrettanto, ma ben immerso nella realtà effettuale delle aziende e del mondo economico.
Le mie sono Teoria e Prassi utilmente in relazione, che sono sempre disponibile a condividere, come peraltro sto facendo con la Facoltà teologica cui afferisco, e con gli altri soggetti formativi, accademici e aziendali, con i quali collaboro.
Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.
Babbei e babbee
Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.
Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.
Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.
Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.
Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.
Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.
Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.
Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?
Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.
Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.
Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.
Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.
Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.
Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.
Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.
In questo pezzo mi occuperò di un famoso intellettuale italiano che non è più a questo mondo, il celebratissimo Umberto Eco, che in una famosa intervista di Rai Storia sento pronunziare kàiros, invece di kairòs cioè, in greco antico, “tempo opportuno” o “tempo spirituale”, in contrapposizione a krònos, che è il tempo fisico, cronologico, appunto. Accentazioni e termini consueti a chi frequenta assiduamente la filosofia. Accenti sbagliati da parte del professor Eco.
Tutti possono sbagliare? Certo, ma è meno plausibile che un filosofo o un matematico o un fisico errino usando termini che fanno parte strutturale del loro sapere e dei loro specifici linguaggio e lessico o, come si usa dire, dello statuto epistemologico della scienza alla quale afferiscono e di cui si occupano. E’ per questo che mi ha un po’ “scandalizzato” sentire Eco sbagliare l’accento di kairòs.
Lui è stato il semiologo semiotico del secolo scorso per eccellenza accademica e scrittoria. E notoria. Ed è stato romanziere di successo. Però, nella stessa intervista citata, lo ho sentito anche…
semiotica e semiologia
…dire acquoreo invece di equoreo, che vuol dire delle acque, del mare… dal latino;
…dare dell’imbecille a una persona che gli chiede se abbia scritto “Il nome della rosa” con il computer, pur avendo lui iniziato a scrivere il romanzo nel 1976, quando non c’erano i pc a disposizione. Mi pare che non occorra offendere chi fa una domanda mal posta, basta rispondere “no, allora non avevamo a disposizione il computer“, vero?
…definire “cattedrale” la Basilica di san Pietro. San Pietro non è propriamente una “cattedrale”, perché la cattedrale di Roma, dove risiede ufficialmente il Vescovo di Roma, è costituita canonicamente in San Giovanni in Laterano, mentre la Basilica di San Pietro, in Vaticano, ha giurisdizione formale e teologica sul katà òlon, cioè sulla cattolicità e sul mondo. Ne fa testo la classica benedizione “Urbi et Orbi”, cioè alla Città e al Mondo, che il Papa impartisce dal Palazzo apostolico;
…affermare in una intervista degli anni ’80 a Rai Storia che “il Medioevo non esiste“, perché sarebbe una convenzione storicistica, facendo esempi assurdi, come il dire che tutti i tempi sono stati “medioevo” rispetto agli evi precedenti e successivi. Se si insegnasse la storia in questo modo alle scuole medie e superiori sarebbe un disastro;
…definire banali coloro che si identificano con i personaggi delle storie raccontate. E studiare un po’ di psicologia generale, signor professor Eco? Nessun essere umano è banale, e tutti sono pari in dignità, anche se pochissimi arrivano al Premio Nobel;
…definire “banale meccanica” la gestazione umana, mentre invece la “gestazione di un libro” sarebbe molto più creativa (sempre nella citata intervista).
Mi pare che Eco non sia né un immenso filosofo, né un immenso intellettuale, ma un buon scrittore di thriller, molto inferiore a uno Stephen King, che ha scritto almeno dieci romanzi del livello de Il nome della rosa.
Mi dispiace di non poter più parlare con quest’uomo.
Qualche parola sulla semiologia, che è uno studio del segno, mentre la semiotica studia l’importanza dei linguaggi verbali e non-verbali. Si tratta di un sapere che ha assunto – solo molto recentemente – uno statuto epistemologico nel senso accademico moderno.
La storia recente di questa scienza può essere fatta risalire agli studi di de Saussure (sémiologie – Semiotik), ovvero, in inglese semiotics. Oggi “Semiotica” è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell’ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente “semiologia”.
Ampliando lo sguardo, alcuni, come Ducrot e Todorov, sostengono che esista una “semiotica implicita” nella cultura intellettuale dell’antica Cina e dell’India, così come si attesta una semiotica implicita nella tradizione del pensiero greco, soprattutto nell’ambito del pensiero stoico. Già a quei tempi si riteneva che una specie di semiotica si potesse applicare anche al linguaggio non verbale.
Nel contesto della cultura antica e medievale, la teoria dei segni può essere anche definita come “teoria della rappresentanza”, come nomenclatura degli oggetti. Più tardi, in John Locke per esempio anche le “idee” come “segni delle cose”, e i “segni” propriamente detti come “segni delle idee”. fino alle teorie contemporanee degli studiosi di semiotica come Frege, Wittgenstein, Tarski e Carnap.
Per chi vuole studiare questa disciplina, può essere interessante un semiotico moderno, Charles Morris, che ha disegnato in appendice a Signs, Language and Behavior (1946) la storia della semiotica dall’antichità a oggi.
Circa la natura e la struttura di segni e immagini, oltre alla semiotica dobbiamo tenere in considerazione anche altre discipline come la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, etc., tenendo comunque in conto che una vera e propria semiotica – come disciplina organica, sistematica e specialistica – si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del secolo XIX, e che i primi riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. XVII e XVIII, con Francis Bacon, Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz.
In definitiva, la semiotica può dirsi una scienza che si trova nell’intersezione tra la logica filosofica e la linguistica strutturale, e richiede il contributo, come ormai molti saperi contemporanei, di più discipline che lavorano in concerto, non in concorrenza, ma sempre al fine condiviso di aumentare la conoscenza dell’uomo e delle “cose” che l’uomo definisce, a partire dagli animali, fin dai tempi del comandamento genesiaco (Genesi 2, 18-20).
Una specie di “seminario” del lunedì mattina, oramai da anni mi impegna piacevolmente con l’Amministratore delegato di una grande azienda, l’amico dottor G. (non è Giorgio Gaberschek!). Si parla certamente dell’Azienda stessa e delle consociate, ma anche di millanta altri temi, soprattutto di etica e di politica, siccome in quel posto di lavoro presiedo l’Organismo di vigilanza previsto da una legge dello Stato.
Osservando la fine di alcuni esimi personaggi, come il grande calciatore Pelé e Joseph Ratzinger, a fronte di personalità così rilevanti ci si è chiesti se l’ego di quelle persone sia stato importante per la loro affermazione personale. Abbiamo condiviso il sì, ma in un certo senso, perché non risulta che, né il grande campione brasiliano, né il teologo tedesco diventato papa fossero mai stati caratterizzati da notori comportamenti egocentrici o superbi, nonostante avessero raggiunto i massimi livelli nei loro rispettivi “campi”. Pelé è stato quasi l’opposto civile e morale di un Maradona, sempre esagerato e retorico-populista; Ratzinger è stato sempre mite e quasi dimesso, nei tratti del suo modo di essere e di porsi con gli altri. Di Messi non parlo, perché assai mediocre come tipo umano, mentre Cristiano da Madeira mi sarà utile per esemplificare un’ipertrofia dell’ego.
Si tratta del tema dell’ego, dunque, secondo Sigismondo Freud, che lo colloca in una triade che comprende il superego, ovvero la coscienza morale, e l‘id o es, vale a dire l’inconscio; dell’iosecondo René Descartes che ritiene di-essere-cosciente-di-essere-al-mondo e del mondo solamente-in-quanto-lo-pensa, e non in-quanto-esiste anche quando dorme o quando è privo di coscienza, quindi indipendentemente dalla sua (di Descartes) stessa esistenza; dell’io secondo Immanuel Kant, che caratterizza la conoscenza e la limita; dell’io secondo Friedrich Schelling etc., e dell’io secondo la filosofia classica di Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano, Evagrio Pontico, Gregorio Magno, Agostino di Ippona.
Al fine di non scrivere un saggio tremendo e faticoso trattando di ciascuno dei pensatori sopra citati, prendo solo Schelling, il più romantico e soggettivista filosofo dell’Idealismo tedesco ottocentesco, che a me piace molto. Agli altri dedicherò qualche cenno.
Schelling ragiona in questo modo, andando oltre il suo contemporaneo Fichte: l’Io pone il non-Io, ovvero il soggetto (lo spirito) pone l’oggetto (la natura), attraverso un processo, di remota ascendenza neoplatonica, tutto interno all’Io, dal momento che fuori di esso non vi è ancora nulla.
Tuttavia, precisa Schelling, se la natura nasce dallo spirito, significa che la natura ha la stessa essenza dello spirito, ovvero essa è lo spirito stesso che si manifesta in modo diverso.
Per Schelling la natura è spirituale, esattamente come l’io-umano, di cui è prodotto. sottolineando che la natura è un prodotto dell’Io (la cui prerogativa è la spiritualità). Egli afferma che la natura altro non è che spirito pietrificato. La natura, è come una semiretta, il cui punto di partenza è l’Io che pone il non-Io, da cui parte con slancio infinito. La filosofia di Schelling è una Filosofia dello Spirito e della Natura: come in Fichte, vi è l’Io (spirito) che pone il non-Io (natura), verso cui infinitamente tende, fino alle tecno-scienze (mio arbitrario aggiornamento di Schelling, abbiate pazienza, e soprattutto tu, Giorgio, che sei di Schelling uno dei maggiori studiosi italiani). Il professor Giacometti è il mio successore alla Presidenza di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza FIlosofica.
Con l’Idealismo tedesco siamo alla manifestazione massima dell’Io filosofico, dopo di che inizia un periodo di riflessione su questo “io”, fino alla constatazione che la sua centralità può generare pericoli non da poco.
La sua esaltazione porta poi, nei cent’anni successivi alle esagerazioni di tutte le forme di egocentrismo, dal culto del capo, nei fascismi e nello stalinismo, nel dannunzianesimo, nel futurismo e in tutte le teorie e le prassi vitalistiche che hanno posto al centro di tutte le cose del mondo e delle vite individuali l’io umano, etc..
Per quanto riguarda gli autori classici sopra citati si può dire che si riferiscono alle antropologie platoniche e aristoteliche, che prevedono l’apprezzamento dell’io individuale come soggetto agente moralmente responsabile delle azioni libere. Tale visione è però “irrorata” del personalismo evangelico, assente nella filosofia greca, così come sviluppato dagli stessi Padri, e soprattutto da sant’Agostino.
…e dunque l’egoismo, l’egotismo, l’egocentrismo, e perfino l’egolatria, che è una sorta di adorazione dell’io, dell’ego.
Prima di parlare di questo ego, è bene ricordare i vizi connessi a queste modalità di sua “debordanza”: la vanagloria, l’orgogliospirituale e la superbia, che in modi differenti generano le deformazioni dell’io.
La vanaglòria s. f. [dalla locuzione latina vana gloria «vanteria vuota»]. – Sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui si ambisce la lode per meriti inesistenti o inadeguati; nella teologia morale cattolica è definita come l’immoderato desiderio di manifestare la propria superiorità e di ottenere le lodi degli uomini: peccare di vanagloria.
L’orgoglio è la stima, l’amore disordinato di se stesso, che porta la persona a disprezzare gli altri e attribuire a se stesso quello che è di Dio.
Nell’AnticoTestamento, la prima manifestazione dell’orgoglio umano appare nel tentativo dell’uomo di essere come Dio, presente nella Genesi, nel racconto del peccato originale (cf. Genesi 3,1-13) (cf. Dizionario biblico universale. Pg. 572)
La superbia è la pretesa di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Essi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo.
E’ Caput vitiorum, inizio e fomite di tutti i vizi, poiché il superbo ritiene che, solamente a lui stesso, sia consentita ogni azione, indipendentemente dai riflessi che essa può avere sugli altri. Il superbo è anche presuntuoso e arrogante, e talvolta prepotente fino alla protervia e alla crudeltà. Non mancano una miriade di esempi nella storia umana.
Proviamo a chiederci se conosciamo qualcuno che mostri un ego debordante fino alla vanagloria, in qualsiasi settore della vita umana. Pensando al gioco del calcio, mi/ ci è venuto in mente, tra non pochi altri, Cristiano Ronaldo, che ora va a insegnare calcio in Arabia Saudita pagato cifre inaudite (per noi e la gente comune), ma da lui ritenute forse appena sufficienti per premiare il suo valore auto-percepito.
Il pensiero successivo venutoci è quello relativo al tempo che passa, che quel calciatore sembra non accettare… e subito dopo abbiamo pensato al
cimitèro (antico e poetico cimitèrio, anticamente ceme-tèr[i]o) sostantivo maschile [dal latino tardo coemeterium, greco κοιμητήριον (coimetèrion)«dormitorio, cimitero», derivato di κοιμάω (coimào)«mettere a giacere»]. – Luogo destinato alla […] sepoltura dei morti sia per inumazione sia per tumulazione (detto anche, quando indica i cimiteri dei cristiani, camposanto): i viali, le tombe, la cappella del cimitero; cimitero monumentale, con sepolture costituite in genere da cappelle e monumenti…
Mi pare che a questo punto sia utile un po’ di sano realismo aristotelico-tomista contro la vanagloria dell’io, che non crea il mondo, che esiste senza e nonostante l’io, come insegnano Martin Buber (ebreo austriaco) ed Emmanuel Lévinas (ebreo lituano di formazione francese), con le loro rispettive teorie dell’io e del tu, e del vòlto dell’Altro. L’io e il tu, e il volto dell’Altro sono state le immagini scelte dai due pensatori per sottolineare la fondamentale importanza della Relazione inter-soggettiva per la vita nell’umano consorzio in tutte le sue dimensioni.
Io esisto e sono certamente di-per-me, ma anche in-relazione, caro Cristiano da Madeira.
Altrimenti, se non realizzi questo, tu sarai solo il più ricco del cimitero dove un giorno (questo è sicuro) riposerai.
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Se vuoi, se ne senti il bisogno puoi scrivermi (eagle@qnetmail.it) o telefonarmi (339.7450745), anche per fissare un incontro"
PhD - Prof. Dott. Renato PILUTTI, Filosofo pratico (ex L. 4/2013, Associazione nazionale per la Consulenza filosofica Phronesis) e Teologo
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