Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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L’Italia è una grande Nazione. La prima del mondo, senza arroganza, per arte e bellezze paesaggistiche, tra le più importanti per storia, letteratura, musica. Tra le prime sei o sette per potenza economica, la seconda d’Europa per manifattura industriale, la prima per la meccanica. E poi ci sono diversi “moscerini” che i miei occhi colgono, in Italia, soprattutto promossi dal mezzo televisivo. Sono gli “inutili”, i “sopravvalutati”, gli “arroganti”, i “dannosi”, gli “irritanti”, gli “inadeguati”, “radical chic” e i “pericolosi” (anche al femminile)

Non farò nomi da allocare in ciascuna delle categorie “antropologiche” del titolo. Mi limiterò a descriverli, e ad attribuirli a ciascuna delle categorie stesse, lasciando al lettore il compito (se vuole) di “indovinare” di chi si tratta.

Ubique praesentes viventesque

I panegirici televisivi e giornalistici per la dipartita dell’uomo che (si dice) ha (abbia?) inventato i talk show , o addirittura la televisione di intrattenimento italiana, mi nauseano. Ora è-tutto-un-dire “che bravo“, “che innovatore“, “il linguaggio televisivo con lui è cambiato“, e via lodando sperticatamente. Non una critica, mai un dubbio. Pare si faccia sempre così con i morti. E’ un vizio italiano, e forse non solo italiano. Temporis personarumque actorum laudatores.

Spero che non sarà altrettanto per me, quando verrà il mio tempo, con tutti i difetti che ho! Se faccio mente locale sul soggetto in questione, vedo un ometto ingrassato, in ultimo spesso farfugliante, ben capace di rivolgere domande assai banali – a mio giudizio – al suo interlocutore; di lui ricordo anche insinuazioni e motteggi vari, e un sorriso talora subdolo o corrivo. Lo tratto in questa sede come penso si meriti, anche per l’indecoroso processo di squallida beatificazione, e blasfema (ipallage retorica) che si vede in tv. Dimenticavo: un uomo sempre uso ad un linguaggio romanesco capace di semplificar banalizzando perfino il dramma. E a toni scanzonati e acri. Il “tutto” oggi così ammirato dal sentir comune pubblicizzato da media. Appunto, dai media: sembra che l’opinion (non è inglese, ma un troncamento) prevalente sia quella descritta, perché la mia opinione, ad esempio, così come qui rappresentata, non ha spazio. Anzi sì, perché anche il mio blog è un medium! (pronunzia medium), peraltro visto da qualche migliaio di persone al mese. Un sopravvalutato… il “nostro”, a mio avviso.

Un altro, che si vanta di essere allievo del sopra citato. Guitto siculo che pensa di far ridere con il nulla, perché sale e teatri colmi di persone lo attestano. E’ l’audience, la prepotente audience. Onnipresente, capace di battute che paiono esilaranti, ma a me fanno solo pena. Sarà perché io ho uno scarsissimo sense of humor, essendo difficile smuovere in me l’ilarità con motti di spirito, o perché le sue battute sono trite, ritrite e inefficaci? Che sia io insensibile o lui banalotto?Ubi ilaritatis praesentia vere stat? Aggiungo: costui invecchia tagliandosi i capelli e mollando i baffi. Emerso dai villaggi turistici dove potrebbe utilmente tornare. Colà non mi incontrerebbe mai. Inutile… sempre a mio parere.

La moglie del primo citato, dalla voce infelice, raduna palestrati giovinotti e inclite giovinette per false riflessioni televisive sull’esistenza e sui valori, ma da intendere come virtù, accezione che lì non è chiara, anche se certamente non come li intendevano i “bravi ragazzi” della banda della Magliana. Perché anche i criminali hanno i loro “valori”: li chiamano in questo modo. Ma non basta non assomigliare a quei criminali, perdio! Pedagogicamente, secondo me, pericolosa.

Eccone un’altra: intrattenitrice, comica, ex insegnante di lingua italiana. Non sono un bieco moralista che si scandolizza (“o” in luogo di “a” aulico) per una parolaccia. Però, est modus in rebus, e questa donna mi sembra ecceda un po’ nel dirle, le parolacce, in orari di visibilità infantile. Non capisco se il suo agire sia tale per vendere qualche cosa… Militante volgare. Inadeguata, parmi.

Furbetti e muςiςins (pron. – imprecisamente, perché non conosco i segni fonetici – muchichins, subdolo, in friulano della Bassa) un uomo di tv e uno che dell’essere contro-la-mafia ha fatto un mestiere ottimamente retribuito. Furbetti, sine ullo dubio, opinione mea.

C’è un Ministro della Repubblica che, a fronte di un’aggressione a giovani studenti davanti a un liceo fiorentino da parte di un gruppo di picchiatori neofascisti, e di una lettera di riflessione filosofica e pedagogica sul grave fatto rivolta agli studenti scritta dalla preside di quella scuola, si premura di bacchettare quest’ultima, mentre non spende una parola o un rigo per segnalare il fatto dell’aggressione, in sé gravissimo, che deve certamente provocare sdegno, indignazione e pensiero critico per il sostrato cultural-politico preoccupante dell’aggressione. Inadeguato, a mio avviso. Meritevole di sostituzione, sia lui o meno d’accordo.

Arrogante: un conduttore televisivo che, quando parla, gli si arriccia la faccia in un ghigno terrificante. Invecchiato male, molto male. Questi ha lavorato, sia per la Rai, sia per Mediaset, sempre ottimamente retribuito, come usa in quei mestieri quando fai audience, non importa se informi o dis-informi. L’arroganza di questo signore ha anche caratteristiche – per me evidenti – di immoralità.

Irritanti: sono, nel mio immaginario, almeno due (tra molti altri): il primo è un giornalista padre padrone del suo quotidiano. Questo signore, spesso autore assai ineducato e perfin violento nel linguaggio, è irritante ancor di più per i toni irridenti e falsamente tranquilli. Per valutarlo non si devono dimenticare, oltre a giudizi largamente condizionati da pre-giudizi (che sono giudizi incompleti e non correttamente documentati, nonostante la boria dei toni e le continue assicurazioni sulla validità delle fonti), anche la sua ondivaghezza sempre rafforzata da una assertività proterva che può ingannare il lettore meno attento. Facile intravederne il nome e cognome. Sta a sinistra, ma con cattiveria (mia convinzione dove l’avversativa “ma” potrebbe anche essere omessa). Il secondo idealtipo rappresentante della trista categoria, sempre giornalista è, ma non responsabile di una linea politico-mediatica. Le sue “colpe” sono di carattere meramente “tecnico”, nel senso che, essendo un “lettore di telegiornali”, si espone ogni giorno per almeno mezz’ora al giudizio di chi ascolta la sua pronunzia affannata e affannosa, un respirar sbagliato, e un continuo errare (nel senso di sbagliare, non di girovagare) nell’accentazione dei termini, del tipo “àmministratore” in luogo di “amministratòre”, oppure “vìcepresidente” invece di “vicepresidènte” e via elencando: almeno un fastidioso errore ogni tre o quattro parole. Noto questo fenomeno ed est mihi non sopportabile. Irritanti, ripeto, per me.

Fasulla mèntore del politically correct è una scrittrice, come suolsi dire, engagé. Dovrebbe bastare per considerarla militante (a volte il/ la “militante” assomiglia a un/ a militonto/ a) di una corrente di pensiero quantomeno dannosa, in buona compagnia di una ex funzionaria dell’Onu, assurta poi ad altri compiti istituzionali e ora parlamentare. Dannose, a mio tranquillo avviso.

Tra i noiosi annovero due “campioni”: uno è un politico “nato” tre o quattro anni fa, con la sfiga di un timbro vocale fastidioso e comportamenti da fuoriclasse dei voltagabbana, mentre l’altro fa un mestiere diverso, l’allenatore di calcio in serie A, da un paio d’anni di una squadra gloriosissima e a me non antipatica. Siccome del primo ho scritto e riscritto in questi anni talmente tanto da annoiarmi anche al solo ricordarlo, mi soffermo un momento sul secondo tipo, raccontandola così: “Stamane sono in viaggio in auto e ascolto Radio Sportiva, che lo intervista. Prima che inizi a parlare prevedo, conoscendo i tratti e il dizionario lessicale del suo modo di esprimersi che, entro le prime cinque parole che pronunzierà, dirà un fatidico aggettivo con copula, costituente il predicato nominale: “E’ normale“… e lui inizia addirittura proprio con il sintagma “E’ normale“, prima e seconda parola, e poi, dopo una decina di termini detti, lo ripete. Chiudo la radio.”

Tre milioni e mezzo di stipendio annuo (nessuna gelosia da parte mia, in rima), come, più o meno, l’Amministratore delegato di Stellantis (Fiat). Proprio noiosii due, a mio avviso (ed è dir poco).

Come posso, infine, dimenticare almeno due conduttrici televisive, una gratificata in modo decisivo dalla sua filogenesi, l’altra “campione” di spocchiosa arroganza, nei tratti e nella postura. Se sopporto (senza supportare) la prima, non digerisco in alcun modo la seconda. E, proprio da ultimo, una o due campionesse delle vacanze a Capalbio, “quella che nella cuccia del cane si trovarono ventimila euro”, e quella che dirige giornali e scrive, ma soprattutto l’importante è apparire. Si fa sempre più difficile indovinarne i profili. O no?

Dispiace constatare che diversi di questi idealtipi weberiani stiano da una parte politica che mi sta a cuore. Fors’etiam è per queste ragioni che, da tempo oramai, questa parte politica… perde.

Il rischio che pavento, infine, per me e per tutt’Italia, è che a questo elenco io debba ben presto aggiungere un’altra persona appena ieri assurta a un ruolo politico rilevante, che ha appena annunziato con solenne puntiglio “Saremo un bel problema per il governo Meloni“. Bene, faccia opposizione, ma non contro l’Italia.

Così come da mio intendimento osservato in questo scritto, ne taccio il nome, Patriae caritate.

Dalla Liquentia (la Livenza) al Soça (l’Isonzo), passando per il Cellina-Meduna, il Noncello, il Sile e il Fiume, il Tagliamento e lo Stella, il Torre e il Natisone, i verdi fiumi del Friuli, fanno da “basso continuo” agli idiomi del Friuli che, dall’Italiano nazionale, accolgono nel novero anche parlate Slave e Germaniche, mentre il Friulano, da una base neo-latina si avvale di prestiti preziosi che vengono dal Nord germanico e dall’Est slavo, in un dia-logo straordinario fra diversi

Fiumi alpini e fiumi di risorgiva, verde smeraldo e verdolino trasparente tra i sassi, verde cupo e quasi olivastro… d’infinite sfumature, le acque del Friuli brillano. Da Ovest a Est, dal tramonto all’alba, da Occidente a Oriente: la Livenza (sicut narrat amicus Fulvius Portusnaonensis) nasce dalle Prealpi pordenonesi, a Polcenigo e dintorni, in località Santissima, e da una profondissima polla che viene dagli abissi del monte attraverso un sifone senza fine, chiamata Gorgazzo, e da lì serpeggia per l’Alta pianura con meandri dolcissimi, attraversando la femminea Sacile onusta di palazzi veneziani specchiantisi nel fiume, prima di sconfinare in Veneto, fino alla foce tra Caorle e Jesolo. Liquentia itaque transit per campagne di coltivi e di messi, e di vigneti ricchi dell’aroma cui dedicano vite e risorse da antichi vinificatori i loro discendenti.

Il Tagliamento è il magno fiume alpino. Dal Passo della Mauria a Lignano scorre per centosettanta chilometri portando a valle l’infinito di sassi e pietre da milioni di anni. Integro, selvaggio, desertico negli alvei smisurati, che si slargano fino alla massima larghezza dei fiumi d’Italia, assieme al Piave, al Ticino, al Sesia e al Po, il Tiliaventum scorre in alvei sempre diversi, a volte turbinoso e tremendo, come quando con acque limacciose sconfina oltre gli antichi argini, iniziando furenti scorribande fra le golene, dove l’uomo qualche volta osa costruire ricoveri, che il fiume sconquassa, perché l’acqua torna sempre dove è già stata, mentre l’uomo di questo a volte non ha memoria, e a volte scorre quieto e mormorante tra boscaglie di ripa ospitante animali di ogni genere e specie.

il fiume Stella

Lo Stella sgorga sulla linea delle risorgive, ma le sue acque sono – più o meno – le stesse, montane, del Tagliamento, che in parte si inabissano nella morena delle alte Terre di Mezzo del Friuli, e ricompaiono con il nome di Corno. Lo Stella: fiume di risorgiva, che vien fuori dalla terra in un rigagnolo a Flambro, sulla Stradalta, ma dopo una decina di chilometri già si può navigare con barche dal fondo piatto. Lo Stella è un poema, capace di rime incrociate con i suoi affluenti, come il Corno che scende dalla morena di San Daniele e Fagagna, e più a Sud tra i boschi del paese di Rivinius, centurione augusteo, compensato dal princeps primo imperator, con campagne rigogliose di viridescente verzura, prende il nome di Taglio, diventando il maggiore dei tributari. Si può contemplare lo Stella già nel borgo romito di Sterpo, dove scorre spingendo le ruote infaticabili di un antico molino, e a Flambruzzo, ove rispecchia il castello, in attesa di ricevere il contributo d’acque del Taglio, del Torsa e del Miliana, fino a conferire dovizia imperiosa d’acque profonde nella salmastra laguna che si adagia tra il borgo pescatore di Marano e la immensa Lignano… che è come circondata dai due fiumi, il Tagliamento a Ovest e lo Stella a Est.

L’Isonzo è nativo di là delle montagne Giulie, come sorgente. Attorno ai suoi primi zampilli si ergono le più grandi montagne del Nordest, il Triglav, lo Jalovec, la Sklratiça, per poi scendere verso il confine di Gorizia. Il colore delle sue acque è smeraldino, riflettendo alti cieli e floride boscaglie, che lo costeggiano.

Segna più o meno il confine tra la Slavitudine infinita la Furlanja taliana. Assieme con il Torre, il cui alveo è spesso desertico, e il Natisone, che in esso confluiscono più a valle.

A Oriente si incontrano, appunto, il Natisone e il Torre, mentre a Occidente scorrono il Meduna e il Cellina, imitatori alpini del Tagliamento. Il Noncello, mi suggerisce l’amico Romeo, raccoglie acque inabissate del Cellina, Nau Cellius, ad echeggiare la città perduta di Caelina, dal nome antico. Il fiume che bagna Cividale viene dalle montagne slovene tra gole profonde e si incastra nelle forre selvagge.

Fiumi continui come il Natisone e altri a regime torrentizio come il sistema Cellina-Meduna e il Torre, portano acque a Sud, verso l’Adriatico e quindi al Mare nostrum.

Un solo fiume, lo Slizza, che scorre a Nord Est nel Tarvisiano, si diparte dalla Sella di Camporosso e procede verso la Drava e dunque il Danubio.

Anche questi aspetti attestano come il Friuli sia la Terra del Confine per eccellenza della nostra Italia. Il confine interno di un’Europa che viene definendosi ancora, nella Storia grande e in quella quotidiana della politica e dei conflitti.

I fiumi sono arterie vitali che irrorano di vita le terre del confine e assomigliano alle lingue parlate, che “stanno dentro” la lunghissima istoria degli idiomi locali, filiazioni dirette delle antiche radici linguistiche dell’Europa intera: l’Italiano, lo Slavo delle Valli del Natisone, del Torre e della Val Resia, il Tedesco medievale di Sauris – Zahre e di Sappada – Pladen, il Friulano che – su una base neolatina – vive di prestiti formidabili dai contigui Slavo e Tedesco. Mentre a Grado canta Biagio Marin in un Veneto, antico idioma del mare, come a Marano, sull’altra laguna…

Una ricchezza ineguagliabile, quella dei fiumi e quella delle lingue, che ancora di più spicca in questi momenti drammatici della storia dell’Europa, quasi ispirando l’unico modo della convivenza tra diversi, l’eterno Dia-Logo, cioè la parola-che-attraversa spazi fisici e mentali e confini di tutti i generi, nell’unità sostanziale dell’essere umani.

I “partigiani della pace”, brutta e scadente categoria antropologica

Fu Stalin il loro primo mèntore, trovando seguaci in tutto il mondo occidentale, tra cattolici e laici, protestanti e a-tei. Furbo, volpino, Giuseppe Stalin, ovvero Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), il Georgiano. Come Lavrentj Berija.

Stalin, il partigiano per la pace (figuriamoci!)

I nuovi furbi-ingenui- falsi pacifisti sono i Moni Ovadia, che scrive al presentatore Amadeus, chiedendogli di impedire la trasmissione di un video di Zelenski durante il prossimo festival di Sanremo, in compagnia di Salvini, Gasparri e qualche altro, trasversalmente ai partiti, l’oramai obsoleto prof (e de che?) Orsini, le Littizzetto, i Santoro, i Travaglio, i Conte, del giornalismo e dello spettacolo, e della politica come furbo avanspettacolo (senza offesa per il geniale modus theatralis popularis). Faccio notare che a Sanremo spesso la vita “vera” ha fatto una giusta intrusione tra lustrini e paillettes! Tutti costoro sono, obiettivamente, seguaci di Stalin, anche se non lo vogliono.

l ritratto più conciso e impietoso del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”.

La colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, sotto sotto (neppur tanto), del capitalismo come negazione della libertà nella giustizia, che sono le vere premesse per una pace onesta. 

Perché costoro non vanno ad abitare nella Russia putiniana se tanto gli piace?

Li definisco “orrendi” perché in loro si sintetizza tutto ciò che di falso e di fuorviante appartiene all’attuale trista stagione della disinformazione, comunque generata, o da ignorantia vulgaris, o da insipientia intellecti, oppure da deiectio animae. Brutti.

Sono come una deiezione logica del pensiero razionale, come ciò che esita dall’alimento animale e contribuisce alla fertilizzazione del campo da arare e seminare, ma velenoso. Sono brutti perché malvagi e impuri di cuore.

Come si fa a dire che il Presidente dell’Ucraina è solo un guitto che ha trovato la sua occasione della vita?

Si vergognino! Nel mio piccolo farò, finché avrò la forza per farlo, di tutto per smascherarli.

Arrestato MMD! E adesso?

MMD è sotto chiave. E adesso? Chi gli ha consentito di stare trent’anni in latitanza, visto che, se si vuole vivere un po’, si deve essere visibili, in qualche modo, almeno per qualcuno, a meno che non si trascorra il tempo in una grotta in mezzo ai boschi o in un luogo remotissimo di caccia pesca e raccolta, come i primi sapiens?

Non mi è piaciuta Meloni che è schizzata a Palermo come una furia per congratularsi con il comandante dell’Arma. Avrebbe potuto farlo il giorno dopo con il Presidente Mattarella alla riunione del Supremo Consiglio per la sicurezza. Mal consigliata o ansia da prestazione da insicurezza? Lei ripete sempre che ha paura di deludere chi si è fidato di lei. Cara Presidente, nessuno le garantirà mai di non deludere qualcuno: operando si sbaglia, è una regola aurea, conosciuta, forse, anche dai citati sapiens primitivi.

Le domande dei giornalisti, cronisti e da studio, come al solito, in generale, fanno pena. Il colonnello comandante dei ROS, alla domanda inopportuna (e stupida) su quanti militari fossero impegnati nell’operazione, ha risposto con garbo e precisione, evitando con eleganza di dare numeri. Ma come si fa, benedetto Iddio, a fare una domanda del genere? Ecché, forse vi può essere una risposta? Me lo chiedo e mi confermo nell’idea e nel giudizio circa la povertà culturale e professionale di questa categoria, aumentata negli ultimi decenni. Altra domanda inopportuna quella fatta all’oncologo che ha in cura quell’uomo nel carcere de L’Aquila: “Si dice (chi lo dice? ndr) che è curato in un modo privilegiato rispetto ad altri detenuti con patologie…”. Risposta: “No, si applica il protocollo per questo tipo di malattie“.

Come si fa a dire, a scrivere, o anche solo a pensare, che la mafia Cosa Nostra sia finita con questo arresto? sarebbe quasi come dire che finisce il genere umano. La mafia, così come la n’drangheta, la camorra e ogni altra organizzazione criminale è una delle manifestazioni del male nell’uomo. perché il Male è nell’Uomo. Insito, incistato, connaturale. Materialisti come Peter Berger, e altri, potrebbero dire che il male fa parte della struttura biologica elettrochimica del cervello umano, sulle orme estreme di Spinoza. Se ciò fosse del tutto vero verrebbe annullata la plausibilità del Diritto penale fin dai tempi del Codice di Hammurabi e del Decalogo biblico di Esodo e Deuteronomio.

E dunque è impossibile sconfiggerla? Finirla? Certamente, con le sole forze di polizia e della magistratura, . Ne sono convinto. Non basta scoprire e reprimere i reati e i loro autori, perché i reati sono peccati morali che nascono nel cuore dell’uomo. Nella mente, nell’intelletto agente, direbbe Tommaso d’Aquino. Il diritto classico prevede, in un brocardo o latinismo giuridico il principio di innocenza (o di colpevolezza) oltre ogni ragionevole dubbio, con la dizione in dubio pro reo: nel dubbio, piuttosto di condannare un innocente, è preferibile non contenere in carcere un colpevole.

MMD, con ironia, pare abbia detto qualche ora dopo l’arresto: “Fino a stamattina ero un incensurato”, poiché, a differenza dei due stranominati (e stramaledetti) predecessori Riina e Provenzano, non era mai stato ristretto nelle patrie galere, pur avendo già subito l’irrogazione di numerose condanne all’ergastolo (ostativo per definizione e da art. 41 bis). L’uomo, che si è vantato di tanti omicidi a da riempire di morti un cimitero, un serial killer razionale e perfettamente in sé, è un uomo comune. Intelligente, forse (anzi senza “forse”) anche garbato, gentile con i suoi carcerieri, capace di stare al mondo, amante delle cose di valore, che si è potuto permettere con i suoi crimini. Questo pare essere MMD.

La mafia, come altre strutture criminali analoghe, vive dentro un dato contesto sociale e culturale. La mafia vive e prospera per scelte di persone concrete, di giri solidali, di famiglie di esseri umani. Si tratta di persone che ritengono di essere speciali dentro un ambiente dove alcuni possono permettersi di esserlo, a differenza della maggioranza degli altri esseri umani, che “non capiscono”, oppure “non meritano”, oppure… niente: l’importante è che non si oppongano, che ubbidiscano, che stiano da parte. Altrimenti… sono morti. Perché il mafioso si sente speciale, diverso, addirittura virtuoso di una sorta di virilità particolare.

Anche in questo caso funziona un meccanismo psicologico e spirituale siffatto: superbia, presunzione, vanagloria, prepotenza, protervia, crudeltà. Costoro non hanno alba di morale comune, o meglio hanno una morale fondata sulla convinzione che vi siano persone con i loro diritti e quasi non-persone, inferiori, che devono limitarsi a no-opporsi. Queste seconde possono essere eliminate senza grandi preoccupazioni, come ostacoli sulla strada dei veri uomini. Omuncoli, ominiccoli, omarelli. Personalmente conosco non poche persone che, se messe-in-situazione, si comporterebbero come i sodali dei mafiosi, come l’autista di MMD, nel senso che di fronte a una leadership carismatica sono per sempre proni. L’uomo è fatto anche così.

Per i mafiosi ciò che è vizio diventa virtù e ciò che è virtuoso è indegno della loro grandezza. Si ricordino gli occhi protervi di Riina durante il processo: le parole negavano ogni responsabilità, ma il suo sguardo uccideva. Il male è nell’uomo. Nell’uomo comune di quella cultura e, purtroppo, anche di altre.

Non conoscono NIetzsche, ma se lo conoscessero ne volgarizzerebbero il concetto di volontà di potenza, e di Schopenhauer l’esigenza di esaltare la volontà erga omnes.

Oggi magistrati, media ed esperti parlano di borghesia mafiosa, opportunamente, sulla linea di una tradizione assai lunga, storica. La mafia e la camorra sono nate nei secoli passati, e sono cambiate nel tempo, ma il sostrato culturale e sociale è rimasto quasi sempre quello che era. E anche il sostrato valoriale (si fa per dire), pure nelle modificazioni sociologiche e territoriali registrate.

Su quest’ultimo aspetto certamente negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, in positivo, soprattutto tra i giovani, mentre nelle generazioni più attempate resta ancora un velo di omertosi silenzi. Basti osservare come rispondono i castelvetranesi più in età, dopo la cattura di MMD.

La scuola deve inserire momenti, modi e moduli formativi, prima ancora che a una cittadinanza sensibile ai valori etici umanistici à la don Ciotti, che non sono in grado di smuovere la pavida rassegnazione dei più (finora, almeno), di carattere filosofico, che diano gli strumenti intellettuali e conoscitivi agli allievi/e per approfondire il tema dell’uomo, della convivenza, della giustizia sociale, dell’equità nella distribuzione del lavoro e delle risorse, dell’equilibrio tra diritti e doveri (sono nauseato nell’ascoltare, dal Meridione, sempre i soliti lai quando accadono disgrazie, un “siamo stati lasciati soli” oramai per me inascoltabile, e datevi una mossa, perdio! come i Friulani dopo le alluvioni e i terremoti!).

Nel contesto temporale di questo arresto esplodono le polemiche sulle intercettazioni telefoniche, su cui la voce e le parole equilibrate del Ministro Nordio vengono travisate e mal riportate.

La lotta alla criminalità organizzata e alle mafie non si fa solo con le polizie e la magistratura, ma con la cultura che pazientemente va fatta crescere con l’impegno dello Stato e di insegnanti motivati e pagati il giusto.

Piccoli MMD non nasceranno e non cresceranno più solo se si opererà di concerto con la cultura, l’educazione civica, e certamente anche con la repressione e le sanzioni, unite a una corretta informazione sociale e mediatica.

Della polemica suscitata da mons. Georg Ganswein sull’uso della lingua latina nelle liturgie, e sul suo ruolo perduto di Prefetto della Casa pontificia dopo la rinunzia di Benedetto XVI e l’elezione al Ministero petrino di Papa Francesco, o del diritto ad attuare lo “spoil system” da parte di chi governa, cioè di cambiare i più stretti collaboratori quando ci si assume un “ruolo direttivo centrale”, e le relative e connesse responsabilità verso la struttura interna e verso tutto il mondo

Sinceramente non mi aspettavo che questo intelligente prelato, mons. Georg Ganswein, neanche terminate le esequie di papa Benedetto XVI, abbia dato fuoco alle polveri di una polemica inutile e dannosa, che riguarda, da un lato la Santa messa in lingua latina, dall’altro il suo ruolo di Prefetto della Casa pontificia, venuto meno -a suo tempo -per volere del nuovo Papa.

E’ evidente che la “cosa” non è nata giovedì 5 Gennaio 2023, ma era latente da tempo e – simbolicamente – molto più profonda di quanto non appaia dalle narrazioni mediatiche, che raramente sono sorrette da un’informazione e da una conoscenza, non dico profonda, ma almeno sufficiente delle complicate questioni inerenti la Teologia cattolica, storica e attuale, la struttura e il funzionamento della Chiesa cattolica, e le tematiche concernenti le Liturgie, vale a dire i Riti e le modalità espressive del Cristianesimo cattolico, nella sua dimensione storica, organizzativa e “gestionale”.

il Cardinale guineano Robert Sarah

In questo pezzo non parlerò delle differenze teologiche tra i due papi, perché ciò richiederebbe un tempo e uno spazio (ed energie) che oggi non ho a disposizione, in ragione della loro complessità, ma prima di parlare dello spoil system, spendo alcune parole sui due temi sollevati da don Georg, quello liturgico e quello organizzativo.

Circa la Santa messa in latino, fu Paolo VI, a seguito delle decisioni assunte con il Concilio Ecumenico Vaticano II, ad ampliare le possibilità linguistiche nella celebrazione di questo Rito fondamentale e teologicamente rilevantissimo del Cristianesimo, soprattutto Cattolico e Ortodosso, perché nel mondo delle Riforme protestanti, salvo che nell’Anglicanesimo, rimasto molto simile al Cattolicesimo, non si può parlare propriamente di Messa, ma di Rito memoriale della cena del Signore, con l’avvio dell’utilizzo delle lingue nazionali e locali, senza proibire od escludere in via assoluta la lingua latina.

La decisione di papa Montini fu una scelta di carattere certamente teologico, con il riconoscimento del valore umano e culturale, ma soprattutto religioso e cristiano dei singoli idiomi umani inseriti nella storia dei popoli e caratterizzanti le varie culture, ma forse ancora di più pastorale, per avvicinare meglio e maggiormente le popolazioni, specialmente le più povere e disagiate alla Parola del Vangelo di Gesù, che è Gesù Cristo stesso.

Ricordo qui anche che la figura di Paolo VI, papa coltissimo e rispettoso della storia e della cultura umana (fu il primo papa a dialogare sistematicamente con gli artisti, seguito in questo da papa Benedetto XVI, ed istituendo la sezione contemporanea nei Musei vaticani, che invito il mio gentile lettore a visitare), era assolutamente aliena da ogni pensiero che escludesse la storicità, il valore liturgico, l’intensità semantica e la bellezza, a mio avviso, incomparabile della lingua latina dagli ambiti della Chiesa cattolica.

Bene, dalla metà degli anni ’60, le liturgie cattoliche si sono potute svolgere nelle singole lingue nazionali e locali. Che cosa fece su questo tema Benedetto XVI? Riprese a considerare la possibilità di un utilizzo liturgico del latino, senza nessun ritorno al passato, magari con la proibizione dell’utilizzo delle lingue nazionali. Papa Benedetto si limitò a ricordare che il latino aveva ancora piena cittadinanza nella Chiesa, e che quindi si sarebbe ancora potuto usare. E Francesco non smentì mai questa possibilità.

Non dimentichiamo che papa Benedetto era un Europeo a tutto tondo, con tutto ciò che tale appartenenza comporta, mentre invece Francesco è un Sudamericano, se pure di origine italiana, con una sensibilità culturale, quindi, molto diversa da quella del suo predecessore nel papato. Altro aspetto: Benedetto era un presbitero, per scelta di studi e per inclinazione dottrinale, “agostiniano”, con tutto l’enorme bagaglio teologico-filosofico che ciò comporta, mentre invece Francesco è totalmente un “gesuita”, con tutto l’enorme peso della politicità della lezione di sant’Ignazio de Loyola. Benedetto ha primariamente a cuore la Fede e la spiritualità, Francesco ha prima di tutto a cuore la Carità universale, che sono due termini teologici assolutamente non contrastanti, ma relati e reciprocamente necessari.

Si pensi che il termine Caritas è presente in tutte e due le principali Lettere encicliche di Benedetto XVI, nella prima, più teologica, Deus Caritas est, vale a dire “Dio è amore”, dall’espressione forse più famosa del Vangelo secondo Giovanni, e nella seconda, Caritas in Veritate, vale a dire “L’Amore nella Verità”, che si incentra sull’amore di Dio per l’uomo e sul collegamento necessario che tale amore esige, cioè che esista tra tutti gli uomini, come condizione per rendere Vero anche l’amore degli uomini per Dio stesso.

E vengo al tema organizzativo. Nel momento in cui Benedetto rinunziò al Ministero petrino e il Conclave elesse Jorge Mario Bergoglio papa, questi, chiamatosi “Francesco” per ragioni oramai molto note e comprese dai più, anche tra i non-credenti, trovò mons. Ganswein nella posizione di Prefetto della Casa pontificia, cioè supervisore del governo di tutto ciò che circonda il Papa dal punto di vista della vita pratica. Non dimentichiamo che Francesco scelse di non alloggiare negli appartamenti vaticani, che ospitano i papi da secoli, ma preferì l’alloggio più modesto nel monastero di Santa Marta. Benedetto e Francesco, da allora, vissero in due “case di preghiera” interne al Vaticano. Nel frattempo, don Georg continuava ad adempiere al ruolo di segretario particolare del Papa emerito.

E’ a questo punto che si verifica la separazione, perché Francesco non ha più ritenuto che il sacerdote tedesco dovesse mantenere anche il ruolo di Prefetto della Casa pontificia e ha scelto di congedarlo da quel ruolo.

Ora, si può ben capire che don Georg non prese benissimo la decisione papale, ma ovviamente obbedì, in silenzio, silenzio che ha ritenuto di rompere (a mio avviso inopportunamente per modalità e tempistiche) ora che Benedetto se ne è andato, esprimendo pubblicamente per iscritto sentimenti che tratteneva da tempo.

Due parole sullo spoil system, cioè sulla possibilità/ opportunità o perfino utilità/ necessità di cambiare i propri collaboratori più prossimi.

Posto che tutti, preti e laici, siamo esseri umani con i nostri pregi e difetti, non è assolutamente strano che Francesco abbia agito come ha agito con mons. Ganswein. Forse tale decisione sarà stata brusca e inaspettata, ma che fosse perfettamente legittima è fuori questione.

Lo spiego: in ogni struttura organizzativa, che richiede politiche gestionali, perché ivi sono coinvolte più persone operative, colui che ha le massime responsabilità, in quanto si trova obiettivamente nella posizione più elevata e difficile, della quale deve rispondere di fronte alla struttura e al mondo, ha bisogno di poter contare a occhi chiusi su chi gli sta più vicino, di avere una fiducia svincolata da ogni altro potere o autorità o carisma, che comunque, soprattutto per quanto attiene autorevolezza e carisma, restavano intatte nel Papa emerito, soprattutto nella percezione di don Georg.

Senz’altro Papa Francesco si è trovato in una situazione nella quale don Georg era e rimaneva l’uomo di fiducia di Joseph Ratzinger, il suo “servitore” (nel senso evangelico del termine) più fedele, che lo conosceva meglio di tutti. E ha deciso di cambiare.

Per esperienza in molti e complessi ambiti economici e aziendali e per ferma convinzione, nata nel tempo dalla mia constatazione che ogni tipo di potere alla lunga logora e fa peggiorare le persone, penso che tutti coloro che si trovano ai vertici di qualsiasi struttura, abbiamo il diritto di muoversi in questo modo, e che, anzi, ciò convenga anche a chi usufruisce del servizio, e nel caso, di ciò-che-è la struttura centrale della Chiesa cattolica, l’ambito delle funzioni del Vescovo di Roma, Primate d’Italia e Pastore della Chiesa universale.

La Profezia. “Ingravescente aetate…”, così nel febbraio 2013 Papa Benedetto XVI (“al secolo” ProfessorJoseph Ratzinger), rinunziava al “Ministero petrino” come “lavoratore nella vigna del Signore”. Ora è oltre la porta oscura della morte, nella Visione beatifica. Con rispetto, ammirazione e riconoscenza scrivo di lui

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino“. (Papa Benedetto XVI, con un breve discorso in latino, annunciò in questo modo la rinunzia al Ministero papale il 28 febbraio 2013.)

Parto da questa dichiarazione per parlare un po’ di Joseph Ratzinger, studioso e docente di Teologia tra i più importanti della contemporaneità, presbitero e vescovo, e infine pastore per otto anni, dal 2005 al 2013, della Chiesa universale: uso quest’ultimo aggettivo, perché dice perfettamente il senso e il significato etimologico dell’aggettivo “cattolica”.

Serve innanzitutto un po’ di storia ecclesiastica: prima di lui solo questi altri papi si sono “dimessi” (qui utilizzo un termine molto impreciso), o sono stati – più spesso – “licenziati”, anzi eliminati dal potere politico, a volte in situazione ambigue, se non estremamente negative:

  • papa Ponziano si dimise perché condannato ad metalla, cioè ai lavori forzati, nelle miniere in Sardegna da Massimino il Trace nel III secolo d. C.;
  • papa Silverio fu spogliato del suo abito episcopale nel 537 e condannato all’esilio nell’isola di Ponza;
  • agli inizi del 1045, papa Benedetto IX fu cacciato da Roma e sostituito da papa Silvestro III; quindi con l’aiuto della sua famiglia e dei Crescenzi il 10 aprile 1045 tornò papa per poi vendere, per 2000 librae, la dignità pontificale al presbitero Giovanni Graziano, suo padrino, che così divenne papa Gregorio VI; lo stesso, su pressioni dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III di Franconia, fu invitato a confessare l’acquisto finanziario del Papato e ad abdicare dopo appena un anno; siamo nel periodo nel quale il papato era oggetto di dispute (talora infami) tra i principi e i nobili romani e l’Imperatore germanico;
  • papa Celestino V, Pietro di Morrone, inesperto nella gestione amministrativa della Chiesa (era stato monaco per tutta la vita), rinunciò il 13 dicembre 1294 con una bolla, che si dice fosse stata redatta dal cardinale Benedetto Caetani, che gli succedette con il nome di papa Bonifacio VIII;
  • papa Gregorio XII, il 4 luglio 1415 rinunziò all’ufficio di Romano pontefice al fine di ratificare, per intervento dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, con il Concilio di Costanza la fine dello Scisma Avignonese d’Occidente.

Ripeto e sottolineo: la rinunzia di papa Benedetto XVI è radicalmente e completamente diversa dalle “cessazioni” sopra riportate.

Le NORME CANONICHE

Il giurista Giovanni Bassiano sosteneva che la rinunzia fosse ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia: «Posset papa ad religionem migrare aut egritudine vel senectute gravatus honori suo cedere», cioè “che il papa possa cambiare religione oppure possa cedere per malattie, invecchiamento e troppa responsabilità”.

Il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Bassiano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.

Le Decretali di papa Gregorio IX, pubblicate nel Liber Extra del 1234, precisavano altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, cioè per un’ignoranza teologica, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo («quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit», cioè “colui che il popolo udì dare scandalo”) e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinunzia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, cioè “zelo di una vita migliore”, già ritenuto ammissibile da altri canonisti.

Nell’immediatezza della rinuncia di papa Celestino V, altri interventi di canonisti, come il francescano Pietro di Giovanni Olivi, i teologi parigini della Sorbonne Magister Godefroid de Fontaines e Magister Pierre d’Auvergne, avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l’illegittimità della rinuncia di Pietro da Morrone. Contro la rinuncia di Celestino si espressero anche Jacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una horrenda novitas, avendo favorito le successioni degli “anticristi” Bonifacio VIII e Benedetto XI.

Successivamente alla rinuncia di Celestino V, papa Bonifacio VIII emanò la Costituzione Quoniam aliqui, a eliminare ogni condizione ostativa e a stabilire l’assoluta libertà del pontefice in carica a rinunciare al papato, una norma recepita dal Codex Iuris Canonici del 1917, sotto papa Benedetto XV.

Il Codice di Diritto canonico, o Codex Iuris Canonici, del 1983, al Libro II “Il popolo di Dio”, parte seconda “La suprema autorità della Chiesa”, capitolo I “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”, contempla la rinuncia all’ufficio di romano pontefice.

Can. 332 § 2. Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur.

«Can. 332 – §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.»

La BIOGRAFIA

Joseph Ratzinger nasce in un paesino bavarese sul fiume Inn nel 1927 in una famiglia modesta. Studia per diventare sacerdote, ma non si ferma, perché va avanti fino a un difficile e profondo Dottorato in Teologia sul concetto di Amore-Caritas-Agàpe in sant’Agostino. A un ufficiale nazista che gli chiede, lui giovanetto diciassettenne arruolato di forza nella guardia contraerea, che gli chiede che cosa vorrà fare da grande, alla sua risposta “Il prete“, ribatté “Non ci sarà posto per i preti nel nostro mondo“.

E’ professore, prima nel seminario di Frisinga e poi ordinario di Teologia sistematica e fondamentale a Bonn, a Tubingen e infine a Regensburg, Ratisbona. Lo sorprende la nomina a arcivescovo di Monaco e Frisinga da parte di papa Paolo VI e il cardinalato che gli conferisce, quasi contemporaneamente, lo stesso papa Paolo; dai primi anni ’80, papa Woytjla lo vuole alla testa della Congregazione per la Dottrina della fede, il ruolo che ispirò al quotidiano Il Manifesto, quando Ratzinger venne eletto papa dopo la morte di Giovanni Paolo II, una (impertinente) definizione, che potrebbe anche essere non dispiaciuta all’interessato, vista la sua affezione per gli animali domestici, e per i gatti in particolare: “Il Pastore Tedesco“. Ricordo che anch’io sorrisi, perché avevo letto di un uomo incline anche all’ironia, oltre che appassionato di musica classica e dei felini domestico-selvatici.

La TEOLOGIA

Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo vede i teologi Karl Rahner e Joseph Ratzinger tra i principali protagonisti, assieme a papa Paolo VI. Appena trentacinquenne, Joseph Ratzinger accompagna il cardinale arcivescovo di Colonia Frings come teologo esperto, e lavora assiduamente nelle commissioni che redigono le due massime Costituzioni conciliari, la Lumen gentium, tematizzata su ciò che la Chiesa è, il Popolo di Dio (cf. art. 1) e la Gaudium et spes, per analizzare e dialogare con il mondo nuovo che già Giovanni XXIII aveva iniziato a comprendere.

Coloro che amano le semplificazioni e non amano la complessità, cioè i pigri, attribuiscono a questo periodo una posizione semplicisticamente progressista al giovane teologo, quasi a collocare sulla opposta polarità la teologia del Ratzinger cardinale custode della fede e poi del papa Benedetto.

Non è così, perché non può essere così. In realtà, Ratzinger ha mantenuto l’agostinismo fondamentale della sua formazione nella la centralità della Caritas, Amore di Dio per l’uomo, cui il Creatore dona ciò che gli permette di comprendere il creato e di adempiere al mandato su di esso. Ratzinger, in questo modo, colloca la teologia nella tradizione culturale dei suoi tempi, accogliendo in essa anche i lasciti “laici” delle riforme intellettuali e culturali date nel tempo, e che, sempre nel tempo, la Chiesa ha fatto proprie. L’allora cardinale non è estraneo, al contrario!, alle scelte e alle dichiarazioni del suo predecessore sugli errori della Chiesa nei confronti di Galileo e della filosofia successiva, pur mantenendo al centro, come solido baluardo intellettuale, la Tradizione del pensiero agostiniano e tommasiano.

Anche ciò che è stato l’evento di Ratisbona, quando (era il 2007) papa Benedetto ebbe ad esprimersi – in quella Università dove aveva insegnato – sotto un profilo teologico-storiografico sull’Islam, e citò una polemica tra l’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo e un teologo musulmano persiano sul profeta Mohamed e sulla tendenza autoritaria dell’islam. Allora fu una errata traduzione e trasmissione ai media della lectio papale a generare gravi polemiche con il mondo musulmano, che poi cessarono quando papa Benedetto approfondì il dialogo inter-religioso, parlando con il Gran Muftì di Istanbul e con il Rettore dell’Università Al Hazar del Cairo, e con altri leader musulmani. Forse “qualcuno” avrebbe dovuto aiutare il Papa a tarare il suo discorso in modo meno accademico e più pastorale, da Papa. Benedetto XVI, purtroppo, non aveva “aiutanti” del livello del cardinale Agostino Casaroli, che invece papa Woytjla ebbe a disposizione. E questo dicendo, desidero lasciare intendere anche ciò che deve essere inteso.

Ratzinger, ovviamente, era ben conscio che anche il cristianesimo per quasi due millenni non è stato esente da autoritarismo e confusione con il potere politico. Non ha mai avuto bisogno il professor Ratzinger che gli si spiegasse “Porta Pia, Roma 1870”! O che fino all’elezione di Pio X, papa Sarto, le potenze cattoliche, come l’Impero Austro-Ungarico ebbero voce in capitolo nell’elezione del Pontefice.

Da un punto di vista della fede, Benedetto XVI non ha mai proposto altro che questo insegnamento, valido per ogni uomo di buona volontà, sia per il credente, sia per l’agnostico e l’ateo: “Vivi etsi Deus daretur…, cioè vivi come se Dio ci fosse”, oa anche “come se Dio non ci fosse (non daretur)”, da cui si comprende bene come l’etica della vita umana e sociale deve essere aperta fraternamente all’altro, anche solo in base all’umana sapienza, che però la Fede illumina e sostiene.

La FILOSOFIA

Nutritosi della filosofia cristiana, a partire da Agostino e Bonaventura da Bagnoregio, ma non disattento alle filosofie contemporanee, Joseph Ratzinger si è mosso teoreticamente soprattutto sui temi del relativismo e del nihilismo, così diffusi e presenti nel pensiero, ma soprattutto negli stili di vita contemporanei. Su questo, papa Benedetto ha ripreso la posizione filosofica di papa Woytjla, che era imbevuto di un tomismo aperto alla fenomenologia di Husserl, e anche all’esistenzialismo cristiano di un Maritain e di un Mounier, non trascurando nemmeno Heidegger e Jean-Paul Sartre. La “lotta” ratzingeriana al relativismo non ha mai avuto nulla a che fare con il rifiuto della scienza moderna, che anzi è stata da lui ritenuta il dono di Dio sviluppato nel tempo dell’uomo. Fides et Ratio, Fede e Ragione, come ali per una capacità di usare tutti i beni dello spirito donati dal Creatore.

Il professor Ratzinger non confondeva certo il “relativismo” filosofico innervato di scettico cinismo di certe visioni economico-politiche del nostro tempo, con l’esigenza di comprendere e di studiare che tutto-è-in-relazione, dall’infinitamente piccolo delle particelle sub-atomiche (papa Benedetto era un ottimo lettore di saggi di fisica e di genetica), alle strutture più grandi: l’uomo e le cose della natura e del mondo. Il tema della complessità era vicino al suo modo di intendere l’uomo, nella sua conformazione antropologica ed etica, e quindi era tutt’altro che un conservatore reazionario! Questo giudizio, ripeto, appartiene solo ad osservatori pregiudizievoli e intellettualmente pigri.

Non è mai stato un conservatore né tanto meno un reazionario. Per lui l’illuminismo è stato generato dal Vangelo, così come tutti i saperi contemporanei. Difensore della Fede e della Ragione.

I TESTI

Non serve ricordare qui tutti i suoi testi accademici, sempre originali e profondi, salvo magari il trattato Io credo, che utilizzò nel corso di teologia fondamentale tenuto a Tubingen, ma non posso non citare la biografia storico-teologica di Gesù di Nazareth, in tre volumi, che ho letto con piacere, perché unisce la serietà dei fondamenti storico-critici relativi alla figura del Maestro nazareno, che è Gesù il Cristo, a una scorrevolezza narrativa che serve ad invogliare alla lettura anche chi specialista o interessato alla teologia non è. Il papa racconta Gesù con precisione, affetto e rispetto per i documenti cui fa riferimento, e per i fondamenti dottrinali della Teologia cristiana.

Le Encicliche: Deus Caritas est, Spe salvi e Caritas in Veritate. Papa Benedetto torna ancora nelle due encicliche al tema dell’Amore-Carità, che diventa il Nome di Dio stesso e anche la misura della qualità del rapporto tra gli esseri umani, come si legge nella Prima Lettera di Giovanni apostolo. Chi mi conosce sa quanto ci tenga, nel mio lavoro e nelle mie docenze, a parlare di Qualità relazionale: ebbene, ho trovato e trovo spesso in queste due Lettere di papa Benedetto ispirazione e suggerimenti che vengono colti anche da persone di formazione prevalentemente tecnica, le quali, però, riescono a percepire l’afflato umano che deve esserci e vivere nelle comunità, in tutte le comunità, comprese le “Comunità di lavoro”, che sono le aziende moderne.

Un altro aspetto è quello del valore dell’amore fisico tra gli esseri umani, tra l’uomo e la donna. Ebbene: proprio, voglio dire, alla faccia di coloro che collocano Ratzinger su una posizione retrograda, costoro leggano bene la Deus Caritas est, cioè Dio è amore, là dove troveranno riferimenti teologici e pratici al Cantico dei cantici, che è un esplicito poema erotico, interpretabile certamente con la chiave letteraria dell’allegoria poetica, e quindi rinviano all’amore di Dio per il suo Popolo e di Gesù per la Chiesa, che è il Popolo di Dio, ma anche, esplicitamente, all’amore umano e a un uso della dimensione sessuale, rispettosa, completa e arricchente per la persona.

Sotto il profilo pastorale, Benedetto XVI è stato presbitero e vescovo, ricomprendendo in questo ruolo anche il papato, che si sostanzia storicamente e canonicamente nella guida della Diocesi di Roma, ed è stato un buon Pastore, sempre attento e rispettoso per le scelte di chi ha incontrato per strada. Fu colui che, prima denunziò e poi combattè ogni deformazione morale presente anche nella Chiesa, a partire dalla pedofilia, che lui definì crimine.

Certamente diverso da chi gli è succeduto sul soglio pontificio, o nel “ministero petrino”, lavoratore nella vigna del Signore, come lui stesso si definì, presentandosi al balcone di San Pietro una mattina di primavera di diciotto anni fa.

Anche il nome che scelse diciotto anni fa, Benedetto, ha a che fare con due ispirazioni, la prima è quella di san Benedetto da Norcia, fondatore di molto dell’Europa e Patrono del nostro continente, la seconda per ricordare papa Benedetto XV, che, allo scoppio della Prima Guerra mondiale parlò, anzi, gridò di “inutile strage”.

Costante compagno di via – per nove anni – di papa Francesco, e perfino suo protettore dai detrattori di quest’ultimo.

Se come teologo è stato profondo e sottile, a volte difficile, sotto il profilo umano e spirituale Joseph Ratzinger è stato mite, umile, gentile e profondo, un uomo di Dio e del mondo.

Que viva Argentina, ma che brutta la vestaglietta di Messi! “Sport-washing” di bassa lega, e che brutti i comportamenti, avuti dopo la conquista del titolo mondiale, del “Dibu” Martinez, portiere argentino dell’Aston Villa, un gran maleducato. Punti persi per la gloriosa Nazionale argentina, cui io tengo, subito dopo l’Italia!

E’ come se fosse “andato a posto” un evento naturale, e perfino razionale, della storia del calcio, che abbia vinto l’Argentina il mondiale di calcio, pure se in… Qatar, cioè in uno dei posti attualmente più sbagliati del mondo, forse battuto nel genere solo dalla Corea del Nord, dall’Iran, dalla Somalia, dalla Libia, dall’Eritrea e compagnia disumana. E naturalmente dalla Russia, che comunque aveva avuto il suo mondiale, (in coabitazione con l’Ucraina!) nel 2018.

Avenida 9 de Julio, Santa Maria de los Buenos Aires

Sono contento che abbia vinto la Albiceleste, in assenza dell’Italia, anche perché l’Argentina è una mezza Italia, a partire da Lionel Messi Cuccittini e da Angel Di Maria, perché ci sono anche Pezzella, Tagliafico, Scaloni, Musso, Rulli, etc.

E perché ha nei suoi “geni” momenti di gioco ammirevole: a volte assomiglia all’Italia e a volte al Brasile nei loro giorni migliori. Dell’Italia ha la ferocia tattica mentre del Brasile ha una parte della sublime arte prestipedatoria (avrebbe detto il magno Gioan Brera fu Carlo).

Sono stato in Argentina a trovare i nostri emigranti qualche decennio fa, e ho parlato friulano a Santa Maria de los Buenos Aires, a Cordoba, a Rosario, a Salta e Colonia Caroja. Mi sono sentito, io già grande, come quando ero bambino, perché l’Argentina è come l’Italia di cinquanta anni fa, o come il Friuli di prima del terremoto, per ricchezza nazionale e per reddito pro capite.

La Francia ha perso perché ha giocato un po’ peggio, soprattutto nel primo tempo, ma non è più debole, forse è vero il contrario. E sul tema calcistico qui mi fermo.

Parlo d’altro: prima dei gesti insulsi, degni del peggior campetto di periferia, da parte del portiere Martinez, che sono parsi squallidini, anzichenò. Ogni tanto emergono in quel tipo di giocatori i peggiori tratti della cultura meridional-ispanica, ma anche italiota, quelli che non sanno dove abiti la lealtà, che pure era insegnata dai filosofi della Magna Grecia, visto che qualche giornalista ha scomodato perfino il paradosso di Achille piè veloce e della tartaruga di Zenone di Elea, per dire che “Achille (Messi) ha finalmente raggiunto la tartaruga (il titolo mondiale)”. Suggerirei a quel giornalista di lasciar perdere i paradossi di Zenone, che non hanno assolutamente il senso elementare che ha voluto intravedere. A ognuno il suo mestiere, come sempre.

Sto parlando dell’hispanidad di quando la grande potenza di Carlo V imperava sui mondi e anche nell’Italia meridionale e a Milano. Penso all’hispanidad del puntiglio di frate Cristoforo giovane che uccide chi non gli dà il passo perché lui è un hidalgo e l’altro è un c.zo qualunque (come disse qualche secolo dopo il marchese del Grillo, Alberti Sordi voce), nel racconto del nostro grande Don Lisander de Milàn.

Non dell’orgoglio di quella cultura che è grande, perché è una declinazione fondamentale della latinità, capace di epiche imprese insieme con dannate vicende coloniali. Ecco: della migliore cultura ispanica mi sembra che Diego Armando Maradona sia un rappresentante inimitabile, magari assieme con don Cristobal Colòn, non a caso un genovese ispanizzato, così come don Diego è stato un argentino napoletanizzato, en el bien y en el mal. Paragoni e paradossi.

Messi non-è-Maradona come uomo. E questo è scontato. Non ha di Diego la sanguigna capacità di appartenenza al popolo e ai capipopolo, come capopolo; Messi è popolare, ma non parla la lingua del popolo; il suo castellano-argentino idiomatico è incerto, la sua voce quasi afona, non esprime concetti percettibili e intelliggibili; fino a questi mondiali non avevo presente il timbro della sua voce, come peraltro di quella di dom Cristiano de Madeira.

La cosa che meno mi è piaciuta di lui, alla consegna del trofeo, è stato l’indossamento prono della orrida vestaglietta da festa nero-trasparente, il così chiamato bisht, che il potente Emiro gli ha porto con autoritaria autorevolezza, in base, pare, alla tradizione saudi-emiratina. Don Diego non l’avrebbe mai accettata, perché l’avrebbe rifiutata con un gesto autorevole senza essere sprezzante, tornando a gioire con la sua maglietta bianca e celeste sporca di fango, perché nel 1986 in Mexico i campi di calcio erano anche fangosi.

A parziale giustificazione di Leo potrei ricordare la seguente parabola matteana 22, 10-14:

(…) 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Ecco, forse Messi ha inconsapevolmente rispettato questo costume vicino-orientale, presente nella Bibbia ed echeggiato nel Corano. Forse… anche perché l’Emiro è anche il suo “datore di lavoro a Paris”.

La Dieci albiceleste per Maradona era come una seconda pelle, come l’azzurra del Napoli Football Club, dove aveva la sua seconda casa del cuore.

Il calcio non è solo un gioco oramai miliardario, che interessa tutti i popoli del mondo, ma è anche un fenomeno da studiare sociologicamente e con gli strumenti della psicologia sociale, dandogli la giusta importanza, per la capacità che ha quel mondo di svelare, non solo gli intrighi qatarini con i loro riflessi brussellesi, ma anche la verità di persone vere, forti, autentiche, come Sinisa Mihajlovic, che Dio l’abbia in gloria.

Esempi, ancorché imperfetti (come è umano che sia), per i giovani.

Un’ultima considerazione per chi ha raccontato il mondiale del Qatar: accanto a narrazioni bellissime e ai riflettori sui diritti umani calpestati in quel luogo e tutt’intorno, anche dalla FIFA (che il signor Infantino si vergogni e con lui Michel Platini, suo predecessore e tutti quelli che hanno “venduto” il mondiale), non dimentico e condanno le esagerazioni cronachistiche e dei commenti. Una per tutte: la vergognosa similitudine di tale signor Gabriele Adani, che ha paragonato le azioni calcistiche di Messi a ciò che viene raccontato nel capitolo secondo del Vangelo secondo Giovanni, dove si narra del miracolo di Cana. Poveretto. Non blasfemo, solo misero.

Pensieri, parole e opere per una “sinistra nuova”, evitando – per quanto possibile – le omissioni

Sono interessato a dare un contributo, nel mio piccolo, alla ricerca di temi, argomenti, priorità, ma soprattutto valori etici e politici per una “sinistra nuova”, non per una “nuova sinistra”, sintagma che potrebbe creare qualche ambiguità o fraintendimenti. Mi piacerebbe che questa mia riflessione arrivasse anche nelle stanze dove in molti si stanno dando da fare per farsi eleggere nuovi capi del Partito Democratico. Senza false modestie, penso che potrebbe essergli utile (se non opportuno o addirittura necessario, visto che da anni (o decenni? dai tempi di Veltroni?) – da quelle parti – non si producono concetti e pensieri di filosofia socio-politica, vero Franceschini, Bersani, Orlando, Zingaretti et co.?, evitando di citare i giovani alla Provenzano, che assomigliano maledettamente ai quattro citati prima.

Storicamente, in Italia, sia la sinistra comunista sia la sinistra socialista, anche se con modalità e in misura diverse, hanno avuto come stella polare il discorso e il valore etico-politico-sociale dell’uguaglianza.

Tale valore ha poi dialogato, almeno dalla seconda metà del XIX secolo, non mancando di confliggere, anche con il mondo cattolico, che per parte sua ha sempre tenuto in evidenza il sentimento e il valore della fratellanza universale tra tutti gli uomini, ispirandosi innanzitutto al biblico versetto 1,26 di Genesi “(Egli, Dio stesso) fece l’uomo a sua immagine“.

L’entimema (sillogismo abbreviato) Dio uomo genere umano, ha ispirato per millenni teorie (dottrine) e prassi dei movimenti religiosi ispirati dal Cristianesimo nelle sue tre principali declinazioni del Cattolicesimo, dell’Ortodossia orientale e del Protestantesimo, anche se quest’ultima modalità storico-religiosa si è distinta abbastanza chiaramente dalla visione cattolica (soprattutto), la quale ha conservato, nel rispetto del nome “cattolico” (che nel sintagma greco katà òlon significa secondo-il-tutto), una valenza morale pratico di universalità.

In altre parole, il Protestantesimo, come si evince dai fondamentali studi di Max Weber (cf. soprattutto L’Etica protestante e lo Spirito del capitalismo), ha evidenziato come la Grazia divina tenda a “privilegiare” (termine oltremodo impreciso) chi si dà da fare nella vita confidando nella Grazia stessa: teologicamente, sulle tracce della lezione paolina e di sant’Agostino, primo ispiratore di frate Martin Luther.

La visione egualitaria delle sinistre storiche si è dunque incontrata con la visione universale del cristianesimo cattolico, costruendo un’alleanza di fatto, soprattutto nelle prassi sociali e sindacali di tutto il ‘900, spesso addirittura in concorrenza per acquisire più adepti tra i lavoratori e nella società civile.

Esemplifico: dopo l’avvio della Guerra fredda negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, la CGIL unitaria (come rappresentanza generale della sinistra sociale), ritrovatasi, dopo il ventennio fascista, con il Patto di Roma del 1944 (mentori il grande e compianto Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore) si spaccò, prima in due parti, con la nascita della CISL (sindacato cattolico) nel 1948, e poi in tre parti, con la nascita nel 1950 della UIL, punto di riferimento delle forze laiche, come socialdemocratici, socialisti e repubblicani (nomi definitivi dopo un periodo di altre denominazioni acronimiche).

Negli anni successivi vi fu concorrenza soprattutto tra la CGIL, che era costituita da tutti coloro che nel mondo del lavoro facevano riferimento al Partito Comunista Italiano e alla maggioranza dei Socialisti (anche dell’area più radicale di Unità proletaria), e la CISL, e il maggiore tema nel quale si dialogò e ci si scontrò era il tema dell’uguaglianza salariale. In quegli anni, solo una parte della FIOM (Federazione Impiegati ed Operai Metallurgici) e la UIL sottolineavano anche l’importanza dell’inquadramento per livelli, con il quale andare a riconoscere capacità professionali diverse e a retribuirle in proporzione.

Tant’è che il mondo dei media coniò anche un termine abbastanza sgradevole nei toni e negli intendimenti per definire la comune sensibilità egualitaristica tra la maggioranza della CGIL e la CISL: andò in auge il termine “cattocomunisti”.

Solo per citare un altro fenomeno intrinseco alla sinistra politica: nei decenni tra gli anni ’60 e gli anni ’80/ ’90, si mossero anche forze di estrema sinistra, variamente denominate, che “nutrirono” gli ulteriori estremismi dell’Autonomia organizzata di un Toni Negri (cattivissimo maestro), fino alle organizzazioni della lotta armata delle Brigate Rosse e di Prima Linea (mentre a destra operava lo stragismo orrendo dei Nar e altri, una cum i servizi segreti deviati). L’onestissima “ragazza del XX secolo”, Rossana Rossanda, riconobbe negli estremismi citati un album di famiglia della sinistra italiana, che non è stata sempre – nella storia – gradualista e parlamentare.

Una nota mia personalissima: nei decenni successivi al massimo fulgore delle organizzazioni di estrema sinistra, mi sono visto sorpassare a destra da innumerevoli ex militanti duri e puri che mi consideravano, essendo io socialista gradualista, più o meno una “spia dei carabinieri”. Ricordo che quando andavo a trovare qualche amico mio, a cui volevo bene anche se non condividevo nulla della sua posizione politica, in quei “centri sociali”, che furono anche fucina di scelte individuali armate, appena mi vedevano si davano la voce (sottovoce): “attenti che arriva Renato, cambiamo argomento“.

Ovviamente si dovrebbe (dovrei) meglio specificare questi fenomeni e questi schieramenti (ad esempio, andrebbe fatto un discorso a parte sui sindacati del Pubblico impiego, dove la Cisl esercitava una sorta di egemonia, con una cultura di stampo corporativistico e conservativo, stante la concorrenza del sindacalismo autonomo), perché la realtà era molto più frastagliata, variegata e complessa. Non dobbiamo dimenticare che tra lavoratori del Pubblico e lavoratori del Privato sussistevano differenze (peraltro ancora presenti) radicali a livello legislativo ricorrenti agli ultimi due decenni del secolo precedente, quando il capo del Governo Francesco Crispi definì giuridicamente il ruolo dell’impiegato pubblico.

Proseguendo in questa analisi sintetica ricordiamo i regi decreti del 1922 sulla distinzione tra qualifiche di operaio e di impiegato, e l’istituzione di Inps e Inail nel 1933, e poi passiamo al secondo dopoguerra.

Negli anni ’60 si tentò l’unità sindacale tra le tre maggiori confederazioni, ma il progetto non riuscì, confermando una sorta di incapacità delle forze sociali di auto-riformarsi, potendosi dire che la fine del comunismo post 1989 non ha generato quasi alcun cambiamento nel sindacato, mentre alcuni partiti della sinistra sono stati smantellati dai giudici ai tempi di tangentopoli. Solo il PCI-PDS se la cavò…

Vengo al nucleo concettuale cui desidero continuare a dare spazio, sulla traccia di post immediatamente precedenti. Se storicamente le sinistre hanno sostenuto prevalentemente il valore dell’uguaglianza nella sicurezza, ora dovrebbe essere in grado di comprendere l’importanza dell’equità nella libertà, che le giovani generazioni mostrano di preferire, stanchi dell’egualitarismo collettivistico delle sinistra storiche.

Se la sinistra non riuscirà a dare centralità a questa “riforma etico-culturale”, l’importanza di un pensiero “di sinistra” sarà sempre meno significativo se vogliamo parlare più in generale dell’economia e della società italiana.

Riassumendo, l’Italia è la 3a potenza economica d’Europa, è 1a o 2a nella manifattura, 1a nel settore metalmeccanico, ma è penultima dell’aumento del Pil e ha lasciato i salari fermi da almeno trent’anni.

Mi chiedo: quante responsabilità ha la sinistra politica (i partiti) e quella sociale (i sindacati) in questo deliquio retributivo?

I lavoratori italiani, a differenza dei loro colleghi delle principali Nazioni, sono gli unici ad avere perso potere d’acquisto, nonostante il meraviglioso sistema del Made in Italy.

Le persone, e i lavoratori in primis, temono il futuro e, anche quando hanno mezzi economici, non spendono, e dunque la domanda interna crolla, mentre sul versante pubblico mancano gli investimenti e una seria riforma per la sburocratizzazione del sistema.

Può la sinistra suggerire un pensiero politico economico nuovo, di rilancio dello sviluppo? A mio parere sì, ma non deve continuare a pensare e a muoversi come sta facendo ora.

Può essere ancora attuale un pensiero socialista democratico che faccia chiarezza sul valore intrinseco delle imprese in un bilanciamento tra diritti e doveri, sia degli imprenditori sia dei lavoratori?

Domanda retorica: io ci credo, mi piacerebbe ci credessero anche quelli che stanno preparando il loro Congresso, tra dichiarazioni presuntuose e paura del cambiamento! E altri tutt’intorno.

Il raglio dell’asino, ovvero di come la verità “scappa” (nel senso che è incomprimibile) sempre da tutte le parti. Alcuni asini di questi tempi: i genitori, oltre a diversi politici

L’amico Franco che non è esente da peccati, come peraltro ciascuno di noi, io in primis, mi ha offerto una interessante metafora, quella dell’asino che, anche se travestito da cavallo, non potrà mai confondere il suo padrone o il compratore, circa la sua natura di equino.

In altre parole, pure se agghindato come un destriero, un asino sarà sempre tale, perché prima o poi gli scapperà un potente raglio.

Il raglio non è un nitrito… E questo vale in ogni ambiente e in ogni situazione. Quante persone che sono asini cercano in tutti i modi di assomigliare a cavalli!

Attenzione, non sto denigrando l’asino, che è un animale intelligente, splendido, ma sto ragionando sul bisogno che molti hanno di apparire ciò che non sono. La politica è uno degli ambienti più ricchi di cavalli che ragliano.

L’attuale capo dei 5 Stelle è uno di questi. Parlo di Giuseppe Conte da Foggia, avvocato. Ma è solo un esempio, perché questo signore è in buona compagnia tra i suoi sodali e al di fuori, negli altri partiti. Devo dire che, dopo queste elezioni politiche, il meno “asino” di tutti, nonostante abbia compiuto molti errori di conduzione del suo partito, si è rivelato Enrico Letta, che ha capito di avere concluso il suo percorso e di aver esaurito la sua “spinta propulsiva” (efficace espressione berlingueriana) in un partito più confuso di lui. Per passione politica, mi auguro che il nuovo segretario rinnovi anche lo staff del segretario uscente, perché di livello politico penoso, impresentabile, con ciò augurandomi/ loro che vi siano persone migliori di queste ultime. Anzi, ci credo.

L’asino (Equus africanus asinus – Linnaeus, 1758), detto anche somaro, è un mammifero perissodattilo della famiglia Equidae. Deriva dall’asino selvatico africano (Equus africanus) attraverso una selezione della sottospecie nubiana.

Non occorre qui descriva l’asino, animale energico e nevrile, addomesticato dall’uomo da millenni, forse dal 3000 a.C. in Egitto, diffuso in diverse razze nelle varie regioni del mondo, le cui forme e abitudini sono note a tutti o quasi. Forse non ai ragazzi delle ultime generazioni, come mostra il racconto con il quale chiudo questo articolo.

L’animale è adatto al trasporto di some e al traino di carretti anche su terreni difficili, utilizzato anche dalla truppe alpine, anche se meno del suo fratello maggiore, il mulo, che nasce da un asino e da una cavalla.

Ai primi del ‘900 fu anche pubblicata dai socialisti una rivista di critica e satira contro gli scandali di quegli anni e le repressioni poliziesche, chiamata L’Asino, sotto la guida di Guido Podrecca, universitario cividalese e pupazzettista straordinario. I cattolici editarono Il Mulo, per far contro ai socialisti. Tanto per raccontare a chi non lo sa cose di un secolo fa e oltre.

L’asino di Buridano (o “Paradosso dell’asino”) è un apologo tradizionalmente attribuito al filosofo della prima metà del XIV sec. Giovanni Buridano (1295-1300 circa – 1361), ma che probabilmente non è dovuto a lui, poiché non si trova negli scritti di Buridano, né corrisponde alle sue idee relativamente alla libertà, dato che piuttosto egli oscilla tra il volontarismo e l’identificazione (aristotelico-averroistica) di intelletto e volontà. È probabile che la storia, derivata da un problema del De caelo (Aristotele, De caelo, II, 295 b 31-34), sia nata nelle discussioni di scuola, ove è documentata.

L’apologo narra come un asino posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza non sappia quale scegliere, morendo di fame e sete nell’incertezza.

Secondo Buridano l’intelletto è sempre in grado di indicare all’uomo quale sia la scelta giusta tra le varie diverse alternative tanto che se, per assurdo, la scelta fosse costituita da due elementi identici la volontà si paralizzerebbe a meno che non si scegliesse di non scegliere. Esamina il paradosso nel II libro dell’Etica:

Per commentare il racconto riporto due riflessioni, la prima di Baruch Spinoza:

«In quarto luogo si può obiettare: se l’uomo non opera per libertà del volere, che cosa accade quando si trovi in uno stato di equilibrio come l’asino di Buridano? Morirà di fame e di sete? Se lo concedo, sembra che io concepisca un’asina o una statua di uomo, non un uomo; se invece lo nego, ne consegue che egli può determinare sé stesso e quindi ha la facoltà di andare [verso il cibo] e di fare quel che vuole. (…) Per quanto riguarda la quarta obiezione, concedo che l’uomo, posto in un tale equilibrio (cioè di chi non percepisce altro che la sete e la fame, tale cibo e tale bevanda, che distano ugualmente da lui), perirà di fame e di sete. Se mi domando: un tale uomo non è da considerare piuttosto un asino che un uomo? rispondo di non saperlo, come non so in qual modo sia da considerare chi si impicca e come siano da considerare i bambini, gli stolti, i pazzi etc.»

…la seconda di Johann Gottfried Leibniz:

«(…)È vero che bisognerebbe affermare, se il caso fosse possibile, che l’asino finirebbe per morire di fame…Infatti l’universo non potrebbe essere bipartito…in modo che tutto fosse uguale e simile da una parte e dall’altra, come una ellissi o un’altra figura in un piano, del numero di quelle che io chiamo ambidestre, che siano bipartite da qualche linea retta passante per il centro…. Vi saranno perciò molte cose, dentro e fuori l’asino, anche se non ci appaiono, che lo determineranno a dirigersi piuttosto da una parte che dall’altra. E benché l’uomo sia libero, mentre l’asino non lo è, non cessa perciò d’essere vero, e per la stessa ragione, che anche nell’uomo il caso di un equilibrio perfetto tra due parti è impossibile e che un angelo, o Dio almeno, potrebbe sempre trovare la ragione del partito preso dall’uomo, indicando la causa o la ragione inclinante che l’ha realmente indotto a prenderlo, anche se questa ragione molto spesso è composta ed inconcepibile a noi stessi, perché la connessione delle cause le une con le altre va molto lontano.»

Ora la risposta della ragione per cui ho scomodato Buridano e il “suo” asino. Trovo anche gli asini siano numerosi non solo nella politica, ma anche nella ordinaria vita civile e familiare. Un esempio di asineria clamorosa.

A Wollogong in Australia si è svolto in questi giorni di inizio autunno il campionato mondiale di ciclismo. La notte prima delle gara su strada dei professionisti, poi vinta dal meraviglioso Remco Evenepoel, alcune ragazzine scapestrati hanno impedito di dormire a Mathieu Van der Poel, grande generoso campione olandese, figlio di Adrie e nipote di Raymond Poulidor. Probabilmente Mathieu è uscito sul corridoio e può avere forse rimproverato e anche spinto qualcuna delle piccole teppistelle, figlie di genitori imbecilli. La mattina la polizia gli ha sequestrato il passaporto e comunicato che dovrà rimanere per sei settimane a disposizione delle autorità locali per un processo. Poi, si è saputo che tutto si è risolto con una multa di 1500 dollari a Van der Poel. Becco e bastonato.

Resta un fatto: dove erano i genitori dei ragazzini che all’una di notte imperversavano nei corridoi dell’albergo? Dove era il personale dell’albergo? Dove lo staff della squadra olandese? Come si tratteranno le piccole teppiste, con un bonario rabbuffo?

Se la cosa fosse successa qualche decina di anni fa, le ragazzine avrebbero temuto l’arrivo dei genitori, mentre ora al contrario i genitori difendono i propri piccoli idioti a prescindere dai loro comportamenti, come raccontano numerosi fatti di cronaca italiana che registrano aggressioni a insegnanti, insulti e denunce. I giovanissimi maleducati, invece, rimangono largamente impuniti e soprattutto, ciò che è peggio, in-educati.

E’ un insulto all’asino paragonare queste generazioni di genitori al nobile equino, ma lui capirà che si tratta di una metafora legata a una certa immagine popolare, e la sopporterà.

Caro lettore, ti immagini se al Ministero dell’Interno, dopo le elezioni, andasse un amico di Putin, cioè Salvini? …però, voi iscritti al PD dite a Letta di non continuare a fare errori tattici: Zan, jus schola, ora tassazione su eredità, e altre proposte poco tempestive che NON portano neanche un voto… perché sono cose che si fanno DOPO!!! (Un po’ di competenze politiche, santoiddio!). Non so se Letta non riesce a pensarci o se ha consiglieri inadeguati, cosa forse ancora peggiore

Sono esplicito: non mi fido dello sbruffone di colore verde che proclama di voler fare cose impossibili. Non lo nomino neppure.

Anche quella signora che prenderà più voti di lui, e che ufficialmente sta più a destra, mi disturba meno, perché è più coerente e meno casinista. Di lei, quanto ad atlantismo, inteso non nel senso kissingeriano o bushiano o trumpiano, e nemmeno bideniano (per scarsa lucidità), mi fido di più che non degli altri due, che non nomino.

Si tratta di un atlantismo che mi ricorda perfino quello di Berlinguer che, quando nel 1973, dopo il golpe di Pinochet in Cile, affermò, facendo oltremodo incazz. Breznev, che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato, piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia.

Tant’è che i sovietici, tramite i bulgari (sempre loro, vero caro papa Wojtyla? ovunque tu sia, santo nel paradiso dei beati) cercarono di farlo fuori per le vie solitarie di Sofia.

Io sono per un “atlantismo” alla Berlinguer, che non era solo tattico, ma strategico. Con tutti i loro difetti, le democrazie occidentali, anche se a volte sostengono sistemi incompatibili con i principi democratici, sono cento volte meglio del populismo dittatoriale di Russia e Cina, dove il nazionalismo si associa a un conservatorismo rosso (Cina) e a un tradizionalismo di colore almeno marron scuro (Russia).

Ricordi, mio caro lettore, le “camicie brune” di Ernst Roehm? Quelle che prima stettero fedelmente al servizio di Hitler e poi furono fatte fuori dalle SS non appena furono ritenute in odore di eresia nazionalsocialista e quindi inaffidabili dal Pazzo? Bene, molti pezzi della cultura populista, tradizionalista, falso-cristiana sembrano apparentate a questa orribile eredità.

Proviamo a vedere altri. In questo novero confuso, populista e demagogico, un posto d’onore spetta, in Italia, ai Cinque Stelle, nate dalla fantasia di un comico televisivo e piazzaiolo: costoro hanno dato risposta a uno scontento macrognoso tra il 2013 e il 2018 arrivando fino al 33%. Pensare che si tratta della percentuale che Veltroni aveva raggiunto con il PD nel 2008, dopodiché si dimise. Incomprensibile, se non si pensa all’invidia dalemiana. Poi Renzi, altro campione di supponenza arrogante, fece di peggio, con il suo 41% alle Europee del 2014: volle intestarsi la sconfitta nel referendum per le riforme istituzionali e divenne un fragile partitino di centro, che però fece valere molto efficacemente negli anni successivi.

La sinistra è stata storicamente specializzata a dividersi,e perfino a spezzettarsi (si pensi alla sempre rinnovata stagione dei partitini a sinistra del PCI/ PDS/ DS/ PD, da Lotta Continua a Sinistra Italiana) e a scontare pene che i suoi elettori non meritavano, e non meritano, a partire dal Congresso del Partito Socialista Italiano del 1921. Il Partito di quell’anno era scosso da profonde divisioni tra gradualisti (tra cui mi colloco io da quando ero bambino, perché mio padre mi spiegava che gli operai devono mostrare il loro valore prima di chiedere nuovi diritti, e la sua vita fu un esempio di socialista silenzioso e coerente, mentre suo cognato, il mio zio ricco, il “Signor Zio” Massimiliano Gattolini mi chiedeva che simpatie politiche avessi consigliandomi le sue, per il Partito Liberale) e massimalisti, che diventarono comunisti.

Caro lettore, prova a guardare sul web i socialisti di ogni tempo, trovi di tutto, non solo Bissolati Leonida, Mussolini (sic!) Benito (in memoria del rivoluzionario messicano Benito Juarez), Turati Filippo, Costa Andrea, Kuliscioff Anna, Balabanoff Angelica, Morandi Rodolfo, Lombardi Riccardo, Nenni Pietro, Craxi Benedetto detto Bettino e si suoi due figli, Sacconi Maurizio, Brunetta Renato, De Michelis Gianni, Martelli Claudio, Spini Valdo, De Martino Francesco, Mancini Giacomo, Formica Rino, Marianetti Agostino, Boniver Margherita, Del Turco Ottaviano, Viglianesi Italo, i cari Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e Marco Biagi, la carissima Roberta Breda, ma anche quelli che sarebbero diventati comunisti a Livorno nel ’21: trovi Gramsci Antonio, Togliatti Palmiro, Terracini Umberto, Bordiga Amadeo, Bombacci Nicola, che sarebbe stato fucilato con i gerarchi catturati da Audisio Walter a Dongo il 29 aprile del ’45, e gridò, morendo “viva il Socialismo“, che lui aveva creduto sopravvivesse nel fascismo mussoliniano. E perfino Bertinotti Fausto, che da buon uomo di sinistra fece cadere Prodi Romano per poi avere Berlusconi Silvio. Poverino, Bertinotti, intendo.

Torno ai 5S, smagriti dopo le defezioni dimaiane e individuali. Ridotti ai minimi termini, come meritano. E come soprattutto merita il loro sussiegoso presidente, già da me qui “cantato” come uno dei tre superbi narcisi della politica italiana. Letta li ha corteggiati fino a che, una cum la destra più bieca (non quella meloniana, chiarisco, perché Meloni è stata sorpresa e spiazzata per questa anticipazione da nulla dei tempi delle elezioni, e ha telefonato a Draghi per capirci qualcosa sulle cose da fare ineluttabili per il PNRR e non solo), non hanno fatto cadere l’unico Governo decente che l’Italia poteva (e può) permettersi in questi tempi storici. Draghi, non solo governava bene, ma era diventato la guida dell’Europa, con un Macron indebolito e uno Scholz poco meno che esistente.

Tajani e Letta hanno sostenuto Draghi fino a che non è stato “fatto fuori” dai vecchi alleati gialloverdi, che obiettivamente lo sono ancora. Per la sua dignità personale non avrebbe potuto rimanere in mezzo a dei traditori, anzi molto meno, a dei poveretti. Ora, di “agenda Draghi” parlano solo l’eterno parvenù del San Paolo, ora Stadio “Diego Armando Maradona”, che mi viene da piangere alla possibilità che dovrebbe saper spiegare politica a me; e il chiacchierante pariolino, che ha una parola buona per tutti come queste “Inetto, inadeguato, sega!” rivolte poche settimane fa a Letta con il quale oggi dovrà obiettivamente allearsi.

Ora, caro lettore, dimmi che cosa dovrebbe votare un vecchio socialista cattolico come me, dimmi tu. Non ti dico chi voterò, ma il suo profilo, e lo voterò turandomi una delle due narici del naso: voterò uno che con una manciata di voti ha mandato a casa due volte Conte e ha lavorato perché Draghi diventasse capo del Governo di questa amata e sfortunata Patria.

Di persona questo giovane uomo non mi piace, perché ha un atteggiamento spocchioso e superbo, ebbene sì, anche lui, come diversi altri! La spocchia superba è una malattia diffusa tra i politici, e anche tra alcune uome (o uomine?) politiche. E non si adontino di questi miei scherzi lessicali le donne, femministe o meno che siano. Tantomeno se si tratta di una Annunziata o di una De Gregorio.

Pensa, caro lettore, che la sua segreteria mi ha invitato all’assise del partito tramite twitter, e io ho ringraziato scrivendo che io all’assise del suo partito potrei anche partecipare, ma come relatore. Uno dei relatori, intendo, ovviamente.

E’ superbia la mia? No, consapevolezza, quella che lui, di sé (seguo le indicazioni del prof Serianni sull’accentazione di “sé”) stesso, come i più, non ha.

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